Non so bene che lavoro faccio. So che tra poco saranno otto anni che lo faccio. In otto anni non ho ancora capito, ma dicono che sia il problema minore. Tempo fa ho letto un articolo di David Graeber su Internazionale in cui si dice che questo è il secolo del lavoro stupido. Dice Graeber: “È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare”. E poi: “La classe dirigente ha capito che una popolazione felice e produttiva con un sacco di tempo libero è un pericolo mortale per i suoi privilegi”. E ancora: “Una volta, mentre contemplavo la crescita apparentemente infinita delle responsabilità amministrative nei dipartimenti accademici britannici, ebbi l’impressione di stare assistendo a una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che spendono la maggior parte del loro tempo a lavorare su un compito che non gli piace e per il quale non sono particolarmente bravi”.
Ecco, il lavoro che faccio da otto anni è un lavoro che non mi piace e per il quale non sono particolarmente bravo. È inoltre un lavoro del quale la collettività potrebbe fare a meno. Infatti non credo che se la mattina non mi alzassi dal letto per correre in ufficio, il mondo sarebbe un posto peggiore. Eppure so che se la mattina non mi alzassi dal letto per correre in ufficio, ci sarebbe un altro al posto mio che invece si alzerebbe eccome, e correrebbe in ufficio a svolgere lo stesso lavoro, un lavoro che però non piacerebbe neppure a lui e per il quale non sarebbe particolarmente bravo. Quindi so già quali sono le obiezioni: ritieniti fortunato di avere un lavoro e non rompere le scatole, è sempre meglio avere un lavoro stupido che non averne affatto, e via di questo passo. Dico subito che sono d’accordo, come sono d’accordo col Dr. House quando dice che lo scopo nella vita non è eliminare l’infelicità, ma mantenerla al minimo.
Che lavoro faccio? Ho un contratto su cui è scritto che sono un impiegato con mansioni di supporto e assistenza operativa qualificata d’ordine. La società per cui lavoro è una società partecipata con trecento dipendenti, cioè è una società nella quale una quota di capitale sociale è di proprietà di un ente pubblico. Tecnicamente non sono un dipendente pubblico, di fatto lavoro in un contesto di pubblica amministrazione (la maggior parte delle persone con cui divido l’ufficio sono impiegati assunti dallo Stato tramite concorso). I miei compiti sono di supporto nelle attività giornaliere di cui si occupa il dipartimento in cui lavoro. La parola supporto regola con precisione scientifica la mia posizione rispetto ai dipendenti pubblici, che è una posizione di retroguardia, sempre un passo indietro, nessuna assunzione di responsabilità, nessun diritto di orientare le scelte, di indirizzare i cicli di produzione dei servizi.
In tutto questo tempo ho lavorato nelle seguenti aree: comunicazione istituzionale e marketing, politiche attive del lavoro, strategie di animazione territoriale, economato, progetti europei, gestione e coordinamento del personale assegnato agli uffici dipartimentali. I nomi con i quali indico ciascuna di queste aree sono ingannevoli, perché in ciascuna di queste aree il lavoro che ho svolto è sempre stato a grandi linee lo stesso, ossia quello del passacarte salariato che deve inventare ogni giorno un modo per non farsi sopraffare dalla noia e dalla prostrazione. Ora, se vi guadagnate da vivere facendo qualcosa del genere, provate a spiegare in due parole a vostra madre che lavoro fate. Io, in otto anni, non ci sono ancora riuscito.
L’edificio che ospita il dipartimento è un cubo con in mezzo un buco quadrato. Se immaginate un cubo con in mezzo un buco quadrato potete anche immaginare che ogni piano (i piani sono tre) è composto da quattro lunghi corridoi. Ho cominciato abbastanza presto a chiamarlo il Grande Nulla. Ora, dopo otto anni, quando penso al Grande Nulla, lo penso come un cubo di Rubik, lo penso cioè come un posto in cui è facile perdere l’orientamento, anche se, dopo otto anni, l’orientamento non lo perdo più. Da otto anni incontro ogni giorno della gente che mi chiede: “Scusi, dov’è l’uscita?” E capita che ogni tanto rivolga la domanda a me stesso, e quando mi faccio questa domanda penso al cubo di Rubik. Allora la risposta che mi do è sempre la stessa: “La soluzione esiste, ma è difficile”.
Il contratto iniziale che ho avuto con la mia società prevedeva un part-time a venticinque ore settimanali. Il primo giorno di lavoro sono arrivato in ufficio con un completo marrone di velluto a coste e la cravatta, perché il responsabile delle risorse umane mi aveva raccomandato di indossare il completo e la cravatta, almeno il primo giorno, “per riguardo verso i nuovi colleghi”. L’ufficio era composto da cinque impiegate, la capoufficio si è presentata e mi ha detto: “Non abbiamo una scrivania per te, siediti al mio posto e aspetta”. Dopo una settimana ero ancora lì ad aspettare. Solo che nel frattempo non ero riuscito a restarmene seduto, insomma mi ero messo a dare una mano alle mie nuove colleghe per riordinare degli elenchi in Excel sforzandomi di trovarlo un lavoro interessante. Fin dal primo giorno ho avuto l’impressione che lì la mia presenza fosse superflua, che ero stato assunto all’unico scopo di giustificare la somma di denaro che mi avrebbero versato ogni mese, che non mi era riconosciuto alcun tipo di professionalità, che in cambio dello stipendio dovevo solo fare un piccolo sacrificio: rinunciare a essere libero per cinque ore al giorno.
Il mio stipendio, oggi, dopo quasi otto anni, è quello di un impiegato di concetto. Faccio quadrare i conti grazie a un’indennità temporanea di funzione dovuta al fatto che abbastanza presto mi hanno destinato alla validazione delle ferie del personale, più una miseria di assegno familiare che mi spetta perché ho un figlio di quattro anni. Lavoro trentasei ore settimanali, sei ore il lunedì, il mercoledì e il venerdì, nove ore il martedì e il giovedì. Se nel Grande Nulla l’organizzazione del lavoro fosse più razionale, il tempo che impiegherei effettivamente a sbrigare le pratiche che mi sono assegnate sarebbe all’incirca di sei ore. Le restanti trenta potrei occuparle in una maniera più proficua per me stesso e per la collettività.
Nella biografia dello scrittore olandese Willem Frederik Hermans c’è una vicenda interessante. Hermans insegnava geografia all’Università di Groninga. Nel 1972 fu sospettato di trascurare l’insegnamento a vantaggio della scrittura. A quanto si sa fu addirittura istituita una commissione parlamentare d’inchiesta per indagare sulla faccenda. Secondo i risultati dell’indagine, Hermans fu accusato di usare la cancelleria dell’università per scrivere i suoi romanzi. Il fatto costrinse Hermans a dare le dimissioni, in seguito alle quali si trasferì a Parigi per dedicarsi completamente alla scrittura. Come fece pronunciare a uno dei suoi personaggi tempo dopo, aveva abusato della sua posizione all’Università di Groninga “per fare qualcosa di utile con questa carta costosa che normalmente scomparirebbe, senza essere letta, nel cestino della cartastraccia, inquinando l’ambiente”. Quest’uomo, da otto anni, è il mio eroe. Come Hermans, anch’io aspiro a occupare le restanti trenta ore lavorative “per fare qualcosa di utile con questo tempo costoso che normalmente scomparirebbe, senza essere in alcun modo produttivo, nell’oblio del vuoto burocratico, inquinando la mia mente”.
Sono abbastanza consapevole che sto dicendo qualcosa che, nell’epoca e nella società in cui vivo, risulta essere in larga parte incomprensibile. Sto dicendo che a causa di una strutturazione del lavoro caotica, velleitaria, e di un’insensata filosofia produttiva, impiego trentasei ore a svolgere un lavoro che potrebbe occuparmi al massimo mezza giornata la settimana, o che al limite potrei svolgere comodamente da casa, senza contribuire, con i miei sessanta chilometri di spostamenti quotidiani, al traffico di Roma, all’inquinamento atmosferico e allo stress della collettività. La cosa che trovo sconcertante è che conosco impiegati nel Grande Nulla il cui tempo lavorativo effettivo già nelle condizioni attuali è inferiore alle sei ore settimanali. La conseguenza è che molte di queste persone si lasciano convogliare dall’ozio più sfiancante, trascorrono i loro infiniti tempi morti in attività puramente passive, come giocare a Ruzzle, o appassionarsi sui social network alle vite di emeriti sconosciuti, molti li vedo oziare sulle scale masticando sigarette spente, bere esorbitanti quantità di caffè al distributore automatico, fingere di parlare al telefono, fissare il vuoto celeste per ore.
In effetti, in un contesto del genere, esiste un importante problema di diffusione di malattie mentali depressive dovute alla consapevolezza dell’inutilità del proprio lavoro. Nel corso degli anni ho visto persone sane dare, col passare del tempo, segni di disordine emotivo piuttosto seri, vedo ogni giorno uomini passeggiare lungo i corridoi discutendo animatamente con se stessi, altri ammalarsi di narcolessia depressiva e sonnecchiare tutto il tempo davanti a un computer spento, altri ancora li vedo sorridere solo quando confabulano con una piantina coltivata in un piccolo ritaglio di terra tra l’ingresso degli uffici e la strada. Molti impiegati mi hanno confidato che la loro principale paura è ammalarsi di questo tipo di cose. A fronte di ciò c’è anche una buona fetta di personale che dà mostra di essere non dico felice, ma perfettamente a suo agio, che ha buoni rapporti sociali, che si spende nel lavoro o che addirittura trova gratificante la materia di cui si occupa.
Il fatto che per gran parte del mio tempo lavorativo io svolga compiti inutili è qualcosa di strutturato, è un processo di cristallizzazione del lavoro tipico dell’era contemporanea e delle società occidentali. Nonostante la conclamata inutilità del mio lavoro, sono tenuto a essere presente in un ufficio dal quale non posso allontanarmi se non per un numero limitato di ore annue. Il mio controllore è un badge elettronico in cui è presente una foto della mia faccia così com’era otto anni fa e un numero di matricola. È mio dovere timbrare il badge in entrata e in uscita ogni giorno e verificare che i miei colleghi facciano altrettanto, il badge è il sistema che geolocalizza il mio corpo, è la sentinella che mi impedisce qualsiasi tipo di spostamento al di fuori dell’edificio in cui lavoro.
Sul sito web di un’azienda che si occupa della vendita di sistemi di rilevazione delle presenze ho trovato questa frase promozionale: “Oltre al risparmio di tempo per calcolare le ore lavorate e stampare un prospetto dettagliato da inviare alla gestione delle paghe, le nostre soluzioni vi permettono di controllare le entrate in ritardo, le uscite anticipate, le assenze ingiustificate, gli straordinari non autorizzati, riducendo così i costi sulla forza lavoro”. In realtà, ciò che viene rilevato da questi sistemi non è tanto le ore lavorate, quanto le ore di detenzione a cui ciascun lavoratore dà il suo assenso in cambio di una contropartita in denaro, non essendo affatto sottinteso che alle ore di detenzione corrispondano altrettante ore lavorate con profitto. Questo modello si fonda ancora su un’idea del lavoro di tipo coercitivo, non si cura cioè del raggiungimento degli obiettivi di produzione, ma mira al controllo fisico (e quindi alla proprietà) delle persone.
Ho fatto un calcolo: se considero che faccio questo tipo di lavoro per duecentoventi giorni l’anno (trecentosessantacinque giorni esclusi sabati, domeniche, ferie e festività varie) per una media di sette ore al giorno, mi risulta che lavoro per millecinquecentoquaranta ore l’anno, che fanno sessantaquattro giorni pieni. Questo tipo di dato viene chiamato anno-uomo, una definizione che trovo abbastanza sinistra ma efficace. La schiavitù da lavoro improduttivo di cui faccio parte non riguarda solo i settori della pubblica amministrazione, ma intere aree professionali occupate soprattutto nelle cosiddette società di servizi, cioè a occhio e croce un miliardo di persone in tutto il mondo, un miliardo di esseri umani che non hanno problemi a sfamare se stessi e i propri familiari ma che non conoscono l’utilità del proprio lavoro, che non contribuiscono in alcun modo al progresso, che per ogni anno della loro vita spendono in media sessantaquattro giorni (notti comprese) a svolgere attività senza valore sociale, senza scopo, senza significato, un miliardo di persone che potrebbero avere una possibilità di essere felici se liberate dal giogo del lavoro inutile e impiegate secondo le loro reali capacità.
