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La Redazione

 

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GRILLETTI E BELLETTI

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A cura di God
Il 20 Febbraio 2007
40 Views

blankDI GABRIELE ADINOLFI

In “Niente di Personale”, trasmissione andata in onda sulla Sette il 28 gennaio, si è parlato – cosa oramai inflazionata – degli Anni di Piombo. Tra tante banalità è però spiccato il ritaglio offerto a due opposti guerriglieri: Mario Tuti, presentato in modo assolutamente inesatto come “ex terrorista di Ordine Nuovo” e Alberto Franceschini, cofondatore delle Brigate Rosse.

Entrambi di alto livello, Tuti e Franceschini sono sembrati parlare al deserto. Non soltanto perché i presenti, dal conduttore agli invitati, spenti spettri della generazione De Filippi, non avevano gli strumenti culturali per capirli nemmeno a sprazzi ma, soprattutto, perché hanno offerto una lettura di quegli anni reale, viva, concreta e, perciò del tutto contraria agli stereotipi con cui ci stanno imbottendo il cranio.

Gli stereotipi sono noti. Che buono che fu il Pci!

Da sinistra. Un eccesso di idealismo e la presenza di cattivi maestri avrebbe spinto dei giovanotti dell’extraparlamentarismo passionale a compiere del male a fin di bene. Si sarebbe trattato di una parte marginale di esuberanti fuorviati, ma, per fortuna, la cultura democratica e il senso di responsabilità del partito comunista e dei sindacati avrebbero impedito che quella deriva avesse la meglio sul confronto delle idee e ci avrebbero invece restitutito la pace.

E così il conformismo pantofolaio e l’ipocrita coscienza buonista cancellano interamente un quadro storico e culturale che fu invece dipinto a lungo, molto a lungo, solo con tinte fortissime. Film, sceneggiati, trasmissioni televisive (alla Rai!), parole d’ordine di stampo insurrezionalista invitavano ininterrottamente, dal 1963 al 1978, al tirannicidio, esaltavano l’insorgenza e l’eliminazione del cattivo e dell’ingiusto.

Quella cultura fu imposta in Italia, almeno fino al 1976 (anno del compromesso storico) dal partito comunista e, soprattutto, dai partigiani che erano al contempo gli “eroi” della Repubblica antifascista e coloro che si sentivano “defraudati dalla rivoluzione del ’45” come ha fatto giustamente notare Franceschini. Intoccabili in quanto “eroi” costoro si potevano permettere di seminare impunemente l’insofferenza per chiudere la parentesi della loro rivoluzione incompiuta.

Qualunque cosa si pensi della scelta armata, quel che è osceno è che oggi che è stata sconfitta essa venga attribuita a degli squilibrati o a degli esuberanti mentre i suoi veri seminatori vanno in giro, talvolta rivestendo cariche istituzionali, a dare lezione. Di che? Al massimo le dovrebbero prendere da coloro che hanno reso fatti le loro parole, da quelli che si sono armati e sono partiti al posto loro.

Che malvagi i fascisti!

Sempre da sinistra. I fascisti non avevano, e in fondo non hanno tuttora, il diritto di esistere e men che meno si riconosce loro la dignità dell’interlocutore. A lungo si è detto che facevano il male per il male, che uccidevano per uccidere, che si prestavano alla strategia della tensione, che lavoravano al soldo dei servizi segreti e che, feroci e disumani, commettevano stragi. Gente da linciare insomma. Poi, pian piano, le esperienze incrociate dei prigionieri della lotta armata iniziarono a squarciare il velo della menzogna. La conoscenza, prima impossibile, che si produsse tra le sbarre, sia pure da padiglioni separati, e il rispetto reciproco che maturò iniziarono a incrinare il tabù che – allora – c’era solo a sinistra. Sicché pian piano i fascisti (certo non tutti ché sarebbe stato troppo pretendere ma i più esemplari considerati come “eccezioni”) presero ad essere visti come quelli che in fin dei conti, pur militando dalla parte sbagliata, reagivano al tentativo di eliminarli . E quindi, senza giustificarli, si potevano anche capire…

