IL CONFLITTO DEL 1967

DONA A COMEDONCHISCIOTTE.ORG PER SOSTENERE UN'INFORMAZIONE LIBERA E INDIPENDENTE:
PAYPAL: Clicca qui

STRIPE: Clicca qui

In alternativa, è possibile effettuare un bonifico bancario (SEPA) utilizzando il nostro conto
Titolare del conto: Come Don Chisciotte
IBAN: BE41 9674 3446 7410
BIC: TRWIBEB1XXX
Causale: Raccolta fondi

blankDI SANDY SYNGE
ComeDonChisciotte

ISRAELE E STAMPA PROGRESSISTA – LEZIONI DI SDOGANAMENTO – RIFLESSIONI

LEZIONE
I

Henry
Laurens (Giugno 1967, All’origine delle crisi mediorientali,
il Manifesto-Le Monde Diplomatique
, giugno 2007) è del parere che
l’aiuto militare statunitense fornito ad Israele all’epoca della
crisi del Suez, ma anche «in seguito», venisse erogato «in
funzione del rispetto dello
status quo». Se quest’affermazione
colpisce per la sua genericità (ad es. «in seguito»: fino
a quando?), il ragionamento di fondo è lineare. Anzi, viene tracciato
col righello: se nel 1956 gli Stati Uniti si erano comportati da «protettori
attenti allo
status quo», tale doveva essere, secondo Laurens,
la sostanza della loro politica per il futuro. Senza limiti temporali.
Ma Laurens compie anche uno strano salto logico: per gli americani,
il «problema quindi non sta nella capacità dell’esercito

[israeliano] di conquistare nuovi territori, ma in quella
dello stato
[israeliano] di conservarli» (sott. mia). Conservare
cosa? Ogni eventuale «nuovo territorio», pare.

Se
stabiliamo con precisione la durata del periodo della vigenza di tale
asserita politica americana – di «rispetto dello status quo»,
e quindi (almeno sulla carta) di una politica lontana da ogni idea della
conquista di «nuovi territori»! –, sarà possibile calcolare
la durata del periodo in cui, per gli Stati Uniti, erano da considerarsi
in qualche modo ancora valide le disposizioni della Tripartite Declaration

del 1950. Queste disposizioni erano espressione di una politica di
neutralità
, almeno formale, nel conflitto arabo-israeliano nel
suo complesso (con il rispetto dell’integrità territoriale di
ciascuna
nazione dell’area). Sorprende
che nell’articolo di Laurens manca ogni menzione dell’esistenza
di quest’importante Declaration firmata dagli Stati Uniti,
Francia e Gran Bretagna (e ben presto violata, nel 1956, dalle ultime
due nazioni). Questa dichiarazione forma il quadro diplomatico mondiale
a cui è necessario riferirsi per comprendere pienamente i retroscena
della politica aggressiva di espansione territoriale israeliana (tuttora
vigente, e che anzi dobbiamo considerare da sempre il tratto latente
e caratteristico dell’approccio internazionale e regionale adottato
da Tel Aviv).

L’impronta
‘equidistante’ della Declaration ed il fatto stesso che venne
ben presto violata da due degli stessi firmatari, Francia e Gran Bretagna,
nel 1956, spiegheranno forse perché manca ogni menzione della stessa
anche nelle voluminose opere storiche di Benny Morris (Vittime,
Rizzoli, Milano, 2002) e di Martin Gilbert (Israel, a History,
Black Swan, Londra, 1999), opere recenti e tra quelle più largamente
diffuse sull’argomento Israele-Palestina presso il pubblico occidentale.

Queste
note, oltre a chiarire alcuni antefatti, serviranno alla valutazione
delle ragioni di fondo (‘culturali’, ‘storiografiche’, ‘politiche’
ecc.) che hanno indotto l’accettazione da parte de Le Monde Diplomatique
– con la pubblicazione dell’articolo di Laurens – della tesi della
neutralità americana nel 1967.

Notiamo
en passant
che, nel servizio de Le Monde Diplomatique, il
1967 viene inspiegabilmente collocato «all’origine

(!) delle crisi mediorientali». Così sono rimossi
interi decenni di storia
.

Almeno
fino al momento della morte di Kennedy, a nostro avviso, la questione
della neutralità americana costituiva, per Tel Aviv, una spina nel
fianco, ma, per Washington, una risorsa importante. Washington rinunciò
definitivamente a questa risorsa durante la presidenza Johnson (e, da
allora in poi, con l’appoggio americano incondizionato alle ragioni
avanzate da Israele, diventa sostenibile la tesi della durevole assenza
dalla scena mondiale degli Stati Uniti qua attore politico autonomo
nel Medio Oriente).

Sir
Martin Gilbert – biografo di Churchill e scrittore sionista tra i
più attivi nel mondo anglosassone – sostiene che, prima ancora della
presidenza di Johnson, le relazioni tra Israele e Kennedy fossero strettissime,
dettate da un’unità d’intenti (op. cit., pag. 347-348).
Laurens riprende questo ‘leitmotiv’, e rincara la dose: «avvicinamento
militare israelo-americano
» «Avviato sotto la presidenza
di John Kennedy
» (sott. mia). Sono tesi molto azzardate.
Diverse evidenze indicano il contrario. Per Sheila Ryan, ad esempio,
ci fu, sotto Kennedy, un periodo breve ed atipico di apertura americana
nei confronti di Nasser: «brief respite» (Ryan, in Occupation,
Israel over Palestine
, a cura di Naseer Aruri, Zed Books, Londra,
1984, pag. 351).

Per
meglio inquadrare questo punto, e la successiva svolta delle politiche
americane ad esclusivo vantaggio d’Israele, dobbiamo considerare brevemente
(e con un po’ di pazienza) alcune cifre concernenti la consistenza
degli aiuti militari forniti dagli Stati Uniti ad Israele nel periodo
considerato. All’epoca della Repubblica araba unita (1958-61) gli
israeliani avrebbero ricevuto, secondo Laurens, «le loro prime
(sic?), importanti forniture di materiale bellico americano».
Guardiamo i dati per gli anni successivi:

Stephen Green
(Taking Sides, America’s Secret Relations with Israel
1948/1967
, Faber and Faber Limited, Londra-Boston, 1984, pp. 187s.)
ci informa che gli aiuti complessivi forniti ad Israele per il 1964
(e decisi, dunque, da Kennedy) sono pari ai 40 milioni di dollari e
che nel pacchetto gli aiuti militari sono «pressoché assenti»
virtually none»). Siamo, infatti, nel 1964, tre anni dopo
– ricordiamolo – il tramonto dell’effimero raggruppamento (la
RAU, Egitto, Siria, Yemen). Nel 1965, invece, gli aiuti totali americani
(nell’epoca, dunque, post-kennediana) raggiungono nel complesso
la cifra di 71 milioni di dollari (con gli aiuti militari piazzati al
20% del totale). Nel giro di un anno, per il 1966, la cifra complessiva
sale a 130 milioni di dollari, con gli aiuti militari al 71% del pacchetto.
Gli aiuti americani nel loro complesso si triplicano (325%), e quelli
militari passano tra il 1964 ed il 1966 da «virtually none»
a più di 90 milioni di dollari (per cui, nel 1966, gli aiuti di natura
militare superano gli aiuti complessivi dell’anno precedente).

Nel 1966, Israele riceve aiuti militari americani più consistenti del
totale degli aiuti americani ricevuti da Israele dal 1948 fino a quel
momento
.

Sarà un ‘puro
caso’, ma i pagamenti rateali da parte tedesca di riparazioni di guerra
terminano nel 1965. Non sappiamo come Kennedy avrebbe voluto gestire
la questione degli aiuti ad Israele dopo l’interruzione di questi
pagamenti. Sappiamo, però, che Johnson ne aveva assunto il peso ‘in
proprio’, superando immediatamente le specifiche quote erogate all’epoca
dai tedeschi. Tuttavia, altri pagamenti paralleli vennero dalla Germania
occidentale, legati non al passato nazista di quel paese ma alla sua
più recente e, per dirla con Nathan Weinstock, «imperfetta»
denazificazione (Storia del sionismo, dalle origini al movimento
di liberazione palestinese
, Samonà e Savelli, Roma, 1970, nuova
edizione Massari editore, Bolsena 2006 Vol. 2, pag. 157).

