IN GUERRA CON LA CINA ? I PERICOLI DI UNA CONFLAGRAZIONE GLOBALE (PARTE PRIMA)

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L’ASCESA E IL DECLINO DEI POTERI ECONOMICI: IL CONFLITTO CINA-USA SI INASPRISCE

DI JAMES PETRAS
globalresearch.ca

Introduzione

I conflitti sempre più intensi tra Stati Uniti e Cina condurranno inevitabilmente ad una conflagrazione globale? Se cerchiamo una risposta nel passato recente, questa sembra essere un clamoroso sì. Le guerre più rovinose del XX secolo sono state il risultato di bracci di ferro tra potenze imperieliste affermate e nascenti. Le esperienze e politiche delle prime fungono da linea guida per le seconde.

Lo sfruttamento coloniale dell’India da parte dell’Inghilterra, dei suoi affari, dei suoi tesori, delle materie prime e del lavoro sono servite da modello per la guerra tedesca e per il suo tentativo di conquista della Russia [1]. L’ostilità tra Churchill e Hitler aveva tanto a che fare con le loro comuni mire imperialistiche quanto ne aveva con le loro contrastanti idee politiche. Inoltre, il saccheggio coloniale perpetrato da Europa e Stati Uniti nel sudest asiatico e nelle città della costa cinese sono state uno spunto per l’iniziativa del Giappone volta allo sfruttamento di Manciuria, Corea e Cina continentale.

Ogni qualvolta si siano verificati, i conflitti tra antiche, ma stagnanti, potenze imperialistiche e imperi appena svluppati e dinamici ha condotto a guerre mondiali in cui solo l’intervendo di un terzo potere imperialistico – gli Stati Uniti (così come l’inattesa prodezza militare dell’Unione Sovietica) – ha assicurato la difesa dell’impero nascente. Gli Stati Uniti stessi sono emersi come potenza imperialistica dominante a seguito di una guerra, hanno rimpiazzato le affermate potenze europee e subordinato quelle nascenti di Germania e Giappone, affrontando il blocco cino-sovietico [2]. Con il crollo dell’URSS e la mutazione della Cina in un paese dinamico e capitalista, il terreno era preparato per un nuovo scontro tra una potenza affermata, ovvero quella di Stati Uniti ed Europa, e una nuova potenza emergente a livello mondiale: la Cina.

L’impero degli Stati Uniti conta nel mondo circa 800 basi militari [3], alleanze multilaterali (NATO) e bilaterali, una posizione dominante all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali sedicenti (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale), nelle banche multinazionali, nelle società finanziarie e nelle industrie presenti in Asia, America Latina, Europa e altrove.

La Cina non ha sfidato né adottato il modello statunitense di costruzione di un impero attraverso l’imposizione di un potere militare. Né tantomeno si ispira agli approcci utilizzati da Giappone e Germania per competere con le potenze imperialiste affermate. La sua crescita dinamica è stimolata dalla competitività economica, i rapporti commerciali vengono guidati da uno stato in via di sviluppo e con la volontà di trarre spunti, imparare, innovare ed espandersi, internamente e oltreoceano, scalzando la supremazia statunitense nell’America Latina, nell’Medio Oriente e in Asia, così come negli Stati Uniti stessi e nell’Unione Europea [4].

Stati Imperialisti Affermati

Le guerre mondiali e regionali, nella misura in cui hanno coinvolto gli stati imperialisti affermati (e gran parte delle guerre erano state direttamente o indirettamente innescate da stati imperialisti), sono state il risultato di sforzi volti a conservare posizioni di privilegio nei mercati stabili, ottenere l’accesso alle materie prime, sfruttare l’industria attraverso accordi mercantili, coloniali, bilaterali e multilaterali. Le regioni caratterizzate da un alto numero di scambi hanno creato legami con gli stati imperialisti, rendendoli dipendenti ed escludendo i potenziali concorrenti.

Vista la condizione di privilegio e di antica fondazione del loro dominio imperialista, gli stati affermati hanno descrito quelli emergenti come “aggressori” che minacciavano la “pace”, ovvero la loro condizione egemonica. Così come era successo per le potenze affermate, gli stati imperialisti emergenti hanno seguito uno schema di conquista militare di paesi coloniali e non coloniali degli stati affermati, con tanto di saccheggio finale [5]. Mancando della rete d’appoggio, di governatori e coloni delle potenze affermate, hanno fatto leva sul potere militare, sui movimenti separatisti e sui “collaborazionisti” (movimenti locali, fondamentalmente fedeli alla potenza imperialista emergente). Le potenze emergenti hanno dichiarato che la “legittimità” della loro richiesta ad una suddivisione del potere mondiale era stata ostacolata da boicottaggi economici illegali, come quello per l’accesso alle materie prime e ai sistemi mercantili coloniali, che hanno chiuso loro dei potenziali mercati [6]. La sconfitta degli stati affermati da parte degli emergenti (Germania e Giappone), con la sostanziale marcia indietro di Unione Sovietica e Stati Uniti, ha visto nascere una nuova configurazione di potenze che competono e lottano su nuove basi. L’Unione Sovietica ha fondato un gruppo di stati satelliti aggregati attorno a principi ideologico-militari, confinati nell’est europeo, in cui un potere imperialistico centrale sovvenziona i propri subordinati in cambio di controllo politico. Gli Stati Uniti hanno sostituito le potenze coloniali europee con una rete di trattati militari su scala mondiale e una violenta infiltrazione negli ex stati coloniali con un sistema di dipendenze neo-colonialiste [7].

