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La Redazione

 

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IL SECOLO ANARCHICO

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A cura di God
Il 23 Giugno 2006
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blankDI ANDREI GRUBACIC e DAVID GRAEBER
ZNet

Sta diventando sempre più chiaro che l’era delle rivoluzioni non è finita. Sta diventando ugualmente chiaro che il movimento rivoluzionario globale del ventunesimo secolo traccerà le proprie origini non dalla tradizione del marxismo, o persino del socialismo definito in senso stretto, bensì dall’anarchismo.

Ovunque dalla Serbia all’Argentina, da Seattle a Bombay, le idee e i principi anarchici stanno generando nuovi sogni e idee radicali. Spesso i loro esponenti non si definiscono “anarchici”. Ci sono un sacco di altri nomi: autonomismo, anti-autoritarismo, orizzontalismo, zapatismo, democrazia diretta… Eppure, ovunque si trovano gli stessi principio fondanti: decentralizzazione, associazione volontaria, mutuo aiuto, modello a rete e, soprattutto, il rifiuto di ogni idea che il fine giustifichi i mezzi, e tantomeno che il lavoro di un rivoluzionario sia ottenere il potere dello stato e poi imporre un’idea ad armi puntate.Soprattutto, l’anarchismo, come un etica della pratica (l’idea di costruire una nuova società “dentro il guscio della vecchia”) è divenuto l’ispirazione di base del “movimento dei movimenti”, che fin dall’inizio è stato meno interessato ad ottenere il potere dello stato che ad esporlo, delegittimarlo e smantellarne i meccanismi di governo mentre otteneva spazi di autonomia e gestione partecipativa sempre maggiori all’interno di esso.

Ci sono alcune ovvie ragioni per appellarsi alle idee anarchiche nel 21° secolo: più ovviamente i fallimenti e le catastrofi che risultano dai tanti sforzi per sconfiggere il capitalismo prendendo il controllo dell’apparato di governo nel 20° secolo. Un numero crescente di rivoluzionari ha iniziato a riconoscere che “la rivoluzione” non verrà come una sorta di momento apocalittico, l’assalto a qualche equivalente globale dal Palazzo d’Inverno, ma mediante un processo molto lungo che è stato in corso per per la maggior parte della storia umana (anche se, come per quasi tutte le cose, esso ha accelerato nella sua fase finale), piena di strategie di fuga ed evasione, confronti drammatici che – infatti, come pensano la maggior parte degli anarchici – non dovrebbero mai giungere ad una conclusione definitiva.

E’ piuttosto sconcertante, ma offre un’enorme consolazione: non dobbiamo aspettare fino a “dopo la rivoluzione” per iniziare ad ottenere uno squarcio di ciò a cui somiglierebbe la vera libertà. La libertà esiste solo nel momento della rivoluzione. E quei momenti non sono così rari come pensate. Per un anarchico, infatti, cercare di creare delle esperienza non-alienanti, ossia della vera democrazia, è un imperativo etico; creando la propria forma di organizzazione nel presente, creando almeno una sommaria approssimazione di come funzionerebbe davvero una società libera, di come chiunque, un giorno, dovrebbe essere in grado di vivere, solo così si potrà garantire di non cadere ancora nel disastro. I tetri rivoluzionari privi di gioia che sacrificano tutti i piaceri alla causa possono solo produrre delle tetre società prive di gioia.

Questi cambiamenti sono stati difficili da documentare, in quanto le idee anarchiche quasi non hanno ricevuto attenzione nell’ambiente accademico. Ci sono ancora migliaia di accademici marxisti, ma quasi nessun accademico anarchico. Questa mancanza è in qualche modo difficile da interpretare. In parte, senza dubbio, perché il marxismo ha sempre avuto una certa affinità con l’ambiente accademico, che all’anarchismo è ovviamente mancata: il marxismo era, dopo tutto, l’unico grande movimento sociale inventato da un professore. La maggior parte dei resoconti sulla storia dell’anarchismo assumono che esso fosse basilarmente simile al marxismo: l’anarchismo è presentato come l’idea di certi pensatori del 19° secolo (Proudhon, Bakunin, Kropotkin…) che in seguito ispirarono le organizzazioni delle classe lavoratrice, rimanendo invischiati in battaglie politiche, divisi in fazioni…