Come se la lotta armata “a destra” avesse avuto come obiettivo la sinistra e non fosse invece, come fu, mirata contro rappresentanti dello Stato. Ma come spiegare che i fascisti combattessero le istituzioni? Il teorema di fondo andrebbe a farsi fottere allegramente e questo solo pochissimi avevano il coraggio intellettuale di accettarlo.

Che cattivi i comunisti!

Da destra. I comunisti, sicuramente spinti dai servizi segreti sovietici (poco importa che i soli contatti di cui si ha documentazione fossero italiani, israeliani e americani) volevano sovvertire l’ordine per fare intervenire… i russi (quegli stessi che avevano abbandonato i comunisti di Grecia al loro destino nel dopoguerra e che già nel 1946 avevano chiarito come il Pci non dovesse governare per via degli accordi di Jalta? Sì. quelli!). I giovani di destra invece, bersagli inermi, morivano come mosche perché “uccidere un fascista non è reato”. Alcuni, non potendone più, persero il controllo e abbracciarono le armi. Fecero male, ma si possono capire. Non amnistiare, però ( a destra la forca è una dea), solo capire…

Anche qui un teorema che non solo tende all’angelizzazione unilaterale e al vittimismo di parte ma che cancella in un colpo solo la cultura politica che accompagnò la scelta armata. Che se non fu propriamente di programmazione rivoluzionaria come quella delle BR , fu, comunque, cultura della prosecuzione della guerra civile.

Ma chi aveva già passato il guado alleandosi a monarchici badogliani, a partigiani atlantisti e ad antifascisti inglesi, non poteva che sentirsi imbarazzato dalla presenza di giovani che, come ha detto Tuti, sognavano di fare la stessa fine dei ragazzi in camicia nera fucilati a Santa Maria Novella nel ’44.

Fu solo il prodotto di un pugno di pazzi…

Insomma furono tutti buoni. Sia i comunisti che la destra non ebbero responsabilità culturali, storiche ed emotive negli Anni di Piombo. Quegli anni, il clima che li accompagnò, la loro spirale di fuoco e di lutti, le centinaia e centinaia di morti, furono l’effetto esclusivo di un pugno di pazzi. Gli uni feroci e gli altri fuorviati. Chi siano gli uni e chi gli altri cambia a seconda della visuale, ovviamente. Insomma l’importante è che gli scellerati che avvelenarono l’aria dal 1943 al 1976 (o al 1985 in alcuni casi) per viverne di rendita in panciolle con tanto di stipendi, pensione ed onori, non ammettano le loro responsabilità di pifferai magici e la loro colpa originale: così quel che conta è che al loro posto siano messe in discussione le idee forti e le passioni in quanto pericolose. Come se la vita non fosse rischiosa e come se l’assenza di pericolo non fosse appunto assenza di vita. I veri responsabili, i veri criminali che hanno, tutti, passato il guado della rispettabilità scaricano così il peso della loro pochezza morale e politica sulle passioni ideali come se queste fossero una colpa in sé e come se sistemi privi di fanatismo non fossero criminogeni e criminali, come è il caso di quello americano per fare il migliore esempio.

Franceschini e Tuti

Franceschini e Tuti in quel coro hanno mervigliosamente stonato.
Franceschini ha ricordato come l’insurrezione rivoluzionaria fosse allora l’humus comune a tutta la sinistra, Tuti ha fornito chiarimenti etici ed esistenziali di tutto rispetto.

“Se uccidere un fascista non era reato, decidemmo di far sì che diventasse pericoloso”, così ha spiegato, senza ghirigori o fronzoli, la sua scelta di abbandonare la vita borghese.

In particolare, poi, Tuti ha sconvolto gli schemi prefabbricati. “Ma come – gli ha chiesto l’intervistatore – voi vi ribellavate al fatto che uccidere un fascista non fosse reato, ma lei non ha ucciso nessun comunista, bensì due agenti di Pubblica Sicurezza”.

“Sì, ma noi ce l’avevamo con quello Stato che invitava a uccidere i fascisti e che permetteva che l’assassinio di un fascista restasse sempre impunito”. Non contro i comunisti, non contro chi aveva il coraggio di premere il grilletto, ma contro quelli che avevano caricato l’arma, motivato la mano e messe in giro pistola e proiettili.

Una distorsione non cancella una menzogna

A questa spiegazione mi ricollego perché spero che ci aiuti a sgombrare il campo da un’altra ingiustizia che, complice AN e protagonista gente alla Telese, sta provando a sostituire la precedente.

A lungo si è lasciato dire (e spesso lo si sostiene ancora) che la mia generazione – in nero – fosse strumento di servizi segreti, che fosse composta da gente indemoniata e sanguinaria. Ora che lo squarcio ha iniziato ad aprirsi, anziché ricercare obiettivamente la verità, come sarebbe opportuno, si prova a rovesciare l’assunto.

E’ certamente vero che la mia generazione si organizzò in piazza e anche con le armi per rispondere al “non reato” dell’uccisione dei fascisti. E’ anche vero che non ha sulla coscienza stragi di bambini, come a Primavalle, o assassinii vigliacchi come al Prenestino. Anche se si può imputare, sia pur preterintenzionalmente, alcuni delitti agghiaccianti, come quello della ragazza bruciata viva nella sua auto raggiunta da una molotov a Napoli o quello di un hadicappato morto in una rissa a Bari.

E’ vero che la mia generazione – in nero – ebbe come motto e parola d’ordine l’onore e, quindi, la ricerca dello scontro impari e, di solito (ma non sempre) il rifiuto della sopraffazione.

E’? vero che la mia generazione – in nero – di fatto rispose sempre perché il primo sprangato (Spanò), il primo morto in piazza (Venturini), il primo morto per colpo d’arma da fuoco (Mantakas), fu sempre nostro. Come nostri furono i primi martiri delle fiamme (Stefano e Virgilio Mattei).

E’ vero che la mia generazione – in nero – ebbe con la dirimpettaia un confronto iniquo perché l’intellgentia dell’epoca, e anche gran parte della magistratura, perdonavano chi la massacrasse ma bastonavano pesantemente ogni atto violento, anche solo sospetto, sia pur reattivo che andasse nella direzione opposta.

E’ vero che l’etica fascista, di cui in buona parte la mia generazione – in nero – era imbevuta magari anche inconsapevolmente, era ben altra cosa rispetto alla morale partigiana ; ad esempio era irrimediabilmente avversa ad ogni linciaggio.

Tutto questo è bene che si sappia, che si ricordi. Non sarebbe esatto tracciare un parallelismo perfetto tra la mia generazione in nero e la mia generazione in rosso. Se quest’ultima fu composta di Don Chisciotte, la prima era fatta di Don Chisciotte che si battevano anche contro Don Chisciotte, i rossi, parzialmente omologati che, nella fattispecie, per l’impunità garantita nello specifico, impersonavano i mulini a vento.

La mia generazione ha sparato

Non è giusto però – non lo è per la storia, non lo è per la memoria, non lo è per la sua dignità – angelizzare la mia generazione in nero e men che meno vittimizzarla. Come ha detto chiaramente Tuti “noi non ci sentivamo vittime e nessuno ci spinse a fare quello che abbiamo fatto”.