I circa 80 milioni di dollari
l’anno di riparazioni (1954-1965) furono seguiti, da parte americana,
dai circa 100 milioni di dollari l’anno tra il 1965 ed il 1966 –
e le cifre erano destinate all’aumento progressivo –) (cfr. l’articolo
mio, La lobby israeliana: una storia recente? (www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Downloads&d_op=getit&lid=21 .

Infatti,
a differenza di Laurens e Gilbert, Stephen Green (op. cit.,
pp. 181ss.) riporta dati documentali governativi americani
che indicano che, sul piano militare, l’approccio di Kennedy (e, almeno
in parte, dei suoi predecessori alla Casa Bianca) non prevedeva
– in assenza di reali minacce esterne nei confronti d’Israele –
alcun rapporto privilegiato tra lo stesso Israele e gli Stati
Uniti. La tesi trova sostegno, ad esempio, nei dati sottolineati sopra
relativi al 1966.

Anzi,
le politiche adottate durante la presidenza di Kennedy non risulterebbero
improntate nemmeno sulla prospettiva di un Israele alleato nella
contesa URSS-USA
. D’altronde, sono ben comprensibili le ragioni
di una tale politica statunitense di ‘distanza’ o di ‘equi-distanza’.
Ci basta ricordare i fatti del 1956, quando il trio, Israele, Francia
e Gran Bretagna, agirono – all’insaputa (o apparentemente all’insaputa)
degli Stati Uniti – nell’avventura del Suez, e in modo tale da creare
un estremo imbarazzo per gli USA e da mettere a repentaglio ogni stabilità
nei rapporti URSS-Occidente nel loro complesso (svolta krusceviana nella
politica interna sovietica, intervento armato in Ungheria, Oriente ecc.).
Per Green, l’atteggiamento che possiamo definire ‘realistico’
o ‘distaccato’ adottato da Kennedy – frutto anche del 1956 –
era da considerarsi in qualche modo una «doctrine» o cristallizzazione
delle politiche americane adottate in precedenza. Un Israele ostile
ad ogni soluzione di pace si presentava come una pericolosa ‘palla
al piede’ di Kennedy e degli Stati Uniti, un ‘bambino’ difficilmente
‘donabile’, per ovvi motivi, agli europei occidentali o ai sovietici.

Il
punto è il seguente: se, sotto Kennedy, una vicinanza ci fu,
non ci fu un «avvicinamento» (Laurens), nel senso di intensificazione
di rapporti (semmai il contrario). Dunque, l’«avviamento»
a cui si riferisce Laurens segue l’èra kennediana.

Tramontata
nel 1961 l’originaria Repubblica Araba Unita (ovvero la minaccia militare
più significativa per Israele), Tel Aviv poteva, secondo alcuni, sperare
di riprendere con maggiore impunibilità l’iniziativa bellica contro
i paesi limitrofi (ora nuovamente divisi) [il nome RAU, ricordiamolo
en passant
, sarà conservato dal solo Egitto, con riferimento al
proprio territorio nazionale, fino al 1971].

Dunque,
la ‘politica col contagocce’ adottata da Kennedy appare coerente
ai fini della Tripartite Declaration
del 1950: al declinare dell’intensità delle minacce effettive ad
Israele si verifica, almeno per la Casa Bianca kennediana, un corrispondente
calo
di interesse concreto americano nei rapporti militari intrattenuti
con Tel Aviv. Da Johnson in poi, come abbiamo visto, le proporzioni
sembrano invertirsi: minori le minacce ad Israele, e maggiori diventano
gli aiuti militari forniti.

Il
principio di ‘equidistanza’ fu ribadito con forza, invece, da Kennedy
sia sul piano diplomatico sia per mezzo della stampa. Per quanto riguarda
la Declaration del 1950, per dirla con Green, essa «had nearly
succumbed during the Suez War
»

(per poco non sopravvisse alla guerra del Suez), e morì poi all’ospedale
Parkland di Dallas, Texas («died
finally
(…) at the Parkland Hospital in Dallas, Texas»).

Partendo
invece dal presupposto dell’asserito forte sostegno offerto da Kennedy
ad Israele, Laurens (debitore, evidentemente, di altre fonti) si spinge
oltre nelle sue speculazioni quando afferma che la politica kennediana
(sia beninteso, come Laurens l’intende…) avrebbe fatto «funzionare
a meraviglia la retorica
del discredito coinvolgente imperialismo,
reazione e sionismo
». Sul piano, appunto, retorico, Laurens si
dimostra probabilmente più abile degli stessi ‘predicatori del discredito’
(vedi anche Lezione 8). Ma la destrezza, per quanto utile, non equivale
alla forza. A rigore di logica la sua argomentazione risulta invece
debole e trova scarso sostegno nei fatti.

In
breve, secondo Laurens, Kennedy avrebbe creato, sia pure involontariamente,
un terreno fertile per la diffusione tra i progressisti del mondo occidentale
di una falsa interpretazione della situazione arabo-israeliana nel suo
complesso. Si pensa, ad esempio, all’immagine ‘bidimensionale’
– caro al progressista (ed esperto di retorica) Noam Chomsky – di
un Israele ‘bastone’, o ‘cane di guardia’ degli interessi dell’imperialismo
americano in Medio Oriente.

La questione
è, in un certo senso, ‘psico-sociologica’: in primis, i
rapporti specifici tra gli Stati Uniti ed Israele potevano (e possono)
essere caratterizzati da fattori diversi da quelli denunciati dalla
deplorata «retorica del discredito» (‘cane di guardia’
ecc.) senza che l’ipotesi generale di uno stretto rapporto storico
tra «imperialismo, reazione e sionismo» venga in sé

intaccata. È bene considerare a questo proposito il concetto della
complementarietà o della compresenza di vie o binari diversi tra loro,
non solamente sul piano delle interpretazioni ma anche operativi (compresi
i tempi d’attuazione). E che i rapporti tra tali vie o binari, ciascuno
dotato delle proprie specificità, possano essere dinamici e, cioè,
non sempre del tutto armonici (teoria dei giochi ecc.). Sia chiaro,
l’ampia confusione presso l’opinione pubblica o di massa non può
che facilitare la diffusione rapida e profonda di tesi storiche volutamente
bidimensionali.

In ogni caso,
le evidenze documentali (vedi sotto) indicano che il pensiero di Kennedy
in tema di Medio Oriente non corrispondeva alla visione strategica attribuitagli
da Laurens. In altre parole, non crediamo che il Kennedy-pensiero in
tema di Medio Oriente abbia potuto far «funzionare a meraviglia»
alcunché.

Come
i dati numerici riportati sopra sembrano indicare, è più appropriato
dunque ascrivere la creazione di un ‘terreno fertile’ per la «retorica
del discredito
» non tanto a Kennedy quanto alla figura (meno carismatica)
di Johnson. Per Green, l’intento di Kennedy (ma anche
dei predecessori, Truman e Eisenhower) era stato quello di ribadire,
in parte o interamente, gli scopi ‘neutralistici’ della Tripartite
Declaration
del 1950. Ciò viene confermato con grande chiarezza
nel memorandum of conversation,

redatto da Phillips Talbot, Assistant Secretary of State for
Near Eastern Affairs
, dopo l’incontro tra Kennedy e Golda
Meir di dicembre 1962 (vedi l’articolo mio, La lobby israeliana…).

Abbiamo
notato che Benny Morris (Vittime, Rizzoli, Milano, 2002), Martin
Gilbert (op. cit.) e lo stesso Laurens hanno omesso ogni menzione
dell’esistenza della Tripartite Declaration

del 1950. L’omissione (in sé, infatti, sbalorditiva) è attribuibile
non soltanto al fallimento ma anche al contenuto ‘neutralistico’
della Declaration, che pone l’accento su possibili divergenze,
del tutto comprensibili, tra le priorità israeliane e quelle delle
maggiori potenze occidentali, e in particolare quelle degli Stati Uniti.
Si ha l’impressione che, all’epoca, la neonata nazione fosse sì
‘tollerata’ da molti operatori americani, ma non ‘coccolata’.
È verosimile che, dopo il rocambolesco riconoscimento del nuovo Stato
nel 1948, diversi attori americani (ma, a distanza di tempo, non Johnson…)
già si sentivano ‘sdebitati’ nei confronti della causa sionista.