Il collasso dell’impero sovietico e l’implosione dell’Unione Sovietica hanno aperto in tempi brevi nuove prospettive a Washington, per un impero unipolare privo di concorrenza, una “pax americana” [8]. Questa “visione”, basata su un’analisi superficiale e monodimensionale sella supremazia militare statunitense, ha trascurato molte debolezze cruciali:

Il relativo declino del potere economico degli Stati Uniti, posto di fronte all’ostinata competizione europea, giapponese, dei nuovi paesi industrializzati e – all’inizio dei primi anni novanta – della Cina.

Le fragili fondamenta del potere imperialista statunitense nel terzo mondo, poggiate sull’alta vulnerabilità dei sistemi economici dei subordinati, soggetti a saccheggio, non sono riuscite a reggere.

La de-industrializzazione e la finanziarizzazione dell’economia statunitense hanno portato ad un declino dello scambio di merci e ad un aumento della dipendenza dai servizi finanziari. La quasi totale speculazione del settore finanziario ha comportato una enorme volatilità e lo sfruttamento delle risorse produttive, parallelamente all’aumento del debito.

In altre parole, la “facciata esterna” di un impero unipolare ha offuscato la crescente degenerazione interna e la profonda contraddizione tra l’espansione esterna e il deterioramento nazionale. La rapida espansione militare degli Stati Uniti e la sostituzione del patto di Varsavia con l’incorporazione dei paesi dell’est europeo nella NATO hanno creato l’immagine di un impero economico dinamico.

Si sono creati svariati problemi, dal momento che il bottino è stato trafugato in un’unica soluzione; il saccheggio, principalmente per mani di un’oligarchia di gangster russi arricchiti; la privatizzazione di gran parte delle ditte pubbliche, con il passaggio nelle mani della Germania e dei paesi dell’Unione Europea. L’impero statunitense, che ha sostenuto i costi di promozione della caduta dell’URSS, non ne è stato il primo beneficiario – i suoi guadagni sono stati principalmente di carattere militare, ideologico e simbolico.

Tra le inevitabili conseguenze a lungo termine del dopo Russia, le vittorie militari collezionate dagli Stati Uniti durante i regimi di Bush padre e Clinton, nella prima metà degli anni ’90. L’invasione dell’Iraq e il rapido crollo della Jugoslavia hanno dato un enorme impeto alla costruzione dell’impero militare statunitense. Le rapide vittorie militari, la conseguente colonizzazione de facto del Nord dell’Iraq e il controllo imposto sui suoi scambi, oltre che sulle sue ricchezze, ha ridato vita all’idea che l’imperialismo colonialista fosse un progetto storico realizzabile. Inoltre, la fondazione dell’entità kosova (conseguente al bombardamento di Belgrado) e la sua trasformazione in una immensa base militare NATO ha rafforzato l’idea che l’espansione globale attraverso manovre militari fosse “la tendenza del futuro” [9]. Ancor più disastroso, la supremazia militare su quella economica ha comportato la costruzione dell’impero, portando ad un influenza sempre maggiore di ideologie militaristiche profondamente legate alla metafisica militare israeliano-sionista di guerre coloniali senza fine [10]. Come risultato, all’inizio del nuovo millennio tutte le parti politiche, militari e ideologiche erano al loro posto, pronte a lanciare una serie di guerre imperialistico-sioniste, che avrebbero poi corroso l’economia statunitense, abbassato profondamente il suo budget e il suo deficit d’affari, e aperto la strada ai nuovi imperi basati sul mercato dell’economia dinamica [11].