L’anarchismo, nei resoconti standard, di solito ne esce come il cugino più povero del marxismo, teoreticamente un po’ da bifolchi, ma costruttivo, forse, per cervelli dotati di passione e sincerità. L’analogia è davvero forzata. I “fondatori” dell’anarchismo non pensavano a sé stessi come se avessero inventato qualcosa di particolarmente nuovo. Vedevano i loro principi di base – mutuo aiuto, associazione volontaria, processo decisionale egualitario – antichi come l’umanità. Lo stesso vale per il rifiuto dello stato e di tutte le forme di violenza strutturale, ineguaglianza o dominio (anarchismo significa letteralmente “senza governanti”) – e anche l’assunto che tutte queste espressioni siano in qualche modo collegate e si rafforzino l’un l’altra. Nulla di tutto questo è stato visto come l’inizio di una nuova dottrina, bensì come una tendenza di vecchia data nel pensiero della storia umana, che non può essere incorporata da qualunque teoria generale dell’ideologia. Ad un certo livello è un tipo di fede: la credenza che la maggior parte delle forme di irresponsabilità che sembrano rendere il potere necessario siano in realtà degli effetti del potere stesso. Comunque nella pratica questa è una domanda costante, uno sforzo di identificare tutte le relazioni gerarchiche o coercitive nella vita umana, e sfidarle a giustificare sé stesse. E se non possono farlo – come spesso risulta – è uno sforzo a limitare il loro potere e aumentare così lo spettro della libertà umana. Proprio come un sufi potrebbero dire che il sufismo è il cuore della verità dietro tutte le religioni, un anarchico potrebbe sostenere che l’anarchismo è il bisogno di libertà dietro tutte le ideologie politiche.

Le scuole del marxismo hanno sempre avuto dei fondatori. Proprio come il marxismo sorse dalla mente di Marx, allo stesso modo abbiamo Leninisti, Maoisti, Althusseriani… (Notate come la lista inizi con capi di stato e degradi quasi subito in professori francesi – che, di rimando, possono originare le proprie fazioni: Lacaniani, Foucaltiani, …).

Le scuole dell’anarchismo, al contrario, quasi invariabilmente emergono da qualche tipo di principio organizzativo: anarco-sindacalisti e anarco-comunisti, insurrezionalisti e piattaformisti, cooperativisti, conciglisti, individualisti e così via.

Gli anarchici sono distinti da quello che fanno, e da come si organizzano per farlo. Infatti questo è sempre stato ciò su cui gli anarchici hanno passato la maggior parte del tempo a pensare e discutere. Non sono mai stati molto interessati ai modelli di grandi strategie alle questioni filosofiche che preoccupano i Marxisti come ‘I contadini sono potenzialmente una classe rivoluzionaria?’ (gli anarchici pensano che siano i contadini a doverlo decidere) o ‘Qual’è la natura della forma di bene economico?’. Piuttosto, tendono a discutere sul modo veramente democratico di gestire un incontro, a quale punto l’organizzazione smetta di dare potere alle persone ed inizi ad erodere la libertà personale. La “leadership” è necessaria o è una cattiva cosa? O, alternativamente, sull’etica di opporsi al potere: cos’è l’azione diretta? Si dovrebbe condannare qualcuno che assassina un capo di stato? Quando va bene lanciare un mattone?

Il marxismo, poi, ha teso ad essere un discorso teoretico o analitico sulla strategia rivoluzionaria. L’anarchismo ha teso ad essere un discorso etico sulla pratica rivoluzionaria. Come risultato, dove il marxismo ha prodotto brillanti teorie di pratica, sono stati soprattutto gli anarchici ad aver lavorato sulla pratica stessa.

Al momento, c’è una sorta di rottura tra le generazioni dell’anarchismo: vorrei esprimere la mia affinità con quelli che potremmo chiamare “anarchici con la a minuscola”, i quali sono, per ora, di gran lunga la maggioranza. Ma a volte è difficile dirlo, perché moltissimi di loro non strombazzano le loro affinità molto rumorosamente. Ce ne sono molti, infatti, che prendono i principi anarchici di anti-settarismo e aperta mancanza di fine così seriamente che rifiutano di chiamarsi ‘anarchici’ per quella stessa ragione.

Ma i principi essenziali che ricorrono a tutte le manifestazioni del movimento anarchico sono decisamente tre: anti-statalismo, anti-capitalismo e politica prefigurativa (per esempio i modelli di organizzazione che riassemblano coscientemente la parola che vuoi formulare). O, come ha detto uno storico anarchico della rivoluzione in Spagna, “uno sforzo di pensare non solo le idee ma i fatti del futuro stesso”. Ciò si trova dai collettivi di jamming ad Indymedia, in tutto quello che può essere definito anarchico nel senso più nuovo.