Malgrado
le proprie intenzioni, lo studioso italiano di cose mediorientali, Antonio
Donno, traccia un quadro persuasivo di reciproca sfiducia (cfr. A. Donno,
Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (1938-1956)
, Bonacci Editore,
Roma, 1992, pag. 153-162): sfiducia che, col senno di poi (cioè, dopo
il 1956), gli Stati Uniti, perlomeno, potevano giustificare pienamente,
e non solamente per le motivazioni accennate sopra. Tale sfiducia (a
volte apertamente espressa, ed a volte mormorata, ma ugualmente presente)
costituisce il filo rosso dei periodi trattati sia da Stephen Green
sia da Donno.

Breve:
1)
l’accenno di Laurens ad un «avvicinamento militare israelo-americano»
avviato «sotto la presidenza di John Kennedy» è inaccettabile
perché il quadro era ben più complesso; 2) Laurens convogliando
abusivamente alla propria causa la figura carismatica di Kennedy compie,
naturalmente, l’ennesimo ‘doppio assassinio’ del giovane
Presidente americano.

LEZIONE
2

blank

Per
Laurens le operazioni militari di Israele del 1964, incentrate sulla
questione dell’acqua, erano da ascriversi essenzialmente ad esigenze
di autodifesa. Abbiamo notato il calo nel tasso di pericolosità
di una guerra regionale di tipo convenzionale determinatosi con la fine
della RAU. Le attività militari di Fatah (scenario di tipo guerra partigiana)
cominciarono non nel 1964 ma nel 1966. Da parte palestinese, le precedenti
azioni militari (partigiane) – avvenute tra il 1948 e la nascita di
Fatah – furono militarmente poco significative, sebbene di rilevanza
politica. Erano state compiute, infatti, da gruppi «male organizzati»
e «senza addestramento» (Xavier Baron, I Palestinesi, Genesi
di una nazione
, Baldini Castoldi, Dalai editore, Milano, 2002, pag.
82). I diversi momenti di tensione e di violenza del ventennio si erano
verificati in gran parte per motivi fisiologici legati all’allontanamento
violento dei palestinesi dalle proprie case, alle questioni personali
(vendetta ecc.), alle attività criminose ecc. (vale a dire, ad uno
scenario assimilabile per certi versi al tipo ‘ordine pubblico’):

Per Sir Martin
Gilbert, tra il 1951 ed al 1956, avvennero 6.000 sconfinamenti in terra
israeliana (border crossings), ufficialmente registrati,
con l’uccisione di 400 israeliani. La cifra data da Gilbert non tiene
conto né degli sconfinamenti in senso inverso, da parte israeliana,
né della natura degli incidenti (sconfinamenti armati offensivi o di
autodifesa, sconfinamenti compiuti con intento pacifico, sconfinamenti
compiuti da gruppi o da singoli, e, non ultimo, l’esistenza
o meno di frontiere ben definite, ecc.). Dai dati raccolti per la frontiera
israelo-giordana dal Commander H. E. Hutchinson USNR (The Armed Truce,
Devin-Adai Company, New York, 1956, pp. 90-92) emerge il seguente quadro:
le statistiche riguardanti gli sconfinamenti armati dalla Giordania
nel territorio israeliano, e viceversa, per il periodo tra giugno
1949 ed ottobre 1954 ci danno, grossomodo, il pareggio (con 65 condanne
emesse nei confronti della Giordania e ben 95 nei confronti d’Israele:
le condanne furono emesse dall’Israel-Jordan Mixed Armistice Commission).
Le cifre relative alle perdite di vita umana denunciano una disparità
interessante sotto il profilo comparativo (258 israeliani; 474 giordani)
(questi dati sono riportati da Stephen Green, op. cit., pag.
84). I dati presentati da Benny Morris, relativi ai confini di Gaza
e della Cisgiordania, non sono incompatibili: 10.000-15.000 incidenti
l’anno tra il 1949 ed il 1954, seguiti da un calo significativo (in
parte, fisiologico) tra il 1955 ed il 1956 (6.000-7.000). La maggior
parte degli sconfinamenti riguardavano o la criminalità comune (furti
ecc.) o questioni ed esigenze di natura personale (proprietà personale,
vendetta ecc.), mentre il 10% degli sconfinamenti «mirava a colpire
civili o a sabotare obiettivi israeliani
» (le locuzioni adoperate
da Morris, almeno in traduzione, sono poco chiare e quindi di scarsa
utilità storica). Si noterà che gli scontri di quegli anni sono attribuiti
da Morris, come nel caso di Gilbert, esclusivamente a violazioni

da parte araba delle frontiere israeliane (Morris, op.
cit.
, pp. 340ss.): in altre parole, le forze israeliane si
sarebbero limitate, in essenza, secondo loro, a «rappresaglie».
A giudicare dalle statistiche sulle condanne emesse dall’Israel-Jordan
Mixed Armistice Commission
, sebbene minori di numero, le «rappresaglie»,
sia in termini di gravosità sia in termini di scala (coinvolgimento
di combattenti), sembrano più consistenti degli stessi incidenti che
le avrebbero provocato. Compatibilmente con quanto detto, gli scontri
tra armati, secondo Hutchinson, coinvolsero maggiormente le forze armate
israeliane, mentre da parte giordana ci fu una ripartizione, in termini
di coinvolgimento, tra gruppi armati e militari, e quindi la partecipazione
di militari giordani risulterebbe pari alla metà di quella dei militari
israeliani. L’uso dello stesso termine, «rappresaglie», confonde
non poco il quadro nelle varie e divergenti rappresentazioni.

Come Morris,
anche Ann Lesch attribuisce gli sconfinamenti arabi soprattutto dei
primi anni
, in gran parte, a questioni personali (ad es. la volontà
di tornare a casa, di ritirare effetti personali, di lavorare i propri
terreni passati sotto il controllo israeliano) (Aruri, op. cit.,
p. 53). Ciò è compatibile con la tesi della natura fisiologica
di numerosi sconfinamenti. Per il giornalista e storico, Xavier Baron
(basandosi forse anche su dati riportati da Nathan Weinstock) molti
incidenti erano da ascriversi al fatto esistenziale, emotiva – davvero
straziante – di vivere anche a contatto visivo quotidiano con la propria
casa, inaccessibile perché sita a pochi metri oltre una linea di demarcazione
(Baron, op. cit., pag. 82).

Nel
1955, Nasser sostenne alcune azioni armate palestinesi in territorio
israeliano (che partirono da Gaza), allo scopo, però, secondo Gilbert,
di destabilizzare il regime del re Hussein di Giordania. La tesi non
sarà, immaginiamo, infondata, ma la giustificazione di questa chiave
di lettura è piuttosto inconsistente. A distanza di cinquant’anni
dai fatti, manca ancora il nome e cognome della fonte utilizzata, che
per giunta non è né egiziana né palestinese («a senior Jordanian
Cabinet Minister
») (Gilbert, op. cit., pag. 299). Nasser
affermò invece che si trattava in questo caso di una rappresaglia necessitata
da un’incursione israeliana, sempre contro Gaza (Xavier Baron,

op. cit., pp. 82ss.). Dopo un’altra incursione israeliana
in territorio siriano, nel dicembre del 1955, anche Damasco ospiterà
i feddayn.

Lo
scenario, almeno prima del 1965-6, si caratterizza per la perdurante
debolezza e frammentazione del movimento palestinese e, sul piano regionale,
per l’adozione da parte degli stati confinanti di una politica di
(intimorita) non-belligeranza. Portiamoci avanti al periodo successivo:
1964-66.

Le
azioni militari israeliane del periodo 1964-66 – legate anche, o soprattutto,
ai piani di dirottamento di acque siriane verso il territorio israeliano
– erano percepite da molti osservatori come iniziative offensive,
espansionistiche, ingiustificabili. Tuttavia, per Laurens, sarebbero
state essenzialmente di natura difensiva, sia pure accompagnate
dall’espediente «“tecnico”» (la parola è di Laurens)
dello sconfinamento: «portare immediatamente la battaglia in territorio
nemico
». Se il territorio israeliano – ci spiega – «mal
si presta a un’azione difensiva
(…) Ne discende che in caso
di conquista di territori arabi, non vi sarà restituzione senza una
pace completa
» (qui, la ‘voce’ sembra proprio quella di Dayan
e di Ben Gurion!). Manca in questa sintesi di Laurens la parola ‘acqua’.
Coloro che protestavano contro le azioni israeliane si facevano ingannare
dalla macchina propagandistica araba? Come, ad esempio, precedentemente,
il personale ONU responsabile per la zona smilitarizzata tra Israele
e Siria? Già nei primi anni ’50, la questione delle acque catalizzò
altri scontri armati. L’ONU e gli americani si facevano ingannare
dalla macchina propagandistica araba anche allora? Per il nostro, la
risposta sembra affermativa: insiste molto sulla tesi della natura difensiva
delle azioni israeliane, additando, per gli sconfinamenti israeliani,
il motivo «“tecnico”» di cui sopra.