A differenza delle potenze imperialiste nascenti, la Cina ha puntato fin dall’inizio sullo sviluppo di forze produttive locali, costruendo sulle conquiste fondamentali della propria rivoluzione sociale. Tale rivoluzione ha creato un paese unificato, ha spodestato le enclavi coloniali, ha creato una forza lavoro sana ed istruita, infrastrutture di base e industrie. Le nuove leadership capitaliste hanno convertito l’economia all’estero e portato capitale estero per fornire tecnologia, hanno aperto ai mercati oltreoceano e alle abilità manageriali capitalistiche, pur mantenendo il controllo sul sitstema finanziario e sulle industrie più strategiche. Cosa ancor più importante, hanno quasi privatizzato l’agricoltura, creando un aumento della forza lavoro in svariati milioni di posti a basso reddito, e quindi un’intenso sfruttamento del lavoro nelle industrie di assemblamento. I nuovi capitalisti hanno eliminato la rete di sicurezza sociale del servizio sanitario e dell’istruzione di base gratuite, forzando i tassi sui risparmi per coprire le spese mediche e per l’insegnamento, e aumentando i tassi sugli investimenti a livelli astronomici. Inizialmente, quantomeno, la Cina, a differenza delle precedenti potenze imperialiste nascenti, ha intensificato lo sfrutamento del lavoro e delle risorse locali, anziché impegnarsi in conquiste militari oltreoceano, nel saccheggio delle risorse e nello sfruttamento di “lavori forzati”.

L’espansione oltreoceano della Cina si è basata su aspetti economici, su una triplice alleanza tra capitali statali, stranieri e nazionali, all’interno della quale, col passare del tempo, il ruolo di ogni attore è variato a seconda delle circostanze politiche ed economiche, e con loro si è avuto il riallineamento delle foze capitaliste interne.

Fin dall’inizio il mercato interno è stato sacrificato a favore di quello estero. Il consumo di massa veniva dopo gli investimenti, i profitti, il benessere dello stato e di una élite privata. L’accumuilazione rapida e massiccia ha amplificato le ineguaglianze e concentrato il potere al vertice del nuovo sistema ibrido di classi statal-capitalistiche [12].

A differenza di quanto accaduto per le potenze imperialiste affermate e per gli Stati Uniti di oggi, la Cina, come potenza emergente, ha subordinato le banche a finanziare le industrie, specialmente quelle impegnate nelle esportazioni. A differenza degli Stati Uniti, la Cina ha ripudiato l’idea di sostenere grosse spese miliatri per basi oltreoceano, guerre coloniali e costose occupazioni militari. I suoi beni, invece, sono entrati nei mercati, incudendo quelli delle potenze affermate. La Cina si è ritrovata in una situazione sui generis, nella quale prende in prestito la tecnologia e acquista esperienza da multinazionali con basi imperialistiche, per poi riutilizzare le capacità acquisite per migliorare il ciclo produttivo, dall’assemblamento alla manifattura, ottenendo innovativi prodotti di alto valore [13].

I paesi imperialisti emergenti hanno aumentato le proprie esportazioni, limitando con fermezza l’infiltrarsi di servizi finanziari, la nuova forza trainante delle potenze consoldate. Il risultato, nel tempo, è stato un crescente deficit di scambi non solo con la Cina, ma con circa un centinaio di altri paesi nel mondo. Il primato delle élite imperialiste guidate finanziariamente dalle proprie forze militari ha inibito lo sviluppo del mercato di prodotti ad alta tecnologia, che sarebbe stato in grado di introdursi negli scambi dei paesi emergenti, riducendo il deficit d’affari. Invece, il settore industriale arretrato e sottosviluppato, non è stato in grado di competere con i prodotti cinesi a basso costo di produzione, e insieme all’élite di burocrati superpagati e ancorati al passato, hanno reclamato una competizione ingiusta e “una svalutazione della moneta cinese”. Hanno trascurato il fatto che il deficit statunitense è in realtà il prodotto di configurazioni economiche interne e madornali sbilanci tra il settore finanziario, quello manifatturiero e quello produttivo. Un’armata di autori finanziari, economisti, ed esperti di varia natura, legati al capitale finanziario dominante, hanno fornito l’alibi ideologico alla campagna contro il potere economico nascente della Cina [14].

In passato, i paesi imperialisti affermati avevano organizzato una “divisione del lavoro”. Nel modello coloniale, le regioni sotto il controllo straniero fornivano i materiali grezzi ed importavano beni manifatturieri dai coloni. Nel primo periodo post-coloniale la divisione del lavoro prevedeva la produzione intensiva di beni nei paesi neo-indipendenti in cambio di beni tecnologicamente più avanzati provenienti dai paesi imperialisti affermati. Un “terzo stadio” della divisione del lavoro è stato diffuso dalle ideologie del capitale finanziario, che vede le potenze affermate esportare servizi (finanziari, tecnologici, d’intrattenimento, ecc…) in cambio sia di forza lavoro che di beni manifatturieri avanzati. Le ideologie alla base di questa terza fase davano per assunto che il guadagno invisibile risultante da capitale finanziario rimpatriato avrebbe “bilanciato” le uscite generate dagli scambi commerciali. Il monopolio finanziario di Wall Street e della City di Londra dovrebbe assicurare il rientro di capitali in grado di mantenere in equilibrio il bilancio. Quest’assunzione errata si era basata sui primi modelli coloniali e post-coloniali, nei quali i paesi agro-minerari e industriali non controllavano le proprie finanze, le assicurazioni o il trasporto internazionale e interno delle materie prime. Oggi le cose non vanno così. I paesi come la Cina, che non sono in grado di dominare i mercati finanziari, hanno intensificato le proprie attività speculative interne ed intra-imperialistiche. Questo ha portato ad una spirale dell’economia fittizia, al suo inevitabile collasso e all’accumulazione di debito esterno, oltre ad una carenza di scambi.