Di recente, leggendo La morte in banca di Giuseppe Pontiggia (Mondadori), mi sono appuntato questo:
“Incontrava a volte l’amico bancario e, facendolo parlare, ritrovava in lui la propria crisi, le stesse speranze deluse. Eppure non poteva accettare le conclusioni dell’altro. Certo, questo era strano: si irritava ancora, ad ascoltarle. Non poteva accettare che proprio la crisi, che gli aveva aperto gli occhi, gli imponesse una nuova finzione, impedendogli di vedere oltre. Che il fallimento fosse mentale. Ne provò una stretta d’angoscia. Ecco, era quella la morte: la morte in banca. Che era poi una delle infinite morti nella vita”.
In definitiva, ho uno stipendio, ho un contratto sicuro, posso fare debiti, faccio parte di una minoranza di lavoratori che godono di ogni tipo di tutela. Una percentuale elevata di persone disoccupate, sfruttate, sottopagate o malamente impiegate può, a ragione, ritenermi una persona fortunata, come erano ritenuti fortunati i bancari degli anni Cinquanta di Pontiggia. Ma, in fondo a tutto, la domanda essenziale rimane una: a chi conviene, realmente, che la gente si ammali e muoia ogni giorno di questo genere di fortune?
Andrea Pomella
Fonte: http://www.minimaetmoralia.it
Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/cronache-dal-grande-nulla/
26.06.2014
Bello.
Però le alternative sono due:
1) il duro lavoro di fatica: imparare a costruirsi una baracca, raccogliere legna per scaldarsi, magari illecitamente, coltivare l’orto, allevare animali, nessuna tutela o quasi, farsi tutto da sé, imparare un mestiere che ti faccia entrare un po’ di moneta necessaria (costruire canne in bambu’ per la pesca a mosca da vendere su internet sul mercato mondiale è la scelta che ha fatto un mio conoscente); e questa attività, se non sei bravo ad inventarti un mestiere particolare, ti prende molto tempo; 2) eliminare i "lavori inutili" e inventarsene di utili. Sarebbe utile rifare tutte le nostre strade dissestate? E bonificare tutti i laghi e i fiumi? E prestare assistenza ad anziane e a famiglie con disabili in età post-scolare? E costruire parcheggi e metropolitane per togliere le auto dalle strade e farvi tornare i bambini? ma chi farà mai cose del genere, se non nuovi partiti?
Quindi, finito il lavoro utile o unitile, i nostri doveri non sono finiti. Dobbiamo anche militare e creare partiti. Le assurdità che viviamo le cambia chi ha il potere e prende le decisioni: dovete prendere ilpotere, ammoniva il poeta. Quindi dobbiamo dedicare tempo ad organizzarci per perprendere il potere, occupando diversamente il famoso TEMPO LIBERO, che non è tempo liberato dai doveri. L’alternativa è subire, sapendo che il lamento non attenua il dolore.
Articolo che mi ha coinvolto molto, anche per seri motivi autobiografici.
Due osservazioni:
Anch’io lavoro in un azienda del grande nulla, anche la mia azienda è "partecipata". Le tue parole descrivono esattamente la mia condizione lavorativa. Questo accade solo dove c’è il pubblico. Queste aziende sono solo serbatoi di voti. Non importa a nessuno quello che fai. L’importante è che non rompi i coglioni e che in cambio dello stipendio dai il voto al Partito. Sono aziende totalmente inutili, dove vige uno scellerato patto fra il Partito e i lavoratori: il Partito ti assicura un tozzo di pane purchè tu sia governativo, e quando serve dai un aiutino agli amici.
Ringrazia Lord Keynes!
Gia,ringrazia Keynes,per i miliardi di disoccupati alla fame,in un mondo di merda pieno di lavoro "utile" che non si puo fare perche "mancano i biglietti di carta".Proprio lui,che non hai letto ma i ragazzini riassumono in "stampa carta e salvi il mondo".Una stronzata,ma va di moda negli aforismi delle patatine.