La
riproposizione nel 1964 della questione dell’acqua ci porterà direttamente
alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.

I
regimi arabi erano molto interessati a creare canali politici
per la causa palestinese. La nascita di un organo politico come l’Organizzazione
per la liberazione della Palestina (l’OLP) fu, pare, «in larghissima
parte
» opera dei regimi arabi (Xavier Baron, op. cit., pag.
112). Il parere di Ann Lesch è che «The Arab regimes tried to channel
the Palestinian people’s discontent into a less militant form
»
(i regimi arabi cercavano di canalizzare lo scontento del popolo palestinese
in una forma meno militante [l’OLP]) (Aruri, op. cit., p. 53).

Pare
che la disponibilità di Siria a sostenere un gruppo armato come Fatah
(1965) fosse stata decisa, anch’essa, in risposta alle incursioni
israeliane verificatesi nel 1964.

Laurens
ci suggerisce che le politiche israeliane all’epoca di Rabin capo
di stato maggiore dell’esercito non fossero tese all’espansione
ma invece a «riaffermare le conquiste israeliane nella zona smilitarizzata
(sic) e a costringere Damasco a rinunciare al sostegno della
lotta armata palestinese
».

Pongo
l’accento sul non-senso di una «riaffermazione» di «conquiste
(…) nella zona smilitarizzata». Le conquiste nelle zone smilitarizzate
si chiamano violazioni.

Alla
fine del 1964, i conflitti tra Israele e Siria riguardavano essenzialmente
il controllo delle acque siriane dei fiumi Hazbani e Banias.

Gilbert
(op. cit., pag. 353) ci informa che il neoassunto Rabin frenava,
in quel momento, i propositi più espansionistici avanzati da Moshe
Dayan. Non c’è motivo per dubitare della verità di quanto afferma.
Tuttavia, nel quadro globale, l’assenza di soluzioni di continuità
tra gli scontri di fine 1964 e quelli successivi (incoronatisi nel 1967)
non ammette interpretazioni univocali come quella fornita – in maniera
decisamente ambigua e subdola – da Laurens: reazione essenzialmente
difensiva israeliana di fronte alle attività di Fatah foraggiate da
Damasco.

Nei
primi mesi del 1964, Israele stava completando un importante progetto
per il trasporto dell’acqua del lago di Tiberiade verso il deserto
del Negev. Come notato sopra, Israele aveva in precedenza tentato unilateralmente
di lanciare un analogo piano acque, ed a frenare quest’iniziativa
s’impegnarono gli Stati Uniti con minacce economiche molto significative
(Green, op. cit., pag. 80). Ora, con la presidenza Johnson, Israele
poteva contare, presumibilmente, su pressioni americane meno forti (qualche
brontolio, forse, ma nulla di più serio).

Nel
marzo del 1965 la Siria iniziò un progetto di deviazione delle acque
all’interno delle proprie frontiere. Rabin, la qui ‘moderazione’
è stata rimarcata sopra, si dimostrava ora meno propenso alla linea
morbida: l’Israele attaccò la Siria immediatamente. Si trattava in
parte anche di un riflesso degli sviluppi politici interni ad Israele
(vedi sotto). Il progetto siriano era di modeste dimensioni: nel 1966,
emergono dati tecnici di fonte israeliana che precisano che «i danni
inflitti a Israele
sarebbero stati relativamente trascurabili»
(quantitativamente, il 5-6% in meno delle acque che Israele voleva trarre
fiume Giordano) (N. Weinstock, op. cit., pag. 178).

Fu l’epoca
anche di un cambiamento radicale nel mondo politico israeliano. Una
scissione all’interno del partito politico israeliano Mapai (1965)
portò alla formazione del partito falco, Rafi («lista operaia»),
sostenuto da Peres, Ben Gurion e Dayan.

Scrivendo nel
1969, Nathan Weinstock dava pochi chance al partito Rafi di «spuntarla,
attraverso la via parlamentare, sui mezzi enormi e le pressioni economiche
della Histradut
» (che, all’epoca, era insieme il sindacato, l’operatore
industriale ed il fornitore parastatale di welfare più importante
di Israele: l’unico sindacato al mondo, nota ironicamente un osservatore,
dotato di ‘sezione sindacale’) (N. Weinstock, op. cit.,
Vol. 2, pag. 68, 70). L’informatissimo Weinstock sembra avere ragione
nei presupposti ma non nelle previsioni concrete relative all’arena
della contesa (il parlamento). Ci sono buoni motivi per credere che
al partito Rafi interessava poco «la via parlamentare» e molto
di più quella concertativa ‘dei corridoi’ e del ‘transatlantico’
(il regno, cioè, dello stesso Ben Gurion). In sintonia con l’imminente
ondata liberale, la «lista operaia» prese, poi, seriamente
di mira la Histradut, roccaforte del corporativismo più classico.

A distanza
di anni dalla scissione del 1965, il Rafi si fuse con il vecchio Mapai,
e così nacque una nuova alleanza laburista. Con la formazione nel 1977
del governo Begin, e con il travaso dell’oppositore Dayan (neo-Ministro
degli Esteri) dal campo laburista al governo a guida Likud, la dottrina
della guerra preventiva (già sperimentato dallo stesso Dayan, in qualità
di neo-Ministro della Difesa, nel 1967) doveva finalmente consolidarsi
come tratto inamovibile (cfr. Green, op. cit., pag. 191; Gilbert,
op. cit.
, pag. 479). Tuttavia, la parola ‘spartiacque’ – scusatemi
il doppio senso! – è troppo forte. In ogni caso, è probabile che,
da allora in poi, tale dottrina non sia stata contestata seriamente
da altri correnti politici israeliani. Si tratterrebbe, in un certo
senso, dell’ufficializzazione dei comportamenti meno accomodanti e
più violenti verificatisi nei decenni precedenti, e della volontà,
per il futuro, di proseguire lungo questo stesso tracciato.

LEZIONE
3

Ritorniamo
alle riflessioni sul 1967. Laurens afferma che «la prospettiva di un ampliamento
territoriale
[israeliano] non è all’ordine del giorno all’inizio
del 1967
». Altra tesi azzardata, avanzata senza
l’apporto o sostegno di dati particolari.

Anzi,
i dati forniti da lui stesso indicano il contrario.

Descrivendo
la formazione del governo israeliano d’unione nazionale del 1 giugno
1967 – durante il periodo di piena crisi militare-diplomatica e con
un anticipo di solo quattro giorni sulla decisione israeliana di entrata
in guerra – Laurens informa il lettore più attento che «Oltre
alla sopravvivenza, si tratta anche di portare a termine ciò
che la guerra di indipendenza
[del 1948 n.d.a.]
non aveva potuto realizzare, in particolare
la conquista della Cisgiordania
» (sott. mia).

Laurens
avanza due propositi che, sul piano del diritto internazionale, sono
in stridente contrasto tra loro: guerra di «sopravvivenza»
(difesa) e guerra di «conquista» (offesa). Anzi, in un certo
senso, tre: guerra di «sopravvivenza», guerra di «conquista»,
e infine guerra difensiva che è «anche» guerra offensiva.
Anzi, ancora, oscilla tra le tre opzioni. Almeno questa è l’impressione
di chi scrive. Al lettore, la parola definitiva sulla questione. In
ogni modo, data la scala dell’operazione, il moto espansionistico
del 1967 non ha per nulla l’aria di una cosa improvvisata all’ultimo
momento.

La «prospettiva
di un ampliamento territoriale
»
non era per Laurens «all’ordine del giorno all’inizio
del 1967
». Lo diventerà improvvisamente? Tra gennaio e giugno?
Tra il primo ed il quinto giorno del mese di giugno? O durante la stessa
guerra? È difficile credere che un cambiamento così importante delle
priorità possa essere improvvisato o che possa emergere come il frutto
del momento. Se ammettiamo che sia invece verificato in questa maniera,
bisogna sollevare il problema di ciò che N. Weinstock ha ipotizzato
come colpo di stato «camuffatto» (in pratica, un colpo di stato
blindato dalla crisi regionale e mai dichiarato) (op. cit., pag.