Al contrario, la Cina sta facendo crescere il proprio settore industriale dosando le importazioni di materie prime semi-raffinate per l’assemblaggio, la tecnologia necessaria alla propria produzione industriale e il capitale legato alla maggior parte degli impianti di proprietà nazionale, con la vendita di prodotti finiti negli Stati Uniti, in Europa e nel resto del mondo. Attraverso le banche statali mantiene il controllo sul settore finanziario, grazie al quale può contenere l’uscita di “guadagni invisibili” sborsati alle potenze imperialiste affermate.

D’altro canto, le potenze affermate sono impegnate in spese militari, altamente non produttive e inefficienti (con costi di miliardi di dollari), e in guerre coloniali prive di “rendimento imperialista” [15]. Paesi come la Cina versano, invece, centinaia di miliardi nella costruzione della propria economia interna, come trampolino per la conquista dei mercati esteri. Le brutali guerre imperial-colonialiste delle potenze affermate hanno comportato la conquista, attraverso l’uso della forza, di milioni di persone, ma anche la dispersione di ingenti quantità di capitale. La Cina, invece, nel processo di accumulazione di capitale per la riproduzione estensiva nel mercato interno ed estero, ha sfruttato al massimo centinaia di milioni di lavoratori emigranti. A differenza del passato, oggi sono le potenze affermate a ricorrere all’aggressione militare per mantenere i mercati, mentre le quelle emergenti si espandono oltreoceano attraverso la competitività sui mercati.

La “malattia economica” dei paesi imperialisti affermati risiede nella loro tendenza ad allargare i settori finanziari, spostando il proprio piano d’azione dalla promozione dell’industria e degli affari alla speculazione e ad altre attività malsane, che hanno come unico effetto quello di alimentare se stesse ed autodistruggersi. Al contrario, i paesi emergenti convertono i capitali dai finanziamenti industriali interni per assicurarsi i materiali grezzi per l’industria oltreoceano.

Differenze tra basi dell’impero e “diaspore”

Ci sono importanti differenze tra i paesi imperialisti del passato, quelli attuali, e le varie diaspore oltreoceano. Nel passato, le basi imperialiste generalmente dettavano legge alle proprie colonie assicurando mercenari, coscritti e volontari per le loro guerre di conquista, così come facendo investimenti vantaggiosi e tessendo relazioni di scambio favorevoli. In alcuni casi i coloni hanno influenzato la politica dell’impero attraverso i loro rappresentanti, arrivando ad ottenere anche il decentramento del potere. Inoltre, alcuni coloni rimpatriati hanno ricevuto supporto politico dai poteri centrali, ottenendo garanzie di compensazioni finanziarie per le proprietà espropriate. Ad ogni modo, il potere centrale ha sempre calpestato le resistenze dei coloni oltreoceano quando si è trattato di scendere a patti con le ex-colonie che avevano mantenuto interessi economici e politici più ampi [16].

Lo stato imperialista statunitense, al contrario, paga un tributo multimiliardario e si sottomette alle politiche di guerra di Israele, apparentemente suo “sottoposto”, come risultato delle configurazioni del potere sionista e della diffusione capillare delle sue strategie politiche. Dobbiamo anche fare i conti con la circostanza straordinaria della “Diaspora” di uno stato straniero (Israele), che vince a mani basse la bataglia delle strategie economiche (industria del petrolio), oltre a battere di diverse lunghezze i comandanti in capo e agenzie di intelligence dell’impero per quanto riguarda le decisioni politiche in Medio Oriente [17]. A differenza delle vecchie potenze affermate, negli Stati Uniti l’intero apparato di propaganda dei mass media, gran parte delle università, la maggioranza delle think tank storiche producono enormi quantità di programmi, pubblicazioni, articoli di politica che riflettono perfettamente il punto di vista filo-israeliano, censurando in vario modo qualunque dissidente, oppure forzandolo ad un’umiliante abiura.