Le riflessioni di Pomella sono stimolanti, penso che in
molti in qualche modo possano assimilare la situazione dell’autore alla
propria. E, in qualche modo, anch’io. Ma ritengo inutile usare l’articolo come
spunto per fare valutazioni sulle
mancanze della politica, che non si prodiga per rendere il lavoro più umano,
utile, produttivo. No, fare considerazioni
di questo tipo è assolutamente inutile, anzi sterile. Tra un
fantastilione di anni forse la politica saprà occuparsi efficacemente anche di
questo, se il mondo non sarà morto prima, ma per ora preferisco scorrere le
parole di Pomella e provare una specie di sollievo mentre mi trovo a riflettere
su come la vita sia una breve licenza tra due fasi di eterno oblio, e che come
tale andrebbe dedicata appieno a godere di una sana felicità, ad adagiarsi su
un giaciglio di soddisfazione e a
poggiare la testa su un cuscino di serenità. Tutto questo è un sogno, qualcuno si
affretterà a dire per giunta economicamente e finanziariamente insostenibile,
ma almeno finché sogno non esiste badge che mi segreghi in ufficio per un
numero di anni-uomo (fatti da 69 giorni equivalenti nel mio caso) a discrezione
della signora Fornero, non c’è Google che mi ricordi che in ogni momento sa
esattamente dove sono e quanto tempo mi occorre per arrivare alla mia
abitazione, non c’è un sistema bancario che controlla ogni mia spesa. Il mio
sogno in fondo è solo voglia di libertà, la libertà di non esistere per nessun
altro che per me stesso e per le persone con cui voglio condividere la mia
esistenza ed essere trasparente a tutto
il resto: forse il possesso di questo requisito potrebbe ancora distinguere un
essere umano da una delle pecore del gregge .
Mi è sempre più chiaro perché, sin dalla prima volta che la
lessi, mi è rimasta impressa la didascalia del film “Mediterraneo”: “ In tempi
come questi la fuga è l’unico mezzo per
mantenersi vivi e continuare a sognare”.
Questo uomo si è accorto che il suo lavoro non è un lavoro ma un posto di reddito; invece di gioire perchè in fin dei conti è uno dei pochi giovani tutelati, che può fare sogni e progettarsi la vita..scrive e si lamenta della sua miserabile condizionie di lavoratore occidentale moderno seduto alla scrivania.
Articolo interessante all’inizio ma che non coglie le cause del problema nel proseguo, rimanendo intrappolato negli effetti collaterali, in un loop infinito, senza possibilità di trovare le possibili soluzioni di uscita.
Interessante perché l’autore si rende conto dell’inutilità del suo lavoro e di gran parte di quelli attivi attualmente.
Proviamo a formulare alcune domande chiave sul problema.
D-> Perché la nostra società è fondata sul lavoro schiavista ?
R-> Perché è necessario al fine del controllo di pochi verso molti.
D-> Cosa genera la "necessità" del lavoro schiavista ?
R-> L’enorme richiesta di energia per soddisfare i nuovi "bisogni" dell’epoca moderna.
D-> È attualmente l’unica strada possibile per garantire il soddisfacimento dei nuovi "bisogni" di cui sopra ?
R-> Assolutamente NO! Il sistema piramidale di potere, al fine di mantenere i privilegi acquisiti dai suoi vari livelli, si oppone con tutte le forze a NUOVI approcci risolutivi che garantirebbero di ottenere gli stessi bisogni con energie molto più basse e/o con nuove fonti illimitate, ostacolando tutti gli scienziati che intraprendono quelle strade PROIBITE (Vedi Nikola Tesla, Martin Fleischmann, Stanley Pons, Giuliano Preparata, Emilio Del Giudice, Sergio Focardi, Andrea Rossi …). Il motivo è semplice, la scoperta di un metodo iper efficiente o di una fonte illimitata libererebbe in un colpo solo l’umanità dalla necessità di subire il lavoro schiavista.
D-> Il lavoro schiavista è necessario per mantenere attiva la popolazione al fine che non cada nell’ozio?