200). Weinstock si riferisce alla formazione del governo di unione nazionale
del 1 giungo 1967. Più che colpo di stato, sia pure «camuffatto»,
è forse meglio considerarlo nei termini di un cambio della guardia.
Tra i modelli di governo in gara, non sembra che nessuno di questi modelli
possa dirsi democratico. Di fronte alle percezioni delle priorità del
sionismo, si mostravano consenzienti, vale a dire ideologicamente aperti,
all’idea dell’effettivo trasferimento del potere esecutivo nelle
mani dello stato maggiore. Le eventuali resistenze saranno dettate dall’amor
proprio dei vari protagonisti? Per il ceto degli ufficiali, la corsa
al potere politico sembra passare per le vie della disubbidienza.

Il quadro tracciato
da Laurens rispetto al rapporto militari-governo è piuttosto confuso,
ma è rivelatore: 1) la strategia della tensione degli anni ’60
– la cui esistenza è riconosciuta – fu messa in atto, secondo Laurens,
dai militari israeliani che avrebbero ricevuto, poi, un «appoggio
più o meno esplicito
» da parte del governo israeliano;

2) altrove, Laurens parla della «capacità dell’esercito
di conquistare nuovi territori
» (sott. mia) e della capacità «dello
stato
di conservarli» (sott. mia). Chi decide è
chi prende l’iniziativa.

Laurens
ammette l’esistenza di piani espansionistici (offensive) ai più alti
livelli di comando israeliano. Ma va oltre. Include, come abbiamo visto,
un sinistro riferimento a «ciò che la guerra di indipendenza non
aveva potuto realizzare
» (sott. mia). Dunque, ponendo che
nel 1948 la presa della Cisgiordania non fosse stata «all’ordine del giorno», era,
per Laurens, già un’idea latente, quantunque irrealizzabile in quel
momento (qui sta il senso di quel «potuto»). Possiamo perciò
concludere che per Laurens l’idea circolava al momento stesso della
nascita di Israele (se non prima). La nostra impressione è che, nelle
sue speculazioni, Laurens si sia ispirato qui al pensiero di Ariel Sharon,
che, nel 2002, dichiarò appunto di voler portare a termine la «seconda
metà di quella
[guerra n.d.a.] del 1948» (Reinhart,

Distruggere la Palestina – La politica israeliana dopo il 1948,
Marco Tropea Editore, Gruppo Editoriale il Saggiatore S.p.A., Milano
2004, pag. 12).

LEZIONE
4

Laurens
interpreta la mossa nasseriana della chiusura dello stretto di Tiran
come espressione diretta della volontà dell’Egitto di «isolare
la Giordania per costringerla a spostarsi dal campo saudita a quello
egiziano
», per la realizzazione di un piano («gioco politico
arabo
») teso infine all’isolamento dell’Iran, con le tappe
intermediarie della «resa della Giordania» e del «allinearsi
dell’Arabia saudita
» (cfr. anche i fatti di guerriglia/terrorismo
del 1955 descritti sopra). Non escludiamo per nulla che il governo egiziano
abbia accarezzato progetti del genere. Ma, ci chiediamo, erano prioritari
o contingenti? Erano di breve o di lungo termine? Le ‘galline’,
invece di scannarsi a vicenda, non preferivano prendersela direttamente
con il ‘gallo del cortile’?

Le
affermazioni di Laurens (e Gilbert) riguardanti le mire nasseriane in
campo arabo non assomigliano alle tesi complottistiche di cui ogni persona
ragionevole ed obiettiva, come ci avverte lo stesso Laurens, dovrebbe
fare a meno?

Infine,
dopo l’ennesima incursione israeliana nei territori confinanti –
questa volta massiccia e in terra giordana (avvenuta nel 1966) –,
non è legittimo supporre che la «resa» giordana ‘voluta’
da Nasser sia stata opera invece dello stesso Israele? Avvenne nel 1967
con la stipula di un patto di reciproca difesa tra Nasser e ed il re
giordano Hussein.

LEZIONE
5

Anche
se a sparare il primo colpo furono le forze israeliane, per Laurens
fu Nasser a provocare la guerra del 1967.

Israele
era dunque innocente? Laurens non si spinge a tanto. Afferma che i
militari israeliani di quegli anni applicavano, sì, una «strategia
della tensione
» ma – strano proposito! – non volevano la guerra
senza voler arrivare alla guerra»). Di nuovo ci troviamo
al bivio irrisolto di prima. La Guerra dei Sei Giorni fu intrapresa
da Israele per garantirsi la sopravvivenza, o allo scopo di espansione
territoriale?

Come
riporta Green (vedi il mio La lobby israeliana…) la tesi della
politica espansionistica israeliana è illustrata a grandi lettere e
in tempo reale dal giornalista israeliano Simha Flapham, che già
nel 1963
denunciava la presenza di una politica israeliana di tensione,
in attesa di momenti opportuni per infliggere un colpo decisivo. Questo
atteggiamento minava sia le politiche difensive, nel senso tradizionale
del termine, sia quelle tese all’ottenimento del riconoscimento formale
d’Israele da parte degli Stati arabi. È da notare, inoltre, che queste
riflessioni di Flapham precedono la campagna delle acque siriane
del 1964.

La
nostra impressione è che Laurens non
abbia fornito dati veramente concreti
a sostegno della tesi della
non-volontà da parte israeliana di fare la guerra. Altrettanto poco
documentata ci sembra la sua tesi sulle intenzioni egemonizzanti e bellicose
dell’Egitto.

LEZIONE
6

Per
Laurens, Nasser non agiva primariamente perché anti-israeliano. Voleva
anzitutto consolidare o affermare la propria posizione egemonica all’interno
del mondo arabo e islamico nel suo complesso, perlomeno in Medio Oriente
(mi riferisco agli ‘allineamenti’ di cui sopra: Lezione 4). «Da
parte araba –
scrive Laurens
–, il motore degli avvenimenti è stato più la guerra fredda che
opponeva la Rau
[essenzialmente, l’Egitto] all’Arabia saudita
che non il conflitto arabo-israeliano
(…)». La fonte di questo
ragionamento si trova indubbiamente nei discorsi di Rabin, che trovarono
ampio eco nella stampa israeliana («tenaglie», «il confronto
che ha luogo attualmente nella regione non è quello che oppone Israele
e arabi. È quello che oppone l’asse Egitto-Siria-Shukeiri
[RAU-OLP]

agli Stati filo-occidentali» (Israel Economist, agosto 1966).
Nel 1967, Rabin asserì che «Finché gli ardenti rivoluzionari di
Damasco non saranno stati rovesciati, nessun governo potrà sentirsi
sicuro in Medio Oriente
». Acuto, ci pare, Weinstock: «Rileggiamo
la dichiarazione
– scrive –: non si tratta più di opere
di canalizzazione
[la disputa sulle acque] o di atti di terrorismo

[feddayin] ma di rivoluzionari [i baathisti al potere in Siria,
l’organizzazione politica dei palestinesi] che compromettono
la sicurezza della regione
[l’incolumità dei regime filo-occidentali]
(op. cit., pag. 186). È un discorso rivolto all’estero: ‘siamo
tutti israeliani’. La versione di Laurens e de Le
Monde Diplomatique
concorda con Rabin. Laurens tira le somme: «È
per salvare l’Arabia saudita che gli Stati uniti autorizzano tacitamente
Israele a entrare in guerra
».

Quest’ultima
frase, molto concisa, parrebbe il semplice resoconto di un ragionamento
interno americano. Ma è subdola. Si presume 1) che l’eventuale
pericolo fosse imminente («salvare»); e 2) che toccasse
esclusivamente ad Israele, agli USA ed ai sauditi, senza l’intermediazione
dell’ONU
, valutare la gravità degli eventuali problemi recati
dalle iniziative nasseriane.

LEZIONE
7

Dal
resoconto fornito da Laurens emerge che lo stretto di Tiran ed il golfo
di Akaba fossero stati regolati da accordi internazionali (quelli del
1957) poco chiaramente congegnati («confusione giuridica»)
e tali da non permettere ad Israele, sul piano legale, di additare come

casus belli la chiusura unilaterale da parte egiziana di queste
acque navigabili nel maggio del 1967. A differenza di Parigi, «Londra
e Washington considerano la chiusura

(…) come un’aggressione» (N.B. per motivi legati alla configurazione
geologica della zona, le navi che passavano per la stretta dovevano
tutte penetrare le acque nazionali dell’Egitto).