Le nuove potenze imperialiste come la Cina non hanno alcuna dipendenza “egemonica” di tale calibro. A differenza della Diaspora israeliana, utilizzata come strumento politico-militare, quella cinese serve a sostenere l’economia dello stato. Occasioni di mercato agevolati per gruppi d’affari continentali, impegnati in joint venture dentro e fuori dalla Cina, senza che le regole interne dello stato coinvolto vengano stravolte. La Diaspora cinese non agisce come una “quinta colonna” contro l’interesse nazionale dei paesi in cui si trovano, diversamente da quanto accade per i sionisti americani, la cui organizzazione di massa convoglia tutti i loro sforzi nell’obiettivo di subordinare le politiche statunitensi per massimizzare i propri interessi.

Le differenze nelle relazioni tra i poteri centrali del presente e del passato e le loro diaspore, interne ed esterne, hanno enormi e sfaccettate conseguenze nel contesto della competizione per il potere globale. Proviamo ad elencarle in maniera “telegrafica”.

Le potenze affermate europee, sacrificando la diaspora coloniale, pretendono il protrarsi delle forme di imperialismo a stampo coloniale-razzista, favorendo una transizione verso una maggiore indipendenza che sia graduale e condotta da trattative, nel frattempo hanno mantenuto e lasciato crescere gli investimenti a lungo termine e a larga scala, gli affari, i legami finanziari, e in alcuni casi anche le basi militari. Gli abitanti delle colonie sono stati così sacrificati per promuovere un nuovo tipo di imperialismo.

Le potenze imperialiste mergenti di oggi, vale a dire la Cina, non è ostacolata da coloni razzisti. Sono liberi di promuovere i propri interessi economici ovunque nel mondo, particolarmente nelle regioni, nei paesi e tra le persone scelte dalla quinta colonna, ovvero quelle che si trovano all’interno della potenza affermata rivale: gli Stati Uniti [18].

La Cina ha oltre 24 miliardi di dollari in investimenti vantaggiosi in Iran e nei suoi principali importatori di petrolio. Gli Stati Uniti non hanno alcun investimento o scambio. La Cina ha rimpiazzato gli USA come principale importatore di petrolio saudita, oltre ad essersi affermato come il primo paese negli scambi con la Siria, il Sudan e altri paesi musulmani, dove i sionisti avevano promosso sanzioni volte a minimizzare o eliminare l’attività economica statunitense [19]. Mentre per la Cina le politiche nazionaliste e di marketing sono state una forza motrice per innalzare la sua posizione economica globale, la durezza con cui gli Stati Uniti hanno gestito il proprio potere coloniale è stato un grosso errore economico. Allo stesso tempo, mentre la diaspora della Cina ha come unico scopo l’espansione dei legami economici, quella israeliana è strettamente vincolata alla militarizzazione delle politiche statunitensi, che devono impegnarsi in costose e prolungate guerre, ponendosi contro quasi ogni popolazione islamica con chiassosa retorica islamofobica e propaganda d’odio.

La svolta ad una politica estera militarizzata e totalmente “sbilanciata”, promossa a favore di Israele, ha completamente stravolto il legame tra le decisioni militari e gli interessi economici oltreoceano degli Stati Uniti. Paradossalmente, la quinta colonna israeliana è stata un importante fattore a favore della sostituzione da USA a Cina nei maggiori mercati mondiali. Quelli che erano stati storicamente definiti come un popolo “senza patria” (cittadini di stati anticamente non-ebraici), essenzialmente definiti dalle loro capacità imprenditoriali, sono stati recentemente ridefiniti in America, ovvero dai suoi leader principali, come i difensori di una dottrina di guerre offensive (da cui “guerra preventiva”) legate ad Israele, il paese più militarizzato del mondo [20]. Come risultato della loro influenza ed alleanza con estremistri di destra, Washington ha rinunciato ad importanti opportunità economiche, favorendo progetti di natura militare.

Come gli imperi reagiscono al declino: passato e presente

Così come sta accadendo oggi agli Stati uniti, gli imperi in declino hanno adottato nel passato varie strategie per minimizzare le perdite, alcune con maggior successo di altre. In generale, la scelta meno proficua è stata quella di ristabilire la dominazione coloniale facendo mosse anti-imperialiste nel tentativo di tornare al passato. Nel periodo in cui il potere economico globale è in declino, le politiche di restaurazione coloniale hanno sempre fallito. La strategia non militare è stata quella meno costosa e di maggior successo, assicurando almeno la parvenza di una presenza imperialista. Il successo si è basato sulla negoziazione delle transizioni verso l’indipensenza, grazie alle quali la supremazia di mercato era garantita dall’egemonia imperialista, associata ad un’emergente borgesia coloniale.

Storicamente, i poteri imperialisti in declino hanno fatto ricorso a cinque strategie differenti, o ad una loro combinazione.

Cercando di riottenere le colonie o le neo-colonie attraverso il rinnovo delle offensive militari. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Francia e l’Inghilterra, rispettivamente in Indocina ed Algeria e in Kenia, hanno pagato un prezzo molto salato sia economico che politico nel tentativo di reistituire regole coloniali, e in definitiva hanno fallito.