R-> Ni! Può essere vero solo per un sottoinsieme di persone adulte, già rovinate dall’abitudine a fare sempre le stesse cose nella giornata. Quindi già uccise nello spirito, gli accidiosi, i depressi …
D-> Perché la nostra società presenta un così alto numero di accidiosi/depressi ?
R-> Ognuno di noi nasce con dei talenti, ma solo quelli "utili" all’attuale società schiavista sono considerati tali. I talenti che non soddisfano le richieste sono considerati spazzatura. Pertanto, abbiamo come diretta conseguenza che un esercito di artisti/creativi in giovanissima età venga svuotato dei suoi talenti per piegarli/violentarli ad accettare quelli imposti dalla società, diventando così degli automi/zombies dell’epoca moderna.
Non c’è alcun motivo per continuare questa deriva. Se non lo capiremo in tempo ci saranno spiacevolissime conseguenze nel medio periodo, grazie all’enorme progresso nei campi dell’automazione, informatica, nanotecnologie, robotica. I quali non faranno altro che ridurre il nostro valore commerciale in questa società (essendo considerati dei meri oggetti) da >=0 a <0.
Provate a pensare con la mente malata di chi sta in alto nella piramide. Cosa fareste con oltre 7 miliardi di persone in stragrande maggioranza "inutili" anzi "dannose" al mantenimento dei propri benefici ?
MI dispiace queste riflessioni non sono per nulla stimolanti; la politica non risolve nulla anzi in genere è essa stessa la causa dei posti di reddito
splendido articolo, ha descritto con il suo esempio la patologia di questa società tanto evoluta. Lo ha fatto perfino con una nota di ironia anche se l’argomento è tragico di per sé. Un’ottima riflessione per cominciare a ribaltare sta società
"Cioé chiede che la sua "schiavitú" sia piú utile al padrone." no per la collettività dice lui
o al suo padrone o alla collettivitá. Non é questa il punto che volevo sottolineare.
Esprimendomi meglio avrei potuto dire solo che l autore "chiede solo che la sua schiavitú sia piú utile".
Io Keynes non l’ho mai letto. Ma ogni tentativo di imbrigliare la libera iniziativa umana e renderla strumento di politiche "collettivistiche" nella storia si e’ rivelato disumanizzante.
Questa l’analisi dell’oncologo Enzo Soresi: "Secondo le statistiche del Ministero della Sanità lo stress legato al lavoro è la seconda malattia professionale più diffusa nell’Unione Europea dopo il mal di schiena. In Europa ne è affetto un lavoratore su 4…intorno al 50% dell’assenteismo è riconducibile allo stress nell’ambiente di lavoro…..le ragioni di insoddisfazione sono rappresentate in primo luogo dalla mancata realizzazione….Il disagio psichico che lo stress induce è responsabile di sintomi funzionali che successivamente possono evolvere verso patologie d’organo" (Il cervello anarchico, pg.98).
"imbrigliare la libera iniziativa umana"
Non è chiaro. Sta dicendo che nel suo ufficio non si è liberi di votare chi si vuole?
Però oggi quello che faceva suo padre dopo le sei ore quotidiane in ufficio ė considerato illegale.
Perche,produrre e lavorare significa solo realizzare manufatti tangibili?Allora una insegnante di sostegno al disabile o una persona che assiste un anziano
non e’ produrre o lavorare?Non sarebbe il caso di distinguere caso per caso il "lavoro inutile"?E magari convertire l’impiegato che non serve in lavori,che so,di sistemazione idrogeologica
del territorio,o pitturare una scuola fatiscente piuttosto che licenziare in toto o non rinnovare
rollover dei neo pensionati con al seguito masse di giovani disoccupati?E come mai la disoccupazione in se,non e’ quasi mai osteggiata come "inutile"?
Certo che oggi è illegale , ma nel dopo guerra , bisognava ricostruire l’Italia..e vi erano persone che avevano anche 3 lavori..
Calmati. Non ho mai detto che l’artista o l’antropologo siano categorie da abolire. Tutt’al più questo è ciò che viene fatto oggi, e tanti saluti ad un presunto 80% di sincera operosità culturale. Come ben sai, ma fingi di non sapere, quell’80% di addetti sono in gran parte utilizzati come passacarte. Non producono nulla di significativo. Oppure hai l’alternativa di smontare la descrizione e dimostrare che quello che descrive l’articolo non è minimamente vero. La vedo dura.