Si
può affermare che Nasser abbia agito legittimamente in base
ai termini dell’accordo del 1957? Nel giro di poche settimane questo
problema giuridico venne superato dai fatti, e forse non sarà mai risolto.
Se, per Green (op. cit. pag. 195), Nasser aveva violato i patti
del 1957, il blocco del golfo non era totale. Riguardava essenzialmente
la consegna di materiali strategici ad Israele ed il passaggio di navi
battenti bandiera israeliana; le trattative erano in corso fino all’ultimo
momento, e gli altri porti israeliani (più importanti) erano garantiti
dalla presenza locale della VI flotta statunitense (Weinstock, op.
cit.
, pag. 196)

Risolta
immediatamente, invece, fu la questione dei caschi blu (le forze di
interposizione delle Nazioni Unite, di stanza dal 1956 nel Sinai). L’altra
grande decisione ‘bellicosa’ egiziana, sempre del maggio 1967, riguardava
l’espulsione dei caschi blu dal Sinai. Il segretario generale dell’ONU,
U Thant (1961-1971) spiegò (a chi l’accusava di essersi piegato alle
indebite pressioni egiziane) che era nel diritto dell’Egitto far allontanare
le truppe ONU dal proprio territorio. In ogni caso, come specifica lo
stesso Laurens – che ringraziamo per questo –, «senza il consenso
del Cairo
[le forze dell’ONU presenti nel Sinai]
sarebbero diventate giuridicamente truppe di occupazione
».

Benny Morris
parla invece della «remissività» dell’ONU (op. cit.,
pag. 387). Gilbert (op. cit., pag. 367) usa toni non dissimili.
Entrambi evitano di considerare la questione nel suo complesso. La suddetta
«remissività» fu in gran parte determinata, come spiegò all’epoca
lo stesso U Thant, dal fatto che questo diritto era stato riconosciuto
dall’ONU parimenti ad entrambi le parti. Fu esercitato già
da principio, nel 1956, da quella israeliana (dopo una guerra – aggiungiamo
– in cui Israele fu riconosciuto, universalmente, come aggressore,
insieme alla Francia ed alla Gran Bretagna).

Nonostante
le insistenti preghiere di ben due Segretari Generali dell’ONU, gli
israeliani avevano sempre rifiutato di ammettere sul proprio territorio
la presenza di un contingente tampone (buffer) dei caschi blu
(cfr. Green, op. cit., pag. 196).

Chiaramente,
a questo punto, ogni pressante richiesta rivolta all’Egitto – di
fronte all’esempio di un Israele, in questo senso, da sempre
‘latitante’ – avrebbe fortemente compromesso l’immagine di un’ONU
super partes
(qui si presenta l’impressionante parallelismo con
il dramma odierno della ‘questione nucleare’ e l’Iran).

Questo
in merito ad alcuni aspetti tecnici e legali della questione.

Laurens,
invece, per i suddetti motivi, pone l’enfasi sulle interpretazioni
politiche globali, legate a queste due mosse nasseriane. All’epoca,
le ambizioni egemoniche regionali egiziane furono sottolineate anche
da Walt Rostow (principale consigliere di Johnson per la politica estera).

In
estrema sintesi – secondo Rostow – svanita ogni speranza di una
svolta ‘moderata’ tra le masse e le nazioni arabe, e quindi di una
pacifica collaborazione regionale, gli israeliani non avrebbero avuto
altra scelta, di fronte alle sfrenate ambizioni di Nasser, se non quella
di attaccare per primi il 5 giugno del 1967.

Questa
visione, esposta nuovamente nel 1978 in pressoché gli stessi termini
da Nadav Safran (Israel The Embattled Ally, Harvard University
Press), era – secondo Sheila Ryan – egemonica tra gli amministratori
americani nel 1967 (Aruri, op. cit., pag. 351).

Laurens,
sia pur in termini più ambigui (ci stiamo abituando…), condivide
l’essenza di questo schema: «Gli Stati Uniti non possono più
incoraggiare Israele a ‘contenersi’, a fronte a quella che viene
considerata la difesa di interessi vitali
».

Colpisce vedere
sulle pagine di giornali come il Manifesto e Le Monde Diplomatique

– che si reputano grandi analisti ‘controcorrente’ di cose politiche
–, la rispolverata di vetusti schemi storici ‘istituzionali’ ed
‘ufficiali’ israelo-americani. Il quadro è troppo semplice. Troppo
manicheo. Come nel caso delle «tenaglie» e dell’«asse»
anti-occidentale lamentati all’epoca da Rabin e dalla stampa israeliana,
le tesi offerteci qui propendono tutte per la tattica diversiva e per
la de-responsabilizzazione politica e morale di Israele per i tragici
fatti del 1967.

LEZIONE
8

Dopo
aver attribuito a Nasser le maggiori responsabilità per la Guerra dei
Sei Giorni, è interessante notare come Laurens – trattando la questione
della percezione degli avvenimenti presso le rispettive opinioni pubbliche
arabe ed occidentali – abbia tracciato implicitamente, verso la fine
del suo articolo, un disegno o quadro concettuale-interpretativo, simmetrico
ed elegante, che merita nostra attenzione. Si tratta del leitmotiv di
due ‘triadi’. Ad un’estremità abbiamo la già citata «retorica
del discredito coinvolgente imperialismo, reazione e sionismo
»
– così diffusa (almeno fino a tempi recenti) presso i circoli dei
‘progressisti’ occidentali – e, all’altra, gli argomenti (del
tutto paralleli) adottati dallo stesso Nasser. «In pubblico
– scrive Laurens – [Nasser] mette sullo stesso piano Israele,
l’imperialismo e la ‘reazione’
» (e nella vita privata?…
chissà che cosa pensava!?).

Insomma,
i due campi – quello panarabista e quello occidentale e vagamente
progressista – si rispecchiavano. E ciò, per Laurens, ha causato
vari danni non soltanto alla ‘preziosa’ causa israeliana, non soltanto
al mondo arabo (ingannato ed accecato da un odio teleguidato nei confronti
del sionismo), ma anche a quegli sprovveduti occidentali che, avvicinandosi
al movimento anti-imperialista ed antisionista di quegli anni, non immaginavano
di essersi messi al servizio di un ambizioso neo-imperialista come Nasser.

Sul
piano metodologico, il ragionamento di Laurens – la cui efficacia
propagandistica non va negata – rientra pienamente nel canone demonizzante
della politologia mainstream dei nostri giorni.

LEZIONE
9

Il
Manifesto-Le Monde Diplomatique
ha scelto di pubblicare acriticamente

non soltanto pareri di dubbio valore ma anche alcuni dati concreti sugli
sviluppi bellici del 1967 i quali – con la coraggiosa pubblicazione
negli anni 80 di un’opera da parte di una casa editrice di primo piano
(quale fu la Faber and Faber Limited, di Londra e New York) – sono
stati da decenni autorevolmente contestati, ed in sostanza smentiti.
L’opera fondamentale a cui ci facciamo riferimento – Taking Sides…,
(schierarsi),
sempre del noto storico,
Stephen Green – viene tuttora ignorata dai più.

Si
tratta dell’Operation IRAN. Ovvero del diretto coinvolgimento
militare americano a fianco di Israele nella Guerra dei Sei Giorni,
le cui dimensioni indicano la possibilità di una pianificazione congiunta
israelo-americana, forse pluriennale, della stessa guerra del
1967 nel suo complesso (vedi l’articolo mio, La lobby israeliana…).

Anche
Laurens nega l’esistenza di quest’operazione militare israelo-americana.

L’omissione
della notizia da parte di storici del ‘calibro’ di Morris, Laurens
o Gilbert (ma l’elenco si allunga all’infinito) potrebbe trovare
qualche giustificazione ‘tecnica’ nel fatto che, nel 1984 (l’anno
di pubblicazione), il metodo d’indagine disponibile a Green era quello
soprattutto del colloquio immediato, verbale, con uno dei partecipanti
nell’operazione, in qualità di testimone diretto dei fatti (la cui
identità, per ovvi motivi, non venne fornita) (Green, op. cit.,
pp. 209-210)

Operazione
IRAN era segreta. Ma, a quanto pare, gli storici ‘seri’ non riconoscono
l’esistenza di strategie ed operazioni segrete, nonostante il clamoroso
imbroglio americano dell’incidente del Golfo di Tonchino di quegli
stessi anni (la cui consistenza ha filtrato molto gradualmente, e quindi
solo parzialmente, nella conoscenza dell’opinione pubblica americana).