I nuovi anarchici sono molto più interessanti a sviluppare nuove forme di pratica che a discutere sui più fini punti dell’ideologia. Le più importanti tra queste sono state lo sviluppo di nuove forme di processo decisionale e gli inizi, almeno, di una cultura alternativa della democrazia. I famosi spokecouncil nord-americani, dove migliaia di attivisti coordinano eventi su grande scala mediante il consenso, senza una struttura formale di leadership, sono solo i più spettacolari.

Attualmente, persino chiamare “nuove” queste forme è un po’ fuorviante. Una delle ispirazioni principali per la nuova generazione di anarchici sono fenomeni come le municipalità autonome zapatiste del Chiapas, le comunità di Tzeltal o Tojolobal, che hanno usato il metodo del consenso per migliaia di anni – solo ora adottato dai rivoluzionari per assicurare che le donne e le persone più giovani abbiano uguale voce. In Nord America, il “metodo del consenso” è emerso più di ogni altra osa dal movimento femminista negli anni ’70, come parte di un ampia reazione violenta contro lo stile machista della leadership tipica della Nuova Sinistra negli anni ’60. L’idea stessa del consenso fu prestata dai Quaccheri che, a loro volta, affermano di essere stati ispirati dalle Sei Nazioni e da altre pratiche dei Nativi Americani.

Il consenso è spesso male interpretato. Si sentono spesso i critici affermare che causerebbe una soffocante conformità, ma quasi mai da qualcuno che abbia effettivamente osservato il consenso in azione, perlomeno condotto in seguito ad un periodo di esercitazione (alcuni recenti esperimenti in Europa, dove c’è poca tradizione di tali cose, sono stati piuttosto rudimentali). Infatti, l’assunto automatico è che nessuno può davvero convertite completamente qualcun’altro al proprio punto di vista, o probabilmente dovrebbe. Invee, il punto chiave nel metodo del consenso è permettere ad un gruppo di decidere con un percorso d’azione comune. Anziché votare delle proposte, le proposte sono rielaborate e rielaborate ancora, annientate o reinventate, c’è un processo di compromesso e sintesi, finché si finisce con l’avere qualcosa con cui chiunque possa vivere. Quando si arriva alla fase finale, ossia “trovare il consenso”, ci sono due livelli di obiezione possibile: si può “stare da parte”, che significa “non mi piace e non voglio partecipare ma non impedirò a nessuno dal farlo”, o “bloccare”, che ha l’effetto di un veto. Si può semplicemente bloccare se si pensa che le proposte siano in violazione dei principi fondamentali o dalle ragioni per essere un gruppo. Si potrebbe dire che nella costituzione statunitense, quella funzione, relegata alle corti, di abbattere decisioni legislative che violino i principi costituzionali, è qui relegata a chiunque abbia il coraggio di opporsi effettivamente contro il volere combinato del gruppo (nonostante, ovviamente, ci sono anche modi di mettere in discussione blocchi privo di principio).

Si potrebbe tirarla per le lunghe con i metodi sorprendentemente sofisticati ed elaborati che sono stati sviluppati per assicurare il funzionamento di tutto questo, come le forme modificate di consenso necessarie a gruppi molto grandi; o il modo in cui il consenso stesso rafforza il principio della decentralizzazione assicurando che non si vuole veramente portare delle proposte a grandi gruppi a meno che non sia necessario; o assicurare l’equità dei generi e la risoluzione dei conflitti… Il punto è che questa è una forma di democrazia diretta molto diversa da quelle che associamo con il termine o, per quel che conta, con il tipo di sistema a voto maggioritario abitualmente impiegato dagli anarchici nel passato. Con un crescente contatto a livello internazionale tra movimenti diversi, e l’inclusione di gruppi indigeni dall’Africa, l’Asia e l’Oceania con tradizioni radicalmente diverse, stiamo vedendo gli inizi di una nuova concezione globale di quel che dovrebbero significare “democrazia” o “rivoluzione”, il più lontano possibile dal parlamentarismo neo-liberale attualmente promosso dai poteri esistenti al mondo.

