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La Redazione

 

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DURBAN, O DELLA SINDROME MAYA

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A cura di supervice
Il 22 Dicembre 2011
114 Views
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DI FLORENT VARCELLESI
Diario Vasco

Secondo lo storiografo ambientale Jared

Diamond, alcune società decidono di perdurare e altre, in modo incosciente,

di scomparire. Ad esempio, davanti a un processo avanzato di deforestazione,

erosione dei suoli, siccità, cambiamento climatico e guerre, così

spiega una delle ragioni del collasso della civiltà Maya nel secolo

IX: “I re e nobili non riuscirono a scoprire e risolvere questi

problemi apparentemente ovvi e che affossavano la società. La loro

attenzione si incentrava sulle preoccupazioni a breve termine per arricchirsi,

scatenare battaglie, erigere monumenti, competere tra loro […]. Come

la maggior parte dei dirigenti dell’umanità, i re e nobili

Maya non tennero conto dei problemi di lungo termine in modo da poterli

realmente percepire.”
Sfortunatamente, la storia si ripete

e le negoziazioni climatiche ricadono ancora una volta nella “sindrome

Maya”. Anche se dal 1992 esiste a livello internazionale una cornice

legale per lottare contro il cambiamento climatico – che rappresenta

un miglioramento in raffronto alla nobiltà Maya che neppure arrivò

a diagnosticare correttamente le minacce che doveva affrontare – non

smette di sorprendere la Riunione di Durban per l’incapacità dei

leader mondiali nel dare una risposta che sia all’altezza della

gravità della situazione. La firma di un accordo

in extremis non può nascondere

una fuga in avanti dei Stato e dei negoziatori, più preoccupati per

la riconfigurazione degli interessi geopolitici su scala mondiale dove

predominano la competizione ad oltranza, la lotta per le risorse naturali

e la corsa alla crescita.

In primo luogo, perché né si realizzano

le (poche) promesse di riunioni anteriori e non si ascoltano i consigli

degli scienziati riuniti nel Gruppo Internazionale di Esperti sul Cambiamento

Climatico (GIECC). Mentre a Copenhagen nel 2009 si stabilì di non superare

un aumento di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali – il limite

per non esporsi a cambiamenti totalmente estremi ed irrimediabili secondo

il GIECC -, le promesse per la riduzione dei gas serra stilate in Sudafrica

presuppongono, né più né meno, un irresponsabile aumento della temperatura

pari a quasi 4 gradi nel 2100.

Secondo, perché l’avvio nel 2020 di

un nuovo accordo vincolante arriverà troppo tardi. Stiamo lottando

contro li tempo. Poco tempo fa l’istituzionale Agenzia Internazionale

dell’Energia aveva fissato il 2017 come data limite per delimitare l’incremento

di temperature a livelli non irreversibili, e ciò presuppone forti

riduzioni dei gas a effetto serra già in questo decennio, non nel prossimo.

Terzo, perché si è svuotato di sostanza

il protocollo di Kyoto: nonostante la proroga stabilita per soddisfare

all’Unione Europea, rappresenterà solamente il 15 per cento delle emissioni

mondiali di gas serra. Oltre all’assenza degli Stati Uniti e della Cina

– al momento le principali emittenti di CO2 -, hanno promesso

di staccarsi Russia e Giappone, mentre il Canada è già stato il primo

paese ad abbandonare il Protocollo di Kyoto, tra l’altro per salvare

i contestati giacimenti petroliferi della provincia di Alberta.

Di fronte a questo scenario si devono

imporre nuove strategie. Da una parte, il concetto di giustizia climatica

si sta rafforzando come asse strategico e punto di incontro per riunire

persone e movimenti di diverse provenienze e orientamenti. Oltre alle

organizzazioni ecologiste e di solidarietà internazionale nel Nord

e nel Sud, è positivo notare che organizzazioni come la Confederazione

Sindacale Internazionale ha parlato di Durban come di un pessimo accordo,

con danni irreversibili per i lavoratori in termini di sicurezza alimentare,

con la proliferazione di catastrofi, la perdita di salute pubblica e

una crisi degli impieghi. È stato anche di gran interesse scoprire

in questa riunione gli “indignati climatici” attraverso

Occupy COP17, una simbiosi tra i movimenti per la giustizia climatica

e gli indignati di Plaza del Sol e di Wall Street. Questo incontro tra

movimenti di giustizia ambientale, sociale e democratica a livello locale

e mondiale è una necessità imperiosa per poter avviare nelle strade

e nelle istituzioni quei cambiamenti che i leader attuali non

sembrano essere capaci di prendere in questo momento.

D’altra parte, vista la mancanza di

un accordo per una vera mitigazione nel corso di questa decade, va riconosciuto

che è improbabile che si riesca a stabilizzare l’aumento della temperatura

entro limiti ragionevoli. Pertanto, i prossimi anni e decenni si vedranno

segnati dall’incertezza di fronte a un cambiamento climatico già inevitabile,

ma le cui forme e conseguenze reali ignoriamo per gran parte: non solo

siamo oramai nella società del rischio ma anche, come la chiama Lester

Brown, nell'”età dell’imprescindibilità“. In questo

contesto, il nostro primo obbiettivo, oltre alla riduzione, è quello

di disporre la maggior parte delle risorse e delle energie disponibili

per costruire società resilienti e coese, preparate per affrontare

cambiamenti bruschi e probabili punti di rottura e di inflessione. Allo

stesso modo le iniziative delle “città di transizione” sono

un buon esempio di questo lavoro di adattamento dal basso, e capace

di generare nuove sinergie tra movimenti sociali e politici di indole

differente.

La cecità si può definire, secondo

l’Accademia Reale Spagnola, come una “allucinazione, una causa

che offusca la ragione“. Alcuni secoli addietro, questa cecità

oscurò la vista dei maya. Oggi, disgraziatamente affligge in pieno

“i re e nobili” dei tempi moderni. Tuttavia, conosciamo la

Storia ed è nostro compito cambiare occhiali perché possa perdurare

una civiltà sostenibile.

**********************************************

Fonte: Durban o el síndrome maya

20.12.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE

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