Prima
di trattare Operazione IRAN, allora, consideriamo molto brevemente la

reception history di Tonchino (1964):

Il 4 agosto,
due navi americane comunicano di essere state attaccate dalle forze
nordvietnamite (siluri) a distanza di 65 chilometri dalla costa del
Vietnam del Nord nel Golfo di Tonchino. I nordvietnamiti affermano invece
che le navi erano penetrati nelle loro acque territoriali. Gli americani
negano tale circostanza e ribadiscono di essere stati attaccati. I nordvietnamiti,
a loro volta, escludono che questo attacco sia avvenuto. Gli americani
lanciano immediatamente una incursione aerea, colpendo alcune navi e
postazioni locali nordvietnamiti.

Prima del 4
agosto, il Presidente americano, che già in precedenza voleva agire
apertamente contro il Vietnam del Nord, aveva ottenuto pochi consensi
a livello di opinione pubblico (il 42% secondo i sondaggi della Harris
polls
). Dopo l’asserito incidente di Tonchino, con il consenso
del Congresso, il presidente ha carte blanche ed ordina l’attacco
frontale. I consensi salgono nel frattempo al 72%.

Nel 1968, a
distanza di quattro anni di questi fatti, durante un’udienza della
commissione estere del Senato, il capitano della Maddox, una
delle due navi ‘attaccate’, afferma che ciò che appariva al sistema
radar come un insieme di siluri poteva essere ascritto invece ai fenomeni
generati dalle vibrazioni delle eliche della nave stessa (questi dati
sono tratti da The Eagle and the Lotus, J. F. Cairns, Melbourne,
Australia, 1969, pp. 69ss.).

I dubbi, infatti,
avevano circolato già dai primi tempi (cfr. AA.VV., The Politics
of Escalation in Vietnam
, Fawcett World Library, New York, 1966,
pag. 40). Vengono confermati da Daniel Ellsberg, il notissimo autore
di The Pentagon Papers, durante una testimonianza resa sempre
davanti alla commissione estere del Senato (13 maggio 1970). Ellsberg
affermerà più tardi, dopo la lettura, nel 1971, di The President’s
War
(trad. it.: Anthony Austin, La guerra del Presidente,
Garzanti, 1972), di essere «quasi sicuro» che l’attacco nordvietnamita
sia una finzione (Daniel Ellsberg, Vietnam, verità e menzogna,
Garzanti, 1973, pag. 250).

Nel 1987, Ben
Bradlee, ex-caporedattore(!) del Washington Post(!), si aggiunge al
‘coro’: dichiara di essersi ormai convinto che l’incidente di
Tonchino fosse un falso completo. Gli anni passano: «It has really
taken 20 years for the truth to emerge
» (ci sono voluti davvero
venti anni prima che la verità venisse a galla) (B. Bradlee, Deceit
and Dishonesty – The first James Cameron Memorial Lecture
, The
Guardian, Londra, 20.4.1987). Bradlee giunge a questa conclusione dopo
la lettura delle memorie di guerra dell’Ammiraglio Jim Stockdale (In
Love and War
, James Stockdale, Harper & Row, New York, 1984).

Stockdale è
pilota (comandante di squadriglia) nei cieli di Tonchino quel 4 agosto
1964. Da lì a poco è catturato dai nordvietnamiti (seguono più di
sette anni di prigionia nel Vietnam del Nord). Già ammiraglio, eroe
di guerra pluridecorato, Stockdale concorre alla vicepresidenza degli
Stati Uniti nel 1992.

Operazione
IRAN risale allo stesso periodo della storia americana. Coinvolse
direttamente
piloti e tecnici americani in azioni di ausilio
tecnico alle forze israeliane, in tempo di guerra. Si
trattava di operazioni di rilevamento, la cui base era posta sul suolo
israeliano
, di dati sulle istallazioni militari (basi aeree)
delle forze arabe schierate contro Israele.

Per
la giustizia americana, gli elementi di spionaggio, alto tradimento
e forse di impeachment, ci pare, sono tutti presenti.

Data
la sua complessità e delicatezza, l’operazione fu indubbiamente pianificata
con largo anticipo
. Ben prima, ad esempio, della chiusura del canale
di Tiran. Notiamo sia l’impiego delle tecnologie segrete più avanzate
dell’epoca sia la scala dell’iniziativa (che, oltre agli Stati Uniti
ed Israele, richiedeva il coinvolgimento dell’Inghilterra, della Germania
e della Spagna, che fornirono, consapevolmente o no, basi logistiche
per i vari mezzi aerei statunitensi coinvolti).

Precisamente
perché l’andamento di questa guerra dipendeva – se non esclusivamente,
in gran parte, a detta di tutti gli storici – dalla precisione
con cui le forze aeree israeliane nelle prime ore dello scontro distrussero
le forze aeree nemiche, è ragionevole supporre che sia l’Operazione
IRAN in sé sia la guerra nel suo complesso fossero state pianificate
insieme, organicamente come un’unica, singola operazione.

Approntato
il tutto, di fronte alle notevoli dimensioni della missione, e anche
per proteggere la segretezza della stessa, è verosimile che abbia avuto
una sell-by date (data di scadenza), e cioè che ad un certo
punto divenne necessario o abbandonare il piano o
cogliere la prima opportunità per
attivarlo
, e quindi entrare in guerra. In presenza di un piano del
genere è chiaramente di scarso peso l’eventuale circostanza che gli
israeliani fossero stati colti «indubbiamente
di sorpresa
» (Morris, op. cit., pag. 387) dalla decisione
egiziana di allontanare le forze ONU dal Sinai. Né è ragionevole ipotizzare,
all’epoca, uno stato di impreparazione militare israeliana (per questo
e per mille altri motivi!). E se la ‘scintilla’ non si presentava,
provocarla non sarebbe stato difficile. Da parecchi anni, il terreno
regionale era fittamente cosparso di casus belli.

Evidenze di
censura:

1) L’opera
di Stephen Green – anche per le documentazioni che riporta – è
indubbiamente conosciuta nella sua interezza da ogni vero esperto delle
vicende belliche del Medio Oriente del XX secolo. Green (con altra opera)
viene nominato da Gilbert tra le fonti bibliografiche, ma non da Morris;

2) Per
Morris, la vittoria aerea del 1967 sulle forze arabe, schiacciante ed
immediata, era dovuta essenzialmente «all’abilità del personale
di terra
». Dal testo risulta chiaro che il personale di terra a
cui Morris si riferisce era di nazionalità israeliana (op. cit.,
pag. 402).

Pur citando
le parole espresse a guerra finita dal re di Giordania, Hussein («I
loro piloti conoscevano a menadito quello che avevano di fronte…

disponevano di elenchi completi dei più minuti particolari
di ciascuna delle 32 basi aeree arabe, sapevano dove colpire, cosa e
come
») (op. cit., pag. 400), Morris evita ogni riferimento
allo studio compiuto da Green sull’Operazione IRAN. Lo scopo dell’operazione
(conseguito con successo) consisteva nell’assicurare ad Israele precisamente
quella
vittoria aerea, così eloquentemente descritta dal re Hussein.
Morris era intellettualmente obbligato a menzionare l’operazione (pur
contestando, nell’eventualità, la versione dei fatti offerta da Green),
sia per la testimonianza fornita, sia, semplicemente, per il fatto che,
per Green, detta operazione fu allestita precisamente per acquisire
quegli «elenchi completi» e «minuti particolari» descritti
da Hussein, e di cui Morris scrive, tra l’altro, con enfasi ed evidente
soddisfazione!

Morris ha tradito
la propria missione qua storico? La risposta è affermativa:

a) per
l’imprescindibile natura dell’opera nel suo complesso. Green ha
svolto ricerche basate in parte su documentazioni ufficiali americane
che, oggi, con ogni probabilità – come ci ricorda lo stesso Green
(op. cit., pp. 9ss.) – non sono più a disposizione
degli studiosi (riforma reaganiana del Freedom of Information Act);

b) per
gli specifici contenuti esposti ‘in esclusiva’ sempre da Green,
strettamente pertinenti agli sviluppi della guerra aerea descritti da
Morris;

c) per
l’importanza dell’argomento che, come nel caso del suddetto ‘incidente’
di Tonchino, è, in sé, di primissimo ordine storico.