Negoziando un assetto neo-coloniale. L’Inghilterra, severamente indebolita dalle perdite subite durante la Seconda Guerra Mondiale e messa di fronte ad un movimento di indipendenza che contava svariati milioni di persone, ritenne saggio negoziare e concedere indipendenza all’India, in modo da conservare una facciata imperialista e legami d’investimento, oltre ad influenze politiche indirette attraverso ufficiali militari e civili addestrati in terra britannica.

Cedendo la guida ad un altro potere imperialista emergente. Diventando un partner giovane, l’approccio permette di assicurarsi almeno una quota ridotta di benefici economici e di influenza politica. L’Inghilerra, trovandosi ad affrontare il massiccio movimento comunista/anti-fascista, ha lasciato che il movimento di resistenza in Grecia assumesse un ruolo sempre più secondario, mentre gli Stati Uniti si innalzavano al ruolo di gendarme politico e prendevano il controllo dello stato emergente. La Gran Bretagna ha conservato una sfera d’influenza ridotta nei Balcani e nel Mediterraneo. Similmente, il Belgio ha tentato di sovvertire il nuovo governo nazionalista in Congo, guidato dal Presidente Patrice Lumumba soltanto per lasciare un posto d’onore al governo fantoccio di Mobutu appogiato dagli Stati Uniti.

Cedendo il governo a sovrani locali disposti a proteggere le manovre finanziarie ed economiche dell’era coloniale. Il ritiro del regime coloniale britannico dalla zona dei Caraibi ha abbassato i costi amministrativi e di polizia, necessari per proteggere e promuovere gli investimenti la posizione privilegiata della sterlina nel primo periodo post coloniale. Le “preferenze” dell’impero venivano promosse attraverso la rete dei “vecchi ragazzi” dell’Anglicizzazione – ufficiali britannici istruiti e indottrinati, che venivano arruolati forzatamente con cerimonie pompose dell’élite dominante. Ad ogni modo, nel tempo la dominazione del mercato attraverso “dottrine di libero scambio” ha rimpiazzato la vecchia rete post coloniale e ha spalancato le porte all’egemonia statunitense.

Il rapido collasso di un impero concorrenziale può dar vita ad un impero che sperimenti un declino più lento e prolungato. L’improvviso e totale collasso del sistema comunista e la disgregazione dell’URSS ha fornito un’eccezionale opportunità per gli Stati Uniti di estendere il proprio impero di basi militari e di reclutare mercenari per combattere le proprie battaglie imperialiste. Le principali potenze europee hanno vissuto la rinascita delle sorti imperialiste entrando in possesso di settori strategici come quello finanziario, industriale, dei servizi, dei trasporti e degli immobili nell’Europa dell’est, negli stati del Baltico e nei Balcani, prendendo il posto della Russia nel predominio del mercato e delle ideologie.

Esperienze recenti di come le classi dirigenti hanno gestito il proprio declino imperialista hanno rilevanza diretta sulle reazioni dei governatori dell’impero statunitense.

Le reazioni statunitensi al declino: salvare l’impero sacrificando la nazione

Washington ha manifestato almeno sei tipologie di reazioni differenti al proprio declino.

1. La reazione a lungo termine e a larga scala di Whashington al declino della propria posizione nel mondo dell’economia e a quello della propria influenza in svariate regioni è quella di estendere e rinforzare la rete mondiale di basi militari [21]. A partire dagli anni ’90, ha convertito i paesi del patto di Varsavia – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, ecc… – in membri della NATO sotto la guida militare statunitense. Ha poi esteso la propria portata militare incorporando l’Ucraina e la Georgia come membri “associati” della NATO. A questo è seguito l’allestimento di basi in Kirghizistan, Kosovo e altri stati dell’ex Jugoslavia.

Col nuovo millennio abbiamo assistito ad una serie di guerre prolungate ed invasioni militari in Iraq e Afghanistan, culminate nella costruzione massiccia di basi e nel reclutamento di polizia ed eserciti mercenari locali. Inoltre la Casa Bianca si è assicurata sette basi militari in Colombia, ha aumentato la propria presenza militare in Paraguay, Honduras e ha firmato trattati militari bilaterali con Perù, Cile e Brasile, nonostante la cacciata statunitense dalla base di Manta, in Ecuador [22]. Mentre gli Stati Uniti estendevano la propria influenza militare in Asia e in America Latina, la Cina li rimpiazzava in Brasile, Argentina, Perù e in Cile, diventando il principale partner d’affari [23]. Mentre gli Stati Uniti finanziavano un grosso esercito mercenario in Iraq, la Cina diventava il primo importatore di petrolio saudita. L’espansione militare globale statunitense non ha comportato un aumento parallelo o ad un recupero del potere economico globale. Al contrario, ad una crescita militare è corrisposto un ulteriore declino economico.

2. La seconda risposta della Casa Bianca al declino economico è stata una campagna molto attiva e ben finanziata per creare regimi clientelari. Gran parte degli sforzi hanno riguardato il finanziamento di élite locali, organizzazioni non governative, oppositori politici malleabili ed ex patrioti risiedenti negli Stati Uniti con legami a Washington e nelle agenzie di intelligence. Le cosiddette “rivoluzioni colorate” in Ucraina e Georgia, la “ribellione dei tulipani” in Kirghizistan, il collasso etnico della Jugoslavia, la divisione de facto dell’Iraq e l’instaurazione di una “repubblica” curda, la promozione dei separatisti tibetani e uiguri in Cina, degli oligarchi nella Bolivia dell’est e l’intervento militare in Taiwan possono essere considerati parte degli sforzi fatti per estendere la dominazione politica come reazione al declino economico globale.

Eppure la costruzione di un apparato clientelare è stata un fallimento per due distinte ragioni. I padroni hanno depredato l’economia, esaurendo i beni pubblici ed impovereno la popolazione, questo ha comportato in alcuni casi il loro rovesciamento, attraverso l’uso della forza o di elezioni [24]. In secondo luogo, i padroni sono più che altro un costo, con tutti i prestiti e i sussidi scuciti al Ministro Tesoro statunitense, e non apportano certo contributi alle aspirazioni dell’economia globale americana. La costruzione di un sistema clientelare costoso e il mantenimento di satrapi locali non fanno che minare l’instaurazione di un impero economico. Nel frattempo gli investimenti cinesi nella manifattura e la conseguente richiesta di materie prime e generi alimentari ha permesso di ampliare e rendere più proficua la sua presenza anche negli stati sotto controllo statunitense. Se da un lato gli Stati Uniti hanno seguito questi paesi nelle loro crescite e cadute in rapida successione, la presenza del mercato cinese ha comportato una crescita stabile.

3. Sotto la direzione di un’élite altamente militarizzzata, inclusi gli autorevoli politologi sionisti, Washington si è mossa in un ginepraio di guerre pluribilionarie di occupazione coloniale nel Medio Oriente e nell’Asia del sud, assumendo erroneamente che con “dimostrazioni di forza” avrebbero intimidito gli stati indipendenti e nazionalisti, nonché sostenuto la presenza economica statunitense. Al contrario, le guerre hanno diminuito l’influenza americana, e lasciato crescere i nazionalismi locali e l’emarginazione musulmana, specialmente alla luce dell’appoggio incondizionato di una Washington filo-sionista nei confronti del colonialismo israeliano. Più di qualunque altra mossa a sostegno dell’impero, le guerre coloniali prolungate hanno pesantemente reindirizzato le risorse economiche, che teoricamente avrebbero potuto rivitalizzare la presenza statunitense nell’economia globale, migliorandone la competitività rispetto alla Cina, trasformandole invece in spese militari non produttive.

4. Le guerre coloniali volte a ristabilire le potenze imperialiste, abbiamo notato, sono state messe in atto (e fallite) dagli stati europei in seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Gli Stati Uniti, analogamente, internamente indeboliti dal saccheggio di Wall Street, della sua economia produttiva e dalle multinazionali, che hanno trasferito capitale oltreoceano, esternalizzando il lavoro – principalmente in Cina e in India – è sempre meno in grado di ripristinare e trarre profitto dalla costruzione dell’impero coloniale. L’ironia sta nel fatto che mezzo secolo fa sono stati proprio gli Stati Uniti ad optare per il predominio del mercato, preferendolo al modello coloniale europeo. Ora sta succedendo esattamente il contrario. L’Europa e la Cina cercano di ottenere l’egemonia attraverso gli affari, mentre gli Stati Uniti adottano il modello colonialista su basi militari che ha già fallito in passato.

5. Le operazioni clandestine, vale a dire colpi di stato, sono diventate il metodo più utilizzato per ribaltare i regimi nazionalisti nell’America Latina, in Iran, nel Libano e altrove. In ciascun caso, Washington ha sbagliato a reinstaurare un regime clientelare poiché ha causato un effetto boomerang: i governi che erano posti come obiettivo hanno radicalizzato le proprie politiche, ottenendo supporto e diventando ancora più trincerati. Ad esempio, un colpo di stato appoggiato dagli Stati Uniti in Venezuela è stato rovesciato, il Presidente Chavez è stato reintegrato, e ha proceduto alla nazionalizzazione delle principali multinazionali, spingendo l’opposizione latino americana ad accordi di libero scambio e alla costruzione di basi militari [25]. Analogamente, il supporto americano all’invasione di Israele in Libano e la successiva difesa ad opera di Hezbollah ha rafforzato la sua presenza all’interno del regime pro-statunitense di Rafiq al-Hariri.

