DI GIANLUCA BIFOLCHI
Uruknet
Con tutta la cautela che si rende necessaria per non incoraggiare atteggiamenti settari ed autodistruttivi quando si toccano argomenti controversi all’interno di un movimento come quello della solidarietà al popolo palestinese (cautela che può ancora temporaneamente prendere forma nella carità di patria di non fare nomi e cognomi, e mantenersi un po’ sulle generali), giova rilevare come la crisi di Gaza ha fatto emergere con molta chiarezza, anche in Italia, l’esistenza di una profittevole industria dei “due popoli e due stati”. Cioè della ipocrita formula che, al di là dell’ingannevole sensatezza della soluzione proposta, trasforma la lotta per la libertà dall’oppressione dei Palestinesi in una faccenda di alchimie diplomatiche tra Israele, USA, UE, ONU e Lega Araba.
Quanto questa via porti lontano lo hanno dimostrato i cosiddetti Accordi di Oslo, che mentre indecentemente permettavano a cancellerie e media occidentali di parlare di un “processo di pace” in atto, nell’arco di tempo che va dal 1993 ad oggi hanno in realtà coperto un peggioramento senza precedenti delle condizioni di vita dei Palestinesi nei Territori Occupati. Ma di ciò si è parlato con tale abbondanza che non vale la pena scendere più nel dettaglio.
Ciò su cui andrebbe ora portata l’attenzione è invece come tale logica si intersechi profondamente col movimento di solidarietà al popolo palestinese, per opera di esponenti del parastato pacifista (con bilanci e stipendi pagati da sindacati, regioni ed enti locali) e dell’ufficialità di sinistra (costretti più o meno a malincuore a contenersi nei limiti del dissenso rispettabile), che commentando in questi giorni i fatti di Gaza lasciano prevalere i toni dello sconforto, della disperazione, dell’interpretazione in chiave di dissoluzione entropica della causa della pace in Medio Oriente, a seguito di ciò che ai loro occhi appare come nient’altro che uno “scontro fratricida”.
Se costoro negli anni, sia pure occupandosi di cose importanti come le vacanze in Toscana per bambini Israeliani e Palestinesi, o l’invio di block notes e pennarelli per gli studenti dei Territori Occupati, non avessero dimenticato la questione essenziale, e cioè che quella dei Palestinesi è una lotta di liberazione nazionale (dimenticanza indottagli dal loro bazzicare nei corridoi del Palazzo e dall’incessante ricerca di fondi per stipendi e spese di gestione), ora analizzerebbero i fatti in base ad una logica di resistenza, e comprenderebbero che la decisione di Hamas di azzerare i vertici di Fatah a Gaza non è in sé né buona né cattiva, ma semplicemente necessaria, come sempre accade in una lotta del genere quando vi è un gruppo che, non accontentandosi più di essere semplicemente corrotto (cosa che si poteva ancora tollerare), si sviluppa ormai in un elemento di chiaro ed esplicito collaborazionismo con il nemico.
Che la cricca del Presidente dell’ANP Abu Mazen e del signore della guerra Mohammad Dahlan fosse nient’altro che questo è un fatto provato da una letteratura talmente abbondante — ultimo il rapporto riservato dell’inviato ONU Alvaro De Soto pubblicato dal Guardian, che è riuscito ad intercettarlo — che non vale la pena di parlarne. Ci si chiede semmai se i toni accorati provenienti dalla sezione italiana dell’industria dei “due popoli e due stati” — tanto per non essere costretti a dire Palestina Libera — siano dovuti al bagno di sangue di Gaza, al prevedibile ulteriore deteriorarsi delle condizioni di vita che si abbatterano ora sui cittadini della Striscia, o non esprima piuttosto il rammarico che la linea del queta non movere, su cui aveva fatto le sue fortune insieme ai Quisling palestinesi, non ha più gioco.
Se si pensa ai Palestinesi e alle prove che dovranno affrontare nelle prossime settimane non c’è davvero di che essere lieti e tranquilli, ma presentarli in blocco come le vittime passive della sconsideratezza di Hamas (come in una maniera o nell’altra si insinua), è indizio di un ostinato e comodo rifiuto a ragionare con categorie politiche. Cosa farà l’industria dei “due popoli e due stati” se il popolo palestinese si salderà ora in larga maggioranza a fianco di Hamas, cui aveva già delegato la leadership della sua lotta nelle elezioni generali del Gennaio 2006? Da allora Hamas non ha fatto nulla per deludere i Palestinesi, difendendo la loro dignità e la loro aspirazione all’ indipendenza nazionale, oltre a dare ripetute prove di pragmatismo e buon senso che non gli sono valse a nulla presso gli USA e in Europa. Che ora abbia deciso di spezzare l’accerchiamento mortale che lentamente Israele, USA, e collaborazionisti locali gli avevano costruito attorno, risponde ad una logica che il parastato pacifista o i settori del dissenso rispettabile possono non afferrare, ma non è detto che la pensino così anche la maggior parte dei Palestinesi, a cui tutta l’industria occidentale dei “due popoli e due stati” non sa ammannire altro che una alternativa di capitolazione.
Gianluca Bifolchi
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18.06.2007