DI FEDERICO DEZZANI
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“Commissione d’inchiesta! Golpe! Convocate l’ambasciatore americano!” gridano i fedelissimi di Silvio Berlusconi, dopo la pubblicazione dei cablo segreti sul sito Wikileaks che dimostrano quanto Washington seguisse da vicino le trame che portarono nel novembre 2011 alla caduta del Cavaliere. Il golpe bianco del 2011 fu in realtà il coronamento degli sforzi avviati con l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, protratti per tutti il 2009 ed il 2010: anzi, già nel 1994, la prematura fine del primo governo Berlusconi è riconducibile a quell’establishment angloamericano che considerava il parvenu della politica italiana come un ostacolo all’agenda di privatizzazioni ed integrazioni europea. Il golpe del 2011, attuato con la complicità internazionale di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy e quella interna di Mario Draghi e Giorgio Napolitano, è da allora rivangato di tanto in tanto: una prima volta in vista dell’insediamento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, poi oggi. Perché? E chi si nasconde dietro Wikileaks?
Una discesa in campo, quella del 1994, non prevista
Sono trascorsi più di quattro anni dall’estromissione di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi e, interrogato su quale sia la sua eredità politica, nessuno saprebbe dare un risposta: il Cavaliere infatti mancò proprio in quell’autunno 2011 l’appuntamento con la storia che, donna crudele, lo ha già relegato ai margini. Trascorreranno ancora una decina di anni e l’unico ricordo che rimarrà di lui sarà la presidenza del Milan e la passione per le belle figliole: non è quindi nostro interesse fare un’apologia del “berlusconismo”. Eppure, studiare la parabola politica di Silvio Berlusconi è utile per afferrare pienamente la condizione di subordinazione dell’Italia, a distanza di 70 anni dalla Conferenza di Jalta che attribuì il nostro Paese alla sfera di influenza angloamericana.
Terminata la Guerra Fredda, logica avrebbe voluto che il partito destinato all’estinzione fosse quello Comunista, lasciando il campo libero alla Democrazia Cristiana ed al Partito Socialista che, nel bene e male, avevano governato il Paese durante la contrapposizione tra i due blocchi: al contrario, in ossequio al principio per cui gli sconfitti ed i ricattabili sono i migliori scherani, la DC ed il PSI sono spazzati via da Mani Pulite e gli angloamericani decidono di puntare sugli ex-comunisti, riverniciati come Partito Democratico di Sinistra. L’establishment atlantico ha infatti in mente un’agenda di lacrime e sangue per l’Italia che, venuta meno la necessità di ingraziarsela data la sua posizione strategica rispetto al Mediterraneo ed ai Balcani, è degradata al livello di prospera colonia da sfruttare.
Con il termine “establishment atlantico” (la precisazione è indispensabile ai fini della nostra analisi) intendiamo in questa sede quel milieu anglofono e liberal, noto anche come “Round Table”, che ha nei pensatoi Council on Foreign Relations, Chatham House, Carnegie Endowment for International Peace, etc., la sua massima espressione politica, nella banche della City ed il Wall Street il suo braccio armato e nei clan Clinton/Obama la sua manovalanza tra gli anni ’90 e 2000; l’amministrazione di Bush Junior, i neocon e gli israeliani del Likud (le fazioni su cui si appoggiano sia Silvio Berlusconi che Matteo Renzi) hanno altre priorità rispetto agli ambienti liberal. I primi perseguono infatti l’integrazione dell’Europa, la nascita degli Stati Uniti d’Europa ed un mondialismo spinto; i neocon sono invece fautori dell’unilateralismo americano e sono pronti ad allearsi con chiunque lo assecondi ed a combattere chiunque lo ostacoli: tutto il resto passa per loro in secondo piano.
Mentre negli USA regna Bill Clinton (presidente dal 1993 al 2001), esponente di quell’establishment finanziario che ha come priorità l’integrazione europea, in Italia si tengono le prime elezioni dopo il terremoto di Tangentopoli: grande favorita, grazie all’azione della magistratura che si ferma al compagno Primo Greganti, senza scavare oltre, è la sinistra, su cui gli angloamericani hanno riposto tutte le speranze per la massiccia ondata di privatizzazioni e salassi fiscali, propedeutica all’ingresso nell’euro (il Trattato di Maastricht è del febbraio 1992). C’è un però: un imprenditore, tale Silvio Berlusconi, teme che gli ex-comunisti, una volta conquistato il potere, abroghino o modifichino1 quella legge Mammì sul sistema radiotelevisivo che è alla base delle sue fortune: scende così in politica, scombussolando i piani dell’establishment atlantico che contava sulla vittoria facile dei PDS, rapidamente riconvertitisi alla causa europeista dopo averla a lungo osteggiata su indicazione di Mosca.
Sia ben chiaro, nessuno è più “americaneggiante” di Silvio Berlusconi nella campagna e nel programma elettorale, ma a Londra e Washington nutrono fortissimi dubbi che il Cavaliere voglia adottare il piano lacrime e sangue per agganciare Roma alla moneta unica: è sufficiente dire che il ministro degli Esteri del primo governo Berlusconi sarà Antonio Martino, un convinto euroscettico2. Il Cavaliere, sicuro che sia sufficiente ripetere il mantra “sono amico di Israele” per ottenere il placet degli ambienti atlantici, si avvicina a Giuliano Ferrara, suo “precettore politico” e trait d’union con gli ambienti della destra americana ed israeliana. Vince le elezioni del 1994 e si installa a Palazzo Chigi, accolto con sollievo anche da quel milieu che ruota attorno all’ENI, spaventato dal possibile smantellamento/alienazione dell’azienda energetica avviato da Franco Bernabè nel 1992.
Lo scudo di cui si è dotato Silvio Berlusconi è però troppo debole, considerato che negli Stati Uniti governano i liberal pro-euro e pro-Unione Europea di Bill Clinton: nel luglio del 1994, mentre il Cavaliere attende a Napoli l’arrivo del presidente americano per il G7, riceve dalla procura di Milano un invito a comparire e, con la complicità del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, si consuma il famoso “ribaltone”. Solo otto mesi dopo, Berlusconi è accompagnato alla porta, per essere sostituito dall’ex-FMI Lamberto Dini.
Comincia così la lunga serie di governi (Prodi I, D’Alema I, D’Alema II, Amato II) che agganceranno l’Italia alla moneta unica a suon di inasprimenti fiscali, vendita delle partecipate pubbliche e “contributi straordinari per l’Europa”: sarebbe avvenuto lo stesso con Berlusconi al governo? Molto Difficile.
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