6. L’appoggio incondizionato degli Stati Uniti allo stato militarista e razzista di Israele come suo principale alleato nelle guerre coloniali in Medio Oriente ha di fatto avuto l’effetto opposto: l’alienazione di 1.5 miliardi di persone di origine islamica, la distruzione di qualunque alleanza precedente (Turchia e Libano) e il rafforzamento dell’autorevolezza della politica sionista a difesa di un “terzo fronte militare” – una guerra con l’Iran, con i due milioni di persone armate.

Le strategie statunitensi per insidiare, indebolire e tagliare fuori dalla competizione la Cina come potenza imperialista emergente

Ai primi segni del potenziale cinese come come concorrente globale, Washington ha promsso una strategia economica liberale, sperando di creare un rapporto di “dipendenza”. Successivamente, quando la liberalizzazione ha fallito il suo scopo, ma anzi ha accelerato la crescita cinese, Washington ha fatto ricorso a politiche più punitive.

Durante gli anni ottanta e novanta, la Casa Bianca ha incoraggiato la Cina a seguire una politica di “porte aperte” nei confronti delle multinazionali statunitensi, e ha fornito incentivi allo scopo di incoraggiare le multinazionali stesse a “colonizzare” settori strategici della crescita cinese. Gli americani hanno promosso con successo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con l’idea che il “libero scambio” avrebbe agevolato la conquista del mercato cinese da parte delle multinazionali statunitensi. La strategia ha fallito: la Cina ha imbrigliato le corporazioni americane nella loro stessa strategia di esportazioni, conquistando il mercato statunitense; ha forzato le multinazionali in associazioni che hanno accelerato il trasferimento delle conoscenze tecnologiche, promuovendo la crescita industriale cinese e aumentando la propria capacità produttiva. L’accordo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ha indebolito le barriere agli scambi statunitensi e facilitato l’afflusso di capitali americani nei settori produttivi cinesi, erodendo così le basi produttive degli Stati Uniti e minandone la competitività. Col tempo, le aziende cinesi, statali e private, crebbero e superarono, in parte, le proprie “dipendenze” assumendo maggior controllo sulle associazioni e svilupparono i propri centri di innovazione, affari e finanza [26].

La strategia liberale di creazione di una dipendenza aveva fallito; era stata la Cina ad accumlare eccedenze negli scambi e quindi ad assumere il ruolo di creditore mentre gli Stati Uniti erano diventati il “debitore”. La liberalizzazione poteva aver funzionato in America Latina e in Africa. Quegli stati, guidati da governanti corrotti, hanno assistito al saccheggio delle proprie materie prime, alle rovinose privatizzazioni e denazionalizzazioni di società strategiche e al massiccio deflusso di guadagni. Ma in Cina i governatori hanno imbrigliato le corporazioni statunitensi ai loro progetti nazionali, assicurandosi il controllo sul processo dinamico dell’accumulazione di capitale. Hanno sacrificato i profitti a breve scadenza per l’obiettivo, ben più a lungo termine, di ottenere i mercati, le conoscenze e di diffondere e approfondire nuove linee produttive attraverso “regole di produzione locale” (dal testo originale “content rule” o anche “local content rule” è la legge che regola la produzione di un prodotto attraverso lo sfruttamento di materie prime locali in una percentuale minima fissata, ndt) e trasferimenti di conoscenze tecnologiche. La liberalizzazione ha favorito l’esplosione degli scambi commerciali cinesi, mentre l’economia guadagnava autonomia, migliorando il ciclo produttivo.

La Cina ha tenuto le redini del settore finanziario, bloccando una presa di controllo da parte dei settori finanziari principali, dei media, degli immobili e delle assicurazioni statunitensi [27]. Limitando il subentro, la speculazione e l’instabilità, la Cina ha evitato le crisi periodiche che hanno afflitto gli Stati Uniti tra il 1990 e il 2001, tra il 2000 e il 2002, tra il 2008 e il 2010. La versione cinese delle “porte aperte” non era una replica di quella precedente, che permetteva la dominazione straniera di enclavi costiere. Piuttosto, le multinazionali straniere diventarono “isole di crescita”, affievolirono la possibilità di ulteriori controlli da parte dello stato cinese e permisero l’espansione oltreoceano.

Dai primi anni del nuovo millennio, Washington si è resa conto che la strategia liberale non era riuscita a frenare l’ascesa cinese come potenza globale, e che anzi si era convertita in un piano punitivo.

CONTNUA…

James Petras
Fonte: www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=18913
29.04.2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ELISA NICHELLI

VEDI ANCHE: IN GUERRA CON LA CINA ? I PERICOLI DI UNA CONFLAGRAZIONE GLOBALE (PARTE SECONDA)

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