Di nuovo, è difficile seguire questo nuovo spirito di sintesi leggendo la maggior parte della letteratura anarchica esistente, perché quelli che spendono buona parte delle loro energie su questioni di teoria, anziché facendo emergere forme di pratica, sono quelli che più probabilmente manterranno la vecchia logica settaria dicotomizzante. L’anarchismo moderno è permeato da innumerevoli contraddizioni. Mentre gli anarchici con la a minuscola stanno lentamente assorbendo le idee e le pratiche apprese dagli alleati indigeni nei loro modi di organizzazione o dalle comunità alternative, la principale traccia nella letteratura scritta è stata l’emergere di una setta di Primitivisti, una fazione notoriamente contenziosa che chiede la completa abolizione della civiltà industriale e, in alcuni casi, persino dell’agricoltura. Di nuovo, è solo una questione di tempo prima che questa logica più antica, basata sul “o così o così” inizi a formare qualcosa che si rifaccia di più alla pratica dei gruppi di consenso.

A cosa somiglierebbe questa nuova sintesi? Alcune delle direttrici si possono discernere entro il movimento. Esso insisterà sull’espandere continuamente l’attenzione all’anti-autoritarismo, allontanandosi dal riduzionismo di classe e cercando di capire la natura della “totalità del dominio”, ossia mettere in discussione non solo lo stato ma anche le relazioni di genere, e non solo l’economia ma anche le relazioni culturali e l’ecologia, la sessualità e la libertà in ogni forma in cui possa essere cercata, e ognuna non solo mediante il prisma delle relazioni di autorità, ma anche mediante concetti più ricchi e diversi.

Questo approccio non si appella ad un’espansione infinita della produzione materiale, o sostiene che le tecnologie siano neutre, ma non le condanna a priori. Invece, diventa famigliare ed impiega diversi tipi di tecnologie appropriate. Non si limita a condannare le istituzioni in sé, o le forme politiche in sé, ma cerca di concepire nuove istituzioni e nuove forme politiche per l’attivismo e per una nuova società, comprese nuove forme di incontro, nuovi modelli di processo decisionale, nuovi modi di coordinarsi, il tutto sulle stesse linee che ha già avuto con gruppi di affinità rivitalizzati e strutture a raggi. E non solo condanna le riforme in sé ma lotta per definire e vincere delle riforme non-riformiste, attente ai bisogni immediati della popolazione e che migliorino la vita qui-ed-ora, mentre ci si muove verso nuove conquiste ed, eventualmente, una trasformazione totale. Esso rifiuta la mera opposizione tra riformismo e rivoluzione.

E ovviamente la teoria dovrà essere al passo della pratica. Al momento il problema è che gli anarchici desiderosi di lasciarsi alle spalle i modi retrò e avanguardisti – quei postumi del Marxismo settario che ancora perseguitano tanta parte del mondo intellettuale radicale – quasi sicuramente non ricoprono quel ruolo che ci si aspetterebbe. L’anarchismo ha bisogno di diventare riflessivo, ma come? Ad un certo livello la risposta sembra ovvia. Si dovrebbe fare a meno di tenere lezioni, di dettare, persino smettere di pensare a sé stessi come a degli insegnanti, ed iniziare solo ad ascoltare, esplorare e scoprire. Chiarire e rendere esplicita la tacita logica che già sottende nuove forme di pratica radicale. Mettersi al servizio degli attivisti fornendo informazioni, o esponendo gli interessi dell’èlite dominante, accuratamente nascosti dietro le argomentazioni apparentemente oggettive, ma in realtà autoritarie, piuttosto che cercare di imporre una nuova versione della stessa cosa. Come muoversi dall’etnografia alle idee utopiche – almeno preferibilmente, dato che molti idee utopiche sono possibili? Difficilmente è una coincidenza che alcuni dei più grandi reclutatori dell’anarchismo in paesi come gli Stati Uniti siano stati scrittori della fantascienza femminista come Starhawk o Ursula K. LeGuin.

Un modo in cui ha cominciato ad accadere si nota nel fatto che gli anarchici iniziano a recuperare l’esperienza di altri movimenti sociali con un corpo più sviluppato di teorie ed idee, i quali vengono da circoli vicini anziché ispirati dall’anarchismo. Prendiamo per esempio l’idea dell’economia partecipativa, che rappresenta una visione economica anarchica per eccellenza e che implementa e modifica la tradizione economica anarchica precedente. I teorici della Parecon sostengono l’esistenza di non solo due, bensì di tre classi principali nel capitalismo avanzato: non solo il proletariato e la borghesia, ma una “classe coordinatrice” il cui ruolo è gestire e controllare il lavoro della classe lavoratrice. Questa è la classe che include la gerarchia gestionale e i consulenti professionale e i consiglieri di primo piano nel loro sistema di controllo – come gli avvocati, gli ingegneri e i contabili, e così via. Essi mantengono la loro posizione di classe a causa della loro relativa monopolizzazione della conoscenza, delle abilità e delle relazioni. Come risultato, gli economisti ed altri che hanno lavorato in questa tradizione, hanno cercato di creare dei modelli di un’economia che eliminasse sistematicamente le divisioni tra il lavoro fisico ed intellettuale.