La mia generazione – in nero – ha sparato e non solo per reagire al linciaggio. Ha sparato, anche, per ragioni ideali, sentimentali, passionali. Ha sparato, anche, perché cresciuta in un humus collettivo che spingeva allo stesso tempo i più generosi e i più delinquenti a praticare la lotta armata. I secondi perché ci si trova(va)no bene, i primi perché trovatisi in particolari casi non potevano fare diversamente senza vergognarsi come ladri, senza cessare di essere uomini. La mia generazione – in nero – ebbe come avversari, come formidabili, pericolosissimi avversari, i pistoleri rossi, ma ebbe come nemici quelli che della tragedia vivevano. Quelli che l’odio lo alimentavano ma non si sporcavano le mani; o quelli che facevano carriera portando a spalle le bare dei giovani Caduti per poi andare a chiedere, contro di noi, la doppia pena di morte.

La mia generazione – in nero – di certo rispose agli agguati feroci dei guerriglieri rossi, ma non si limitò a questo. Essa attacò anche, essa provocò anche. E, soprattutto, essa si batté molto di meno contro i rossi in armi che non contro i rappresentanti delle istituzioni.

Tutti gli uomini del grande misfatto

Questo Tuti un po’ lo ha detto chiaramente e un po’ lo ha lasciato trapelare. ? il caso di iniziare a sottolinearlo. Certo, è un’utopia pensare che un giorno i veri artefici delle tragedie italiane ammettano pubblicamente le proprie responsabilità (che differenza tra loro da una parte e Curcio e Franceschini che dall’altra, invece, si assumono – a proprie spese – le colpe collettive delle BR!) Ma che quegli ipocriti muoiano vecchi e truccati non è una buona ragione perché anche noi si contribuisca a confondere il quadro con nostre riletture di comodo accompagnate da vere e proprie rimozioni.

Altrimenti la più giovane generazione – in nero – quella che a differenza della mia (che pur li combatté aspramente e sparse il proprio sangue nel combatterli) prova verso i comunisti un vero e proprio tabù, non potrà
comprendere.

Non potrà comprendere perché quelli come me, quelli di quegli anni, quelli che in quegli anni hanno combattuto e ne hanno fatto le spese, rispettano i loro avversari (quelli leali e coraggiosi, non i vigliacchi) e non cercano di contestarli in pubblico, di toglier loro la dignità di soggetto. Perché pensano che sia istruttivo ascoltare Curcio e non considerano una bestemmia il fatto che lo s’introduca in un’aula Moro.

Perché per noi, che allora c’eravamo e che non abbiamo rimosso alcunché, né riletto tutto a piacimento altrui, Curcio e Moro sono tutt’altra cosa da come li contrabbandano oggi. E fra il primo e il secondo, alcuni forse non sceglierebbero ma di sicuro nessuno sceglierebbe il secondo.

Certo la più giovane generazione – in nero – ma anche, forse, quella in rosso, questo oggi non lo può capire.

Perché la storia, quella della strategia della tensione, quella degli Anni di Piombo, quella del consociativismo, quella della ristrutturazione, gliel’hanno raccontata tutta distorta, qualunque sia stato il teorema adoperato. Perché Dc, Pci, Psi, Pri, Psdi, Pdup, Msi, Triplice sindacale, insegnanti, giornalisti, funzionari rampanti, servizi “deviati” (?) hanno provato a passare indenni il guado gettando il loro pesante, ignobile, fardello di disonestà e di complicità nel misfatto collettivo. In quel misfatto collettivo che hanno chiamato democrazia antifascista e che altro non è stato se non l’alleanza tra Lucky Luciano, Don Sturzo e quelli che, dall’aprile in poi s’inebriarono di linciaggi e a un certo punto rimasero con l’acquolina in bocca.

Non so se qualcuno scriverà mai questa storia e francamente ne dubito. In ogni caso è opportuno non aiutarli a scriverne altre. Almeno noi dobbiamo essere seri e sinceri.

Gabriele Adinolfi
Fonte: http://www.gabrieleadinolfi.it/
Febbraio 2007

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