3) Laurens,
professore al Collegio di Francia e autore di diverse opere dedicate
al conflitto arabo-israeliano, si accoda alla versione ufficiale dei
fatti. Con caratteristica nonchalance Laurens ‘rincara’ la
‘dose’: Nasser «non comprende – scrive – che Israele
ha solo bisogno dell’appoggio
politico (e non della partecipazione militare) degli Stati
uniti e del Regno unito
» (sott. mia). Aggiunge: «Un intervento
militare, anche simbolico, delle
due potenze anglosassoni, farebbe gioco soprattutto ai sovietici
»
(sott. mia).

Ha violato
i propri doveri da intellettuale e storico per motivi identici a quelli
che abbiamo attribuito a Morris: il riferimento di Laurens al valore
«simbolico» di un intervento militare esterno costituisce l’ingiustificata
ed aprioristica esclusione di ogni ipotesi di un intervento militare
diretto da parte degli Stati Uniti in quel teatro di guerra. Tra l’altro,
il riferimento alle «due potenze anglosassoni» è interessante.
Trattasi di colpo diversivo o di altro?

Rimane
un quesito importante. Che valore avrebbe avuto/ha avuto Operation
IRAN
? Quali ne sarebbero stati/sono stati i benefici per gli Stati
Uniti?

Può
darsi che, per vincere la guerra, Israele non abbia avuto, strettamente
parlando, bisogno della partecipazione militare degli Stati Uniti.
Ma in tal caso, le due domande – ‘Che valore avrebbe avuto Operation
IRAN
?’ e ‘Quali ne sarebbero stati i benefici per gli Stati
Uniti?’ – diventano doppiamente pertinenti.

L’operazione
mirava verosimilmente all’accorciamento della guerra, per compensare
le deficienze economiche della macchina israeliana (gli israeliani
erano indubbiamente molto ben attrezzati, ma per le guerre di breve
durata: cfr. Weinstock, op. cit., pp. 196-197). Questo spiega
in parte, ma non giustifica, la brutalità del loro intervento durante
i giorni di classica guerra internazionale, ma non spiega per nulla
la brutalità che ha caratterizzato le operazioni successive di pulizia
etnica nei territori da loro occupati. Di fronte ai benefici tratti
sia dagli israeliani sia dagli stessi Stati Uniti, i rischi corsi dagli
americani
ci paiono sproporzionatamente
grandi
(soprattutto sul fronte diplomatico).

Siamo
in epoca di guerra fredda e della guerra del Vietnam. Se l’operazione
divenisse di dominio pubblico, come avrebbero potuto reagire (posto
che ne fossero state tenute all’oscuro) la Germania, la Spagna e la
Gran Bretagna? Spostandosi in blocco verso il campo ‘anti-yankee’
di Charles de Gaulle? Nel caso di una vittoria israeliana conseguita
invece dopo una guerra eccessivamente lunga, la vittoria si sarebbe
‘diluita’ (una vittoria puramente difensiva, ad esempio, senza la
conquista della Cisgiordania)? Che dire poi delle azioni israeliane
in Siria proseguite in violazione del cessate il fuoco? L’aiuto esterno
assicurò ad Israele la vittoria in sé? O forse non
la vittoria in sé
ma quella vittoria territoriale schiacciante
che ci fu, ad ampissimo raggio, comprese le violazioni del cessate il
fuoco? In assenza dell’aiuto americano, tali conquiste territoriali
erano oltre le capacità delle sole forze israeliane? Le percezioni
della recente campagna libanese confermerebbero un quadro del
genere, anche oggi.

Le
risposte continuano a sfuggirci, ma all’elenco delle domande bisogna
aggiungerne un’altra, importante. L’operazione poteva avere una
valenza, invece, del tutto politica? Ha costituito essenzialmente un’arma
di ricatto internazionale allestita ai danni del potente ma compromesso
‘alleato’ americano, o dello stesso Presidente?

A
proposito della vittoria lampo, Green riporta il seguente dato curioso.
Nel maggio del 1967, Johnson chiese alla CIA una stima delle capacità
militari israeliane. La CIA – con agghiacciante precisione – previde
una guerra della durata di circa una settimana, con Israele vincente.
In sé, ciò confermerebbe che il Presidente e la CIA fossero entrambi
a conoscenza di Operazione IRAN. Nel 1968, il vicesegretario di stato
americano, Nicholas Katzenbach, riferì che «The intelligence was
absolutely flat on the fact that the Israelis would in essence do just
what they did. That is, that they could mop
up the Arabs in no time at all
» (era del tutto pacifico per l’intelligence
che gli israeliani avrebbero fatto essenzialmente quel che hanno fatto.
Cioè che avrebbero potuto sistemare gli arabi definitivamente in un
batter d’occhio) (Green, op. cit., pag. 200).

Pare,
anche, che il governo americano si fosse addirittura dimenticato di
stilare un piano ‘B’ (o contingency plan) per affrontare
lo scenario dopo un’eventuale sconfitta israeliana!

Ma,
in fase di preparazione, per essere sicurissimi della vittoria israeliana,
il governo fece di più. Il 23 maggio 1967, violò addirittura l’embargo
che esso stesso aveva imposto al mondo intero sugli armamenti diretti
in Medio Oriente (Green, op. cit., pag. 201). Lo fece anche la
Francia (Weinstock, op. cit., pag. 207).

I
rischi legati all’Operation IRAN furono enormi. Tra questi
si può ipotizzare anche quello dello scontro militare con l’URSS.
L’avanzata in territorio siriano delle forze israeliane ebbe luogo
dopo l’accettazione del cessate il fuoco da parte di Nasser (ratificata
anche a nome della Siria). La violazione israeliana del cessate il fuoco
è stata confermata sia dalle comunicazioni urgenti avvenute in quelle
ore tra Mosca e Washington sia dalle manovre della Sesta Flotta nel
Mediterraneo (Green, op. cit., pp. 200-201).

Quindi,
ulteriori domande sorgono in merito ai rischi corsi dagli USA: 1)
la violazione israeliana del cessate il fuoco (contro Siria) era prevista
negli accordi presi con gli americani?; 2) se lo era, perché
gli americani dovevano addossarsi questo ulteriore rischio?; 3)
se viceversa la violazione non era prevista, quale giudizio dovevano
dare gli americani del comportamento di un alleato così ambiguo, ingrato
ed imprevedibile?

blank

NOTA
CONCLUSIVA

Tra
le premesse di questo scritto abbiamo tracciato l’ipotesi della perdurante
assenza
, nonostante le apparenze, degli Stati Uniti quale
attore politico autonomo nel Medio Oriente. Al di là di altre osservazioni,
ci chiediamo se la stampa, il mondo accademico, i politici abbiano
agito costantemente negli ultimi decenni per tenerci all’oscuro di
ogni versione dei fatti che possa surrogare questa ‘tesi dell’assenza’.
Mi sembra appropriato, quindi, segnalare in chiusura i recenti approfondimenti
svolti negli Stati Uniti da John Mearsheimer e Stephen Walt precisamente
su questo problema, e la recentissima pubblicazione, da parte di ben due case editrici italiane, delle loro conclusioni: La lobby israeliana e la politica estera degli Usa (della Asterios editore, di Trieste), con un importante saggio di Bertel Ollman, e La Israel lobby e la politica estera americana (della Mondadori).

Sandy Synge
07.10.2007

ISCRIVETEVI AI NOSTRI CANALI
CANALE YOUTUBE: https://www.youtube.com/@ComeDonChisciotte2003
CANALE RUMBLE: https://rumble.com/user/comedonchisciotte
CANALE ODYSEE: https://odysee.com/@ComeDonChisciotte2003

CANALI UFFICIALI TELEGRAM:
Principale - https://t.me/comedonchisciotteorg
Notizie - https://t.me/comedonchisciotte_notizie
Salute - https://t.me/CDCPiuSalute
Video - https://t.me/comedonchisciotte_video

CANALE UFFICIALE WHATSAPP:
Principale - ComeDonChisciotte.org

Potrebbe piacerti anche
Notifica di
2 Commenti
vecchi
nuovi più votati
Inline Feedbacks
View all comments
2
0
È il momento di condividere le tue opinionix