Lo so benissimo.
non tieni conto,nel metodo dialettico di esprimerti,per quanto riguarda questo frangente,che il tutto si presta ad interpretazioni errate e superficiali.
Un lavoro inutile non nuoce a nessuno. Molti burocrati invece con il loro lavoro fanno solo danni e costringono chi ha qualche iniziativa a desistere.
C’è poi la burocrazia dell’ ufficio complicazione affari semplici e qui la produttività è enorme. Spesso mi viene da pensare agli omini indaffarati a scrivere leggi assurde , prive di buon senso , incomprensibili a chiunque non conosca il burocratese e spesso contraddittorie. Sembrano marziani eppure vivono nel mondo reale e talmente rincoglioniti che forse non se ne rendono neppure conto.
Beh, non esageriamo, ho detto che i posti pubblici sono serbatoi di voti, non
che sono un campo di concentramento! Diciamo che se sei politicamente allineato
hai più facilità in tutto, in primis nel fare un pochino di carriera. Sei
politicamente allineato quando non fai mai nessuna critica all’organizzazione
del lavoro, quando sei iscritto ad un sindacato, quando arrivi al mattino con
una copia di un quotidiano "giusto", quando fuori orario (ma anche in orario se
sei un fedelissimo) vai alle riunioni del Partito, quando puoi vantarti di far
volontariato, quando hai fatto un adozione a distanza, quando fai gli scioperi
d’ordinanza, ecc.
Tutto condivisibile, sensazioni provate in prima persona e descritte magistralmente.
Carissimo Andrea,
il tuo discorso è comprensibilissimo.
Ti immagino in quel cubo in mezzo ad un bellissimo paesaggio,
con le sbarre sui vetri. Lì dentro devi stare per 36 ore a settimana.
Senza avere nulla da fare, per di più. Poi sei libero di andartene.
Sei
lì che ti affacci da quella finestra e ti chiedi se tutto questo abbia
davvero senso, per portare a casa uno stipendio… insomma il tuo tempo
che potrebbe essere libero, data la mansione che richiede poco tempo,
sei costretto a stare dentro per giustificare quella paga, che
arriverebbe comunque.
Anch’io mi chiedo che senso abbia.
Mentalmente
è peggio la tua condizione, rispetto a chi dentro a quel cubo svolge
qualche mansione la maggior parte di quel tempo, dal momento che non può
pensare di stare lì dentro "per nulla" ma almeno qualcosa la fa.
Ma fisicamente hai ancora tante energie da vendere quando esci.
Questo è indubbiamente un vantaggio tuo. Inoltre potresti occupare parte di quel tempo con la lettura, sempre che si riesca.
Chi
viene spremuto sul lavoro, esce come uno straccio, dopo aver fatto
qualcosa che la maggior parte delle volte non gli interessa neppure, ed è
lì anche lui solo per la paga.
Anche questo è mentalmente demotivante, ma ti fa rendere meno conto del tempo sprecato, rispetto al tuo caso.
La domanda comunque è sempre la stessa: cui prodest?
perchè farci vivere come somari nel recinto?
Sbagli. Nel grande privato é lo stesso, banche e assicurazioni ad esempio. Ma poi parliamoci chiaramente, io preferisco così che essere comunque schiavo 8 ore, ma sodomizzato dall’inizio alla fine come molti che non sanno cosa fare prima. Quanti conosci a cui piace il loro lavoro e riescono a farlo con i modi e tempi che vogliono? I liberi professionisti stanno ancora peggio perché con l’economia di mercato globalizzata vivi solo per lavorare, bella roba. La cosa giusta sarebbe lavorare solo 6 ore e fare tutto come racconta l’autore, poi potersi dedicare ad altro, altrove. A parità di stipendio però
Si lo ringrazio, perché col nuovo mantra liberista attuale dovrò lavorare 7 giorni su 7, per arricchire ancora qualche miliardario, e in cambio di un tozzo di pane.