Ora che l’anarchismo è divenuto così chiaramente il centro della creatività rivoluzionaria, i sostenitori di tali modelli, sempre più, quando non hanno innalzato la bandiera nera, perlomeno hanno enfatizzato a che grado le loro idee siano compatibili con l’ideale anarchico.

Questo non significa che gli anarchici debbano essere contro la teoria. Potrebbe non essere necessaria l’Alta Teoria, nel senso oggi famigliare. Certamente non ci sarà bisogno di una singola, Alta Teoria Anarchica. Ciò sarebbe del tutto ostile allo spirito. Molto meglio, penso, qualcosa più nello spirito dei processi decisionali anarchici: applicato alla teoria, ciò significherebbe accettare il bisogno di una diversità delle alte prospettive teoretiche, unite solo da certi impegni e comprensioni comuni. Piuttosto che basarsi sul bisogno di provare che gli assunti fondamentali degli altri siano sbagliati, si cercano dei progetti particolari su cui si rinforzino l’uno con l’altro. Solo perché le teorie sono incommensurabili in certi aspetti non significa che non possano esistere entrambe o persino rafforzarsi a vicenda, tanto più rispetto al fatto che gli individui hanno idee uniche ed incommensurabili del mondo non significa che non possano diventare amici, o amanti, o avere progetti in comune. Ancora più che l’Alta Teoria, quel di cui ha bisogno l’anarchismo è quanto potrebbe essere chiamata bassa teoria: un modo per occuparsi di quei problemi immediati, reali, che emergono da un progetto trasformativo.

Cose simili stanno iniziando ad accadere con lo sviluppo delle idee politiche anarchiche. Ora, questa è un’area dove l’anarchismo classico era già una spanna sopra il marxismo classico, il quale non ha mai sviluppato una teoria dell’organizzazione politica. Differenti scuole dell’anarchismo hanno sovente sostenuto forme molto specifiche di organizzazione sociale, sebbene marcatamente differenti l’una dall’altra. Di nuovo, l’anarchismo come un tutto ha teso adfavorire quelle che i liberali chiamano ‘libertà negative’, ‘libertà da’, piuttosto che sostanziali ‘libertà di’. Spesso l’anarchismo ha celebrato il proprio impegno come prova del pluralismo anarchico, della tolleranza ideologica, o della creatività. Ma come risultato, c’è stata riluttanza ad andare oltre sviluppando forme di organizzazione su piccola scala, e una fede enorme che strutture più complesse possano essere improvvisate poi nello stesso spirito.

Ci sono state eccezioni, come il “municipalismo libertario” degli ecologisti sociali nord-americani. Si sta sviluppando un vivace dibattito, per esempio, su come bilanciare i principi del controllo dei lavoratori – enfatizzati dai sostenitori della Parecon – e la democrazia diretta, enfatizzata dagli ecologisti sociali.

Ci sono ancora molti dettagli da risolvere: qual’è l’insieme completo di alternative istituzionali positive degli anarchici alle legislature contemporanee, alle corti, alla polizia, e alle diverse agenzie esecutive? Ovviamente non ci potrà mai essere una linea di partito su questo. Il sentimento generale tra gli anarchici con la “a” minuscola è perlomeno che avremo bisogno di molte idee concrete e molti dialoghi utopici. Ancora, tra gli attuali esperimenti sociali nell’espansione dell’auto-gestione, delle comunità senza governo in posti come l’Europa Orientale o l’America Latina, tra gli sforzi dei nuovi anarchici in tutto il globo, il lavoro ha preso avvio. Si tratta chiaramente un processo a lungo termine. Ma il secolo anarchico è appena iniziato.

Andrei Grubacic & David Graeber
Fonte: http://www.zmag.org/
Link: http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=41&ItemID=10243
11.05.2006

Traduzione per www.comedonchisciotte.org & www.radioforpeace.info a cura di CARLO MARTINI

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