DI FLORENT VARCELLESI
Diario Vasco
Secondo lo storiografo ambientale Jared
Diamond, alcune società decidono di perdurare e altre, in modo incosciente,
di scomparire. Ad esempio, davanti a un processo avanzato di deforestazione,
erosione dei suoli, siccità, cambiamento climatico e guerre, così
spiega una delle ragioni del collasso della civiltà Maya nel secolo
IX: “I re e nobili non riuscirono a scoprire e risolvere questi
problemi apparentemente ovvi e che affossavano la società. La loro
attenzione si incentrava sulle preoccupazioni a breve termine per arricchirsi,
scatenare battaglie, erigere monumenti, competere tra loro […]. Come
la maggior parte dei dirigenti dell’umanità, i re e nobili
Maya non tennero conto dei problemi di lungo termine in modo da poterli
realmente percepire.”
Sfortunatamente, la storia si ripete
e le negoziazioni climatiche ricadono ancora una volta nella “sindrome
Maya”. Anche se dal 1992 esiste a livello internazionale una cornice
legale per lottare contro il cambiamento climatico – che rappresenta
un miglioramento in raffronto alla nobiltà Maya che neppure arrivò
a diagnosticare correttamente le minacce che doveva affrontare – non
smette di sorprendere la Riunione di Durban per l’incapacità dei
leader mondiali nel dare una risposta che sia all’altezza della
gravità della situazione. La firma di un accordo
in extremis non può nascondere
una fuga in avanti dei Stato e dei negoziatori, più preoccupati per
la riconfigurazione degli interessi geopolitici su scala mondiale dove
predominano la competizione ad oltranza, la lotta per le risorse naturali
e la corsa alla crescita.
In primo luogo, perché né si realizzano
le (poche) promesse di riunioni anteriori e non si ascoltano i consigli
degli scienziati riuniti nel Gruppo Internazionale di Esperti sul Cambiamento
Climatico (GIECC). Mentre a Copenhagen nel 2009 si stabilì di non superare
un aumento di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali – il limite
per non esporsi a cambiamenti totalmente estremi ed irrimediabili secondo
il GIECC -, le promesse per la riduzione dei gas serra stilate in Sudafrica
presuppongono, né più né meno, un irresponsabile aumento della temperatura
pari a quasi 4 gradi nel 2100.
Secondo, perché l’avvio nel 2020 di
un nuovo accordo vincolante arriverà troppo tardi. Stiamo lottando
contro li tempo. Poco tempo fa l’istituzionale Agenzia Internazionale
dell’Energia aveva fissato il 2017 come data limite per delimitare l’incremento
di temperature a livelli non irreversibili, e ciò presuppone forti
riduzioni dei gas a effetto serra già in questo decennio, non nel prossimo.
Terzo, perché si è svuotato di sostanza
il protocollo di Kyoto: nonostante la proroga stabilita per soddisfare
all’Unione Europea, rappresenterà solamente il 15 per cento delle emissioni
mondiali di gas serra. Oltre all’assenza degli Stati Uniti e della Cina
– al momento le principali emittenti di CO2 -, hanno promesso
di staccarsi Russia e Giappone, mentre il Canada è già stato il primo
paese ad abbandonare il Protocollo di Kyoto, tra l’altro per salvare
i contestati giacimenti petroliferi della provincia di Alberta.
Di fronte a questo scenario si devono
imporre nuove strategie. Da una parte, il concetto di giustizia climatica
si sta rafforzando come asse strategico e punto di incontro per riunire
persone e movimenti di diverse provenienze e orientamenti. Oltre alle
organizzazioni ecologiste e di solidarietà internazionale nel Nord
e nel Sud, è positivo notare che organizzazioni come la Confederazione
Sindacale Internazionale ha parlato di Durban come di un pessimo accordo,
con danni irreversibili per i lavoratori in termini di sicurezza alimentare,
con la proliferazione di catastrofi, la perdita di salute pubblica e
una crisi degli impieghi. È stato anche di gran interesse scoprire
in questa riunione gli “indignati climatici” attraverso
Occupy COP17, una simbiosi tra i movimenti per la giustizia climatica
e gli indignati di Plaza del Sol e di Wall Street. Questo incontro tra
movimenti di giustizia ambientale, sociale e democratica a livello locale
e mondiale è una necessità imperiosa per poter avviare nelle strade
e nelle istituzioni quei cambiamenti che i leader attuali non
sembrano essere capaci di prendere in questo momento.
D’altra parte, vista la mancanza di
un accordo per una vera mitigazione nel corso di questa decade, va riconosciuto
che è improbabile che si riesca a stabilizzare l’aumento della temperatura
entro limiti ragionevoli. Pertanto, i prossimi anni e decenni si vedranno
segnati dall’incertezza di fronte a un cambiamento climatico già inevitabile,
ma le cui forme e conseguenze reali ignoriamo per gran parte: non solo
siamo oramai nella società del rischio ma anche, come la chiama Lester
Brown, nell'”età dell’imprescindibilità“. In questo
contesto, il nostro primo obbiettivo, oltre alla riduzione, è quello
di disporre la maggior parte delle risorse e delle energie disponibili
per costruire società resilienti e coese, preparate per affrontare
cambiamenti bruschi e probabili punti di rottura e di inflessione. Allo
stesso modo le iniziative delle “città di transizione” sono
un buon esempio di questo lavoro di adattamento dal basso, e capace
di generare nuove sinergie tra movimenti sociali e politici di indole
differente.
La cecità si può definire, secondo
l’Accademia Reale Spagnola, come una “allucinazione, una causa
che offusca la ragione“. Alcuni secoli addietro, questa cecità
oscurò la vista dei maya. Oggi, disgraziatamente affligge in pieno
“i re e nobili” dei tempi moderni. Tuttavia, conosciamo la
Storia ed è nostro compito cambiare occhiali perché possa perdurare
una civiltà sostenibile.
Fonte: Durban o el síndrome maya
20.12.2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE