Inizio dicendo che sono disgustato nonchè offeso da quello che leggo in questi due articoli …( per non parlare della seconda parte che è una stronzata totale )
Lei signore ha una conoscenza davvero limitata dell’albania …, il suo articolo dimostra quanto lei è ignorante ( badi bene uso il termine ignorante alla franceswe , anche se nel suo caso potrebbe andare bene anche quello di uso comune ) in materia ed è mosso da sentimenti di odio , prepotenza e cattiveria nei confronti di un popolo che è piu’ antico di quello che lei crede ed è il discendente diretto degli antichi Illiri ( ma ovviamente lei non lo sa , come puo’ saperlo con tutta quella cattiveria che la distingue ) …. . Intanto vorrei portare degli esempi che dimostrano il contrario di quello che dice questo signore.
Lei scrive : Un pericoloso complesso di inferiorità. Gli albanesi non sono degli europei, non sono degli “ slavi “ come spesso viene detto per fuorviare ; sono una etnia turca, una delle tante, questa arrivata nel XIV secolo con l’avanzata dell’Impero Ottomano. Io direi anzi che sono una delle peggiori, assieme ai ceceni.
( Questo per dimostrare quanto lei è ignorante ) Prima di passare agli eventi della prima guerra, e’ interessante osservare che l’intervento romano in Illiria, pur trattandosi sempre di una guerra, non e’ caratterizzato da eccessiva agressivita’, e questo da entrambe le parti. Diverso e’ il comportamento dei romani nella guerra contro cartagine; cio’ accade perche’ e’ antico il buon rapporto tra i due popoli; in molti romani scorre sangue di avi illirici. I legami di sangue esistenti tra illiri e gli italici risalgono agli inizi dell’era del ferro. Gli Illiri sono i primi, in Europa, ad entrare nell’era del ferro. Cio’ permette loro, con armi piu’ evolute e resistenti, di sconfinare ed assoggettare i popoli vicini. E’ in questa fase che gli illiri si insediano lungo i due litorali dell’Adriatico. Il glottologo italiano, Giuseppe Sergi, mette tra le prime civilta’ piu’ evolute quella degli illiri. Sergi afferma: … durante la prima eta’ del ferro, delle tribu che si sogliono chiamare illiriche, passando attraverso le Alpi orientali invasero il Veneto e discesero fino al Bolognese, ed alcune si spinsero fino all’odierna Lazio. Ma avvenero anche delle immigrazioni marittime attraverso l’Adriatico, meno numerose. Sembra che si inoltrasero nell’Apulia e nella Basilicata, come attesta un sepolcreti di Ticino, indicando le immigrazioni illiriche, che sono i documenti piu’ antichi precedenti alle invasioni Celtiche ( Le prime e le piu’ evolute civilita’, Torino 1926).
La tesi che ha messo d’accordo gli storici piu’ noti e’ la dimostrazione della discendenza illirica dei veneti – (1° vol., pag. 196). Per quanto riguarda questa testimonianza lo studioso C. Pauli:… c’e’ nell’antico veneto un linguaggio illirico affine all’albanese e al messapico – (Altitalische Forschungen, II°, pag.200, 1894).
Non e’ meno importante l’affermazione dell’altro noto storico Ettore Pais: …i piu’ antichi popoli delle coste orientali d’Italia sono giunte dall’Illiria. I Iapigi, illirici, hanno attraversato le alpi orientali, percorrendo quella stessa via che tenero i Veneti che erano del pari un popolo di stirpe illirica. – (Storia della Sicilia e della Magna Grecia, pag. 60).
Oramai si ritiene comunemente che in Italia durante il X e il IX sec. a.C. fiori’ una cultura preellenica dovuta ad una vasta invasione illirica. Un altro autorevole storico, Gaetano De Sanctis, conferma:… I Iapigi dell’Italia meridionale debbono la loro origine ad una invasione illirica.
Inoltre de Sanctis conclude: Il popolo illirico (albanese), stabilendosi nella Puglia, s’era avanzato vittorioso nelle regioni vicine, mentre una tribu’ dell’Illiria settentrionale aveva tolto agli italici quel terreno che ancora tenevano sulla sinistra del Po – (Storia deli Romani, vol.I, pag.168.)
Lo stesso si pronuncia anche Wolfgang Helbig: …tanto le epigrafi quanto i nomi dimostrano che i lapigi parlavano una lingua indoeuropea, e presentano al tempo stesso una singolare affinita’ con l’odierno albanese, che e’ l’ultima conservazione di un antico dialetto illirico – (“Hermes” Studien uber die alteste italische Geschichte, XI°, Pag.257, ed.1876)
Per concludere sull’importanza dell’Antica Albania, capace di diffondere cultura attraverso una lingua scritta, occorre citare una tra le figure di spicco della glottologia del XX sec., il Prof. L. Ceci: … la lingua dei Messapi e dei Iapigi ha congruenza piena, nei piu’ importanti fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, con l’albanese. Percio’ il messapico ci rappresenta, per l’antichita’ dei suoi monumenti, l’antico illirico o uno degli antichi dialetti illirici, come l’albanese ci rappresenta la fase piu’ recente dell’antico illirico, o di uno degli antichi dialetti illirici, come albanese ci rappresenta la fase piu’ recente dell’antico illirico, o di uno degli antichi dialetti illirici. non ci sono dubbi quindi che i messapi e i Iapigi – rami della medesima famiglia – siano venuti dall’Illiria nell’Italia del Sud, proprio come le antiche leggende dicono. – (Per la storia della civilita’ italica,, pag.12, Roma 1901).
Gli scavi archeologici, sia in Albania che in Italia, hanno provato un intenso rapporto culturale e commerciale tra i due popoli, sia prima dell’eta’ storica, precedente la civilta’ greca. Il commersio per mare, tra le due sponde dell’Adriatico, e’ praticato sin dall’epoca neolitica; per questa ricostruzione ha ottenuto notevoli riscontri il Professore A. Jatta – ( La Puglia preistorica). Grazie ai velocissimi lembi, gli illiri impiegano solo poche ore ad attraversare il braccio di mare che divide l’Albania dall’Italia, con risultati soddisfacenti per i commercianti dell’epoca. Reperti di oggetti dell’era neolitica sono stati rinvenuti sia nel sottosuolo albanese che in quello italiano, rilevando un comune stato di sviluppo e civilta’. La diffusione, nel bacino Adriatico, del culto di Diomede, congiunto a quelle delle acque e dei cavalli, documenta l’influenza preellenico-illirica, lungo le coste Orientali degli Appennini. Tra l’altro gli illiri, prima delle colonizzazioni elleniche della Magna Grecia, introdussero in Italia i vocaboli Graeci e Ulixes.
Sono scientificamente attribuite alla civilta’ illirica, i reperti dell’antica ceramica Apula, rinvenute a Teano, Benevento, Suessula, in Campania, Lazio ed Etruria. La civilta’ illirica estesa anche al territorio Veneto, e’ testimoniato dalle iscrizioni paleovenete rinvenute in Cadore, nella Carinzia, nella vasta Necropoli di Santa Lucia d’Isonzo, nella Caverna di S.Canziano, nei sepolcreti di Vemo, di Pizzughi e Nesazio, come pure nelle vallate di Rezia (Alto Adige, Tirolo, Grigioni).
Il popolo illirico, per lo sviluppo delle popolazioni preistoriche europee, e’ considerato fondamentalmentedalllo storico dell’eta’ classica, Plinio, che riferisce una leggenda secondo la quale da nove giovani e da nove vergini illiriche nascono dodici popoli. da Plinio conosciamo anche l’esistenza di una colonia illirica tra Ancona e Rimini con capoluogo amministrativo di Truento, unica colonia fondata dalla tribu’ illirica dei Liburni in Italia. … Truentum cum amne quod solum Libuornorum in Italia relicum est – (Plinio – Natura – Historia, III, pag.102;pag.110)
***
Conferma l’estensione geografica dei possedimenti illiriche sulle coste italiche dell’Adriatico; come specificato da autorevoli studiosi sull’antichita’, essa si espande anche nell’entroterra della Penisola Balcanica. Vale la tesi, da piu’ storici proposta, che anche i macedoni dell’antichita’ erano di stirpe illirica, e che sono con il passare del tempo vennero ellenizzati.
Il fatto e’ che, fino al XIX sec. d.C., diverse citta’ dell’antica Macedonia, come Kavala e Tessalonico, erano abbitate, prevalentemente dagli illiri ( albanesi). Proprio nella citta’ di Kavala, da una famiglia albanese, nacque l’ultimo faraone d’Egitto, Me’he’med Ali, il trisavolo dell’ultimo re d’Egitto, Faruk.
L’ultimo faraone d’Egitto, l’albanese Me’he’med Ali, riuscira’ ad opporsi con successo persino a Napoleone Bonaparte ed anche al Sultano Turco, ritornando a far risplendere l’Egitto, nel XIX sec. d.C., dopo lunghi secoli di agonia.
Ritardando all’epoca trattata occorre ricordare che gli storici greci dell’eta’ classica ritenevano i macedoni, assolutamente di non stirpe ellena, ma con riluttanza, considerando i macedoni appartenenti alla popolazione ellenica solo molto dopo l’epopea di Alessandro Magno, per trarre profitto dalla sua grandezza.
Tanto piu’ che, e’ stato verificato, che la civilta’ illirica si e’ estesa persino nelle isole dell’Egeo. Intorno al 1300 a.C. la civilta’ Cretese-Micenea viveva la sua fase di declino ed e’ in questo periodo che anche Creta viene sottomessa ad una civilta’ diversa. e’ notevole soppratutto, nella parte centrale dell’isola, un forte elemento pre-dorico che ha lasciato traccia di se nella costituzione della lingua del Paese. Questo cambiamento, al principio dell’epoca del ferro, viene attribuito ad una civilta’ altretanto evoluta e che porto con se’ le nuove forme d’armi lavorato con il nuovo metallo, il ferro. La spada di tipo illirico che era gia’ diffusa anche nel territorio della Grecia Continentale, preellenica.
Una massiccia invasione di Creta da parte della tribu illirica dei Dardani si registra durante il regno in Egitto di ramses II. piu’ avanti, all’incirca nel 1193 a.C., Ramses III riesce, con molte difficolta’ ad arestare l’invasione dell’Asia Minore da parte di una coalizione illirica- Hittita.
Percio’, e’ da ritenere che gli illiri, come discendente dei Pelasgi, popolavano gran parte della penisola Balcanica, compreso il territorio greco, gia’ prima che arrivassero gli elleni. Diversamente nn si spiega la presenza della lingua illirica in diversi dialetti greci durante il X e IX sec. a.C. –
Non puo’ che essere presa con molta considerazione l’affermazione riportata nell’Enciclopedia Europea, che precisa: illirico – Si ritiene oggi communemente che nell’albanese sia presente un fondo originario illirico. Una remota componente di origine illirica e’ riconoscibile anche nella formazione di quei dialetti greci che furono poi detti Dorici – (vol. V, pag.1057).
La… remota componente di origine illirica nei dialetti greci, non e’ niente altro che la lingua degli antenati degli illiri, dei Pelasgi che popolavano l’odierana Grecia e vennero assimiliati dagli elleni dove fiori’ la loro potentissima cultura. E’ comunemente ritenuto che in Grecia e in creta la civilta’ illirica sia preellenica. Questo e’ stato provato durante gli ultimi tentativi di decifrare dei testi epigrafici preellenici dove sono stete notate diverse voci che hanno il loro riscontro esclusivamente nell’albanese odierno. Il che dimostra che gli antenati degli albanesi, e degli stessi illiri, erano affini con gli abitanti preellenici della grecia, i Pelasgi.
Allora mi chiedo come puo’ un popolo cosi antico , sopravissuto nel tempo a nutrire un complesso di inferiorità , come da lei riportato ??
Questo caro signore e cara redazione è solo un esempio di quante cazzate ci sono in quel articolo, non puo’ essere altrimenti che tale articolo non abbia visto la gloria che lei si aspettava …., tutto il resto ( compresa la seconda parte ) è un insieme di menzogne e stupidaggini …
Pur non essendo un giornalista , cerchero di improvisarmi tale , chiedendo alla redazione la possibiltà di difendere il mio popolo e la mia storia tramite un articolo…
frankbach says
Volevo anch’io informare Kleeves che gli albanesi non sono slavi nè turchi, ma illirici, proprio come i pirati che 2000 e passa anni fa infestavano le coste dell’Adriatico. Attualmente l’unico altro popolo illirico a metà è costituito dai Macedoni, differenti per il 50% dagli omonimi che 2300 anni fa conquistavano la Grecia e poi l’Asia. Con le invasioni slave, l’unica enclave illirica rimase l’Albania, ed il Kosovo confinante, seppur albanese nella lingua e nei geni, seguì un diverso percorso etnico, venendo “assimilato” nella galassia panslava che ruotava intorno alla Serbia, almeno sino ai recenti eventi culminati nella guerra del 1999. Per quanto riguarda gli Albanesi in Italia, purtroppo sono veramente pochi quelli sinceramente intenzionati ad integrarsi. Altri vengono abbagliati dai miraggi del consumismo e scelgono la scorciatoia dell’illegalità. La maggioranza oscilla tra le due posizioni, finchè riesce a trovare un qualche equilibrio. Cordiali Saluti FB
eresiarca says
Mah, forse la questione è un po’ più complessa, considerata che l’Albania è stata turchizzata ed islamizzata (in parte). Enton cita cose tutte molto interessanti (le nozioni sull’Illiria e gli Illiri), senonché commette lo stesso errore di chi considerasse gli abitanti dell’odierna Turchia diretti eredi della civiltà greca solo perché un tempo la penisola fu centro di cultura greca abitato da popolazioni greche e/o grecizzate; oppure la popolazione dell’odierna Toscana diretta discendente degli Etruschi, come se in Italia non fosse successo nulla, in seguito, in termini di apporti etnici… Gli Illiri dei libri che cita non sono gli albanesi di oggi, né etnicamente né, tanto meno, culturalmente.
Leonzo says
Effettivamente sono rimasto anch’io un po’ deluso dall’analisi storico-sociale della questione, deluso naturalmente in quanto ammiratore di John Kleeves e della sua penna giustamente velenosa. Forse però più dai modi, dall’aggressività usata che dalla sostanza stessa dell’articolo. Voglio dire che, pur ammettendo che sia tutto vero quanto viene detto, si sa che alla violenza non si risponde con la violenza, altrimenti è la guerra, o almeno… sono coltellate. Non a caso la reazione immediata del nostro amico lettore albanese… Impensabile comunque che non ci sia un fondo di verità in tutto questo marciume, lo dico sempre rispettando la presenza e l’opinione di chi si è sentito attaccato senza vederne il motivo. Probabilmente sarà vero che Enton non ne veda il motivo, ma resta il fatto che noi sì, al contrario di lui. Chiedo solo dunque che si rispetti ora questo nostro stesso motivo messo in evidenza da Kleeves di avere paura degli albanesi – o insomma di alcuni di loro -, visto che questa in teoria rimane la nostra terra, anche se terra di idioti e asserviti al Potente. Come chiedo che si rispetti la storia di un popolo che certamente non ha meno dignità del nostro, non è più barbaro. La civilizzazione non c’entra un cazzo con la dignità, non dimenticate di dare un’occhiata agli USA. Il resto non mi interessa.
eresiarca says
Ottima osservazione. Qui ormai a forza di dover “rispetattare”, nessuno rispetta più quelli che – fino a prova contraria – sono i “padroni di casa”, liberi quindi di “preoccuparsi”… I toni dell’articolo di JK sono forti, ma la sostanza non è campata in aria, tutt’altro.
frankbach says
Ok, è vero ciò che dici: difatti Albanesi e Kosovari non sono la stessa cosa, visto che i secondi si ritengono in qualche modo diversi dai primi. Gli stessi Macedoni, ai tempi di Filippo ed Alessandro Magno si ritenevano ben diversi dagli altri popoli illirici, in quanto “loro si erano abbeverati alla fonte della cultura greca”. Ora come ora, come segnalavo prima, i Macedoni sono per metà slavi e per metà illirici, avendo costumi “ibridi”. Saluti FB
FrancescaFiorentino says
….il come e il perché conosciamo stabilisce il cosa conosciamo….
(Salvini A.)
Già, forse la questione è davvero più complessa… perché la realtà in cui siamo immersi è costituzionalmente complessa, e non risponde alla logica causalistica lineare (causa-effetto, per intenderci) antico retaggio di un positivismo oramai obsoleto e superato, persino in quegli ambiti della scienza considerati da sempre come “esatti” …. L’errore che scorgo alla base dell’analisi del nostro esimio professor Kleeves e seguaci, non sta (solo ed unicamente) nella citazione di dati aleatori desunti da non si sa bene quale fonte, piuttosto che nell’assunzione di se stesso quale unico referente scientifico . L’errore del nostro è l’errore del cosiddetto “uomo della strada”, di colui cioè che si fa ingannare dai ragionamenti di senso comune, dalle scorciatoie della ragione, per arrivare in perfetto stile antipopperiano, alla conferma dei propri assunti. Egli si trova così, schiavo incatenato di pregiudizi e stereotipi, a privilegiare un punto di vista (il suo), un interesse, che è palesemente contenuto nel linguaggio attribuzionale di cui si avvale, connotato altresì da giudizi di valore (e dunque non scientifici) assurti erroneamente a dogmi esplicativi. Ancora. L’errore che sta alla base del ragionamento del Prof. Kleeves, e di molti che come lui che si improvvisano sociologi o scienziati dell’ultima ora, risiede proprio nell’approccio conoscitivo: è cioè un errore di tipo epistemologico…egli ha in mente una teoria e la vuole a tutti i costi dimostrare dimenticando che:
-ogni teoria è scientifica solo nella misura in cui può essere falsificata (Popper)
-ogni teoria, o modello esplicativo, devono, per essere validi, tenere conto dei criteri di adeguatezza e validità esplicativa locale, non possono cioè presentarsi esaustivi nello spiegare la realtà nel suo complesso. ” Se un modello (o una teoria) è adeguato per spiegare un certo problema, diverrà inutilizzabile su altri piani di realtà o per altri oggetti configurati entro altre categorizzazioni conoscitive (A. Salvini, 1988, p.31). Il presunto “complesso di inferiorità” cui attinge il Nostro potrà dunque essere utilizzato per scrivere un articolo circa le problematiche sessuali dell’uomo moderno occidentale ma non può essere applicato in un percorso conoscitivo inerente una tematica quale la criminalità.
In buona sostanza, se non si rispettano queste regole minime ogni teoria o modello teorico, perderà di valore, divenendo discorso di senso comune, smarrendo così il senso della propria funzione principale, quella cioè di essere essenzialmente strumento conoscitivo ed operativo. Ritornando alla complessità e ai processi di conoscenza , non dobbiamo dimenticare quanto Heisenberg aveva scoperto e successivamente formulato nel noto ” Principio di indeterminazione”. Nella sua formulazione più comune, questa teoria dice che non è possibile misurare contemporaneamente e con arbitraria precisione la posizione e l`impulso (e quindi la velocità) di una particella. O meglio quel che Heisenberg ha dimostrato, è che qualsiasi misura induce un errore sull’oggetto osservato. Tradotto in altri termini bypassando consapevolmente considerazioni su cui non mi voglio dilungare molto, si può dimostrare che il principio di Heisenberg non deriva da difficoltà tecnologiche, ma rappresenta una caratteristica della natura delle cose e dei processi conoscitivi, da cui deriva l’impossibilità di osservare un sistema senza alterarne i parametri osservati. Nel momento in cui osserviamo qualcosa stiamo modificando il nostro oggetto di conoscenza. Conoscere è un atto interpretativo e non un processo neutro di tipo “fotografico” volto a rappresentare una realtà esterna a noi, solida e monolitica. Ciò vale a maggior ragione in un ambito così complesso quale quello del comportamento umano, e della devianza in particolare. Come è noto (ma forse non all’esimio prof. Kleeves e seguaci) le moderne teorie esplicative del comportamento deviante, hanno da tempo abbandonato quell’approccio di lombrosiana memoria che sembra accompagnare l’analisi del Nostro, per accedere a più idonei sistemi esplicativi di appannaggio antropomorfista (cfr A.Salvini, 1998) propri dell’approccio costruzionista ed interazionista. Secondo questo modello, ogni comportamento, per essere compreso, deve essere collocato all’interno della matrice dei significati che lo ha generato e non può prescindere dall’ossevatore stesso che nel processo conoscitivo modifica l’oggetto stesso della sua conoscenza, più o meno consapevolmente. Anche la scienza è un modo di vedere la realtà, dove per realtà intendiamo i diversi sguardi prospettici che si intersecano in una “fusione di orizzonti”. Il problema non è come si possa uscire dal cerchio delle nostre interpretazioni soggettive. Al contrario la soluzione sta proprio nella presa di coscienza della nostre pre-supposizioni. In tale ottica si pongono le più moderne teorie sociologiche e in particolare quelle sviluppate attorno agli studi sulla devianza. Harrè, Lemert, De Leo, Salvini, per citarne solo alcuni, hanno proposto un modello di analisi del fenomeno delinquenziale che, esulando dal tentativo di trovale il “delinquococco”, sposta l’attenzione ai processi sociali, alle interazioni umane (formali ed informali), ai contesti entro cui queste si collocano e ai significati che in essi assumono i comportamenti. Comprendere la devianza è un’impresa scientifica massiccia e ridurre il problema ad un’analisi semplicistica quale quella fatta dell’esimio professore non ci porta molto più lontano dai discorsi dell’uomo della strada. Il paradigma della complessità diviene qui un utile strumento per comprendere questo fenomeno. Becker Lemert, Bandura e Matza ci forniscono utili concetti per in tal senso. Dagli anni ’60 circa si incomincia così a parlare di carriera deviante, di disimpegno morale, di neutralizzazione della norma ed etichettamento sociale.. Senza entrare nel merito di ognuna di queste teorie , ciò che pare utile sottolineare ai fini della nostra analisi, è lo spostamento del focus attentivo, operato questi studiosi, dal tentativo di trovare le cause all’interno dell’individuo (Lombroso) ad una maggiore attenzione ai processi relazionali, sociali e soprattutto conoscitivi. Si va così a costruire un concetto di devianza intesa non più come comportamento patologico della persona bensì come processo che coinvolge differenti attori sociali (ecco dunque la complessità) che si struttura all’interno di un tessuto normativo e relazionale storicamente e culturalmente collocato, all’interno del quale è importante, ai fini della comprensione del fenomeno, prestare attenzione sia al comportamento (che il contesto connota come deviante) che alla risposta sociale che ne consegue. Ciò che viene così a costituirsi è un’immagine della devianza come “carriera”, costituita cioè da una serie di tappe. Un processo attivo che si sviluppa e si dipana attraverso varie fasi, concatenate a livello di significato ma suscettibili di interruzione o prosecuzione a seconda di diversi e importanti fattori tra i quali la risposta sociale stessa. Non esiste un gene della devianza, professore, la cui spiegazione possa essere trovata nel passato storico di una nazione. La devianza è un percorso che parte dalla violazione di una norma, socialmente riconosciuta e condivisa, una violazione la cui caratteristica fondamentale è quella della visibilità sociale (si veda Lemert, devianza primaria e secondaria), e che si inserisce all’interno di una serie di possibili risposte formali. Goffman, appartenente alla famosa scuola di sociologia di Chicago, sottolinea bene nelle sue opere come spesso è nella risposta sociale stessa che si struttura la carriera deviante. Sono proprio le leggi, le errate e superficiali teorie pseudo-scientifiche e di senso comune nonché le istituzioni stesse create dalla società per prevenire, reprimere e curare la devianza a divenire la ragione che sostiene e supporta la devianza stessa .
E proprio a tale proposito vale la pena sottolineare come l’equazione clandestino= criminale è del tutto aleatoria e foriera di conseguenze nefaste. Se il fenomeno della clandestinità introduce quello dell’illegalità e della criminalità è perché forse, come sostiene Dal Lago, è necessario ripensare in maniera sostanziale al fenomeno migratorio, alle teorie interpretative a e alle conseguenti politiche di gestione dell’immigrazione stessa. Viviamo comodamente e acriticamente in un’epoca dove la gente si riempie la bocca di concetti quale quello di “globalizzazione” senza tuttavia essere riusciti a giungere ad una normativa civile e coerente in materia di Stranieri e migrazioni. Va da sé che l’immagine dello Straniero come Nemico, all’origine della filosofia politica moderna e dell’origine stessa di stato moderno, è alla base di monche e ideologiche rappresentazioni identitarie di chiara fattura xenofoba. In questo nostro Occidente “civilizzato” la normativa e la politica in materia di immigrazione ha ancora a che fare con paradigmi di esclusione dello Straniero, non riuscendo a ripensare il legame sociale in modo più costruttivo. Il risultato è che ancora oggi, quando si parla di immigrazione, si evocano scenari apocalittici che necessitano di feroci interventi polizieschi. Il mondo contemporaneo, come suggerisce Pier Aldo Rovatti, è attraversato dall’ansia di ricostruire identità chiuse e perfette, religiose, etniche, territoriali o economiche che siano. Il migrante, lo straniero che viola i confini territoriali minaccia i confini identitari della Nazione e del Singolo. Da questa premessa scaturiscono discorsi giuridici e prassi operative (politiche e sociali) che a partire dalla paura dello straniero, del Diverso, lo fa diventare il Nemico da odiare, la causa della crisi sociale, un problema di ordine politico da gestire solo ed esclusivamente a livello di polizia locale o internazionale. Il ragionamento è Migrante = clandestino = criminale. Il pregiudizio di fondo che muove l’analisi dell’esimio professore è proprio quello che appartiene al senso comune: se uno è clandestino allora vuol dire che è fuori legge, dunque è pericoloso. Ecco allora che il Professore, insieme ad altri piccoli uomini della televisione o del mondo politico, si fanno d’un tratto grandi uomini, assurgendo al ruolo di “imprenditore morale” colui cioè che a vario titolo difende e “vendica” la società e i suoi simili, e che tramite discorsi e azioni trasforma e legittima opinioni di senso comune in azioni di violenta repressione, avallato da un sentire morale socialmente condiviso, legittimato da uno pseudosapere scientifico.E’ infatti proprio grazie ad analisi quale quella illustrata dal professore che si arriva a conseguenze estreme quali quelle previste dalla legge Bossi-Fini: militarizzare il controllo delle frontiere e impedire l’accesso ai clandestini (criminali) anche a suon di mitragliate… E cosa c’è di tanto diverso tra la violenza perpetrata attraverso questo comportamento e quella da lei giudicato come inaccettabile? Professore mi dica, esiste una violenza accettabile? Quale la differenza tra questo atteggiamento e il comportamento perpetrato dai tanto odiati albanesi, se non l’arroganza di chi si pone dalla parte del giusto, della legge e della democrazia e per questo si sente in diritto di esercitare un’altrettanto esecrabile violenza mosso dal superiore interesse dello stato nel tentativo di riportare lo status quo. Ma questo è un classico esempio di disimpegno morale, una bieca forma di autogiustificazionismo che oltre a non aggiungere in termini intellettuali nulla al discorso scientifico in corso, non risolve il diffuso e generalizzabile problema della criminalità. Ancora sono qui chiederle professore, se secondo lei (domanda retorica poiché desumo la risposta dal suo scritto) esiste una criminalità più buona di un’altra, se per caso lei pensa che le stragi che hanno toccato in altri tempi il nostro Paese (penso alla strategia della tensione dei famosi anni di piombo) e i delitti e le esecuzioni di mafia che ancora oggi colpiscono le nostra cultura (ricorda negli ultimi tempi quante persone sono morte a Secondigliano e dintorni?) sono forse forme di criminalità migliore rispetto a quella da lei analizata?
Che male che fa professore sentire discorsi come il suo. Soffro, intellettualmente , culturalmente e soprattutto come persona.
E poi Professore, la prego, non citi il Kanun senza possedere conoscenze approfondite in merito. Piuttosto incominci a leggere qualche libro di penna albanese. Sa, non tutti in Albania usano utilizzano come unico prolungamento della mano il Kalashnikov…. conosce ad esempio “Aprile spezzato” di Ismail Kadarè? E dello stesso le potrei citare, come utilelettura d’approfondimento, anche un altro testo dal titolo Il generale dell’armata morta”, che racconta le gesta dei soldati italiani nella terra delle aquile….
Riassumendo e concludendo non voglio assolutamente negare il problema della criminalità tuttavia dando una rapida scorsa ai dati statistici provenienti da fonti riconosciute (www.giustizia.it), e non da giornaletti locali che sbattono il mostro in prima pagina con l’unico fine di vendere qualche copia in più, non ci pare che l’allarme del professore abbia serie e concrete ragioni di esistere. La criminalità albanese non supera quella italiana ….ma che glielo dico a fare?! Ripeto….Un crimine è una violazione del patto sociale. Come può esserci una criminalità buona (quella italiana?) ed una cattiva (quella albanese?) suvvia professore…. Faccia il serio!!! Aggiungo in ultimo, per entrare nel merito della problematica albanese e precisando che da anni mi occupo del fenomeno della devianza e della criminalità essendo esperta in psicologia giuridica, che dagli anni ’90 l’Italia in collaborazione con il governo albanese ed alcune ONG locali, ha messo in atto un piano di intervento massiccio (più o meno opinabile ma questo è un altro discorso) finalizzato ad interrompere dapprima il flusso di scafi nel canale d’Otranto (infatti quelli provenienti dall’Albania sono quasi del tutto scomparsi) e poi volto alla strutturazione programmi di rimpatrio assistito per quei giovani (minorenni) che si trovano in Italia senza permesso di soggiorno. Sono così stati avviati interventi atti a incentivare la permanenza dei giovani albanesi in patria attraverso l’incremento di corsi di formazione professionale con avviamento al mondo del lavoro che andando ad incidere su uno dei fattori che sottostanno al fenomeno migratorio (il miglioramento delle proprie condizioni di vita) rivelano l’interesse anche del governo albanese a gestire il problema della criminalità e degli esodi di massa in maniera intellettualmente ed operativamente più adeguato di un mero e superficiale intervento di operazione poliziesca.
…e ora mi fermo qui, perché ho come la sensazione che lei professore, e i lettori di questo sito, non abbiano alcun interesse ad approfondire la questione, intenzionati solo ed unicamente a cercare assensi volti a confermare il proprio punto di vista, poco o per nulla interessati ad aprirsi a nuovi orizzonti conoscitivi.
Cordiali Saluti Francesca Fiorentino
Suggerimenti bibliografici
– Ciacci M. (a cura di) Significato e interazione: dal behaviorismo sociale all’interazionisno simbolico, (1983) Il Mulino, Bologna
– Lemert E.M. , Devianza problemi sociali e forme di controllo, (1981), ed. Giuffrè, Milano
– Goffman E. La vita quotIdiana come rappresentazione, (1969), Il Mulino, Bologna.
– Goffman E. Stigma, l’identità negata, (1970), Laterza, Bari.
– Berger e Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 1971
– Matza, Come si diventadevianti, 1969
– Leyens, Psicologia del senso comune, 1969, Ed. Giuffrè.
– Alessandro Dal Lago Non Persone -L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli 1999
FrancescaFiorentino says
Scusandomi per gli errori e i refusi all’interno del commento postato colgo l’occasione per aggiungere alcune note che sono rimaste inavvertitamente escluse .
Note – E noto che quando si fa ricerca la citazione delle fonti , teoriche e statistiche, è di fondamentale importanza per dare credibilità scientifica all’articolo.
– L’Epistemologia è una branca della filosofia che studia i processi di conoscenza e fornisce criteri circa le caratteristiche che una teoria dovrebbe avere per essere un’asserzione scientifica a tutti gli effetti.
– Si veda,per approfondire la legge in materia di immigrazione: L. 39/90 “Legge Martelli”; L. 286/98 “Legge Turco-Napolitano”; L. 40/98 “Disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione di straniero”; e la Legge Bossi-Fini, che introduce il controllo militarizzato delle frontiere.
– Si veda, in tema di minori stranieri e immigrazione clandestina, l’interessantissimo testo dal titolo “Il male minore”, di G. Petti, Ed. Ombre Corte
F.F.
Leonzo says
Sarebbe forse il caso che l’esimia professoressa Francesca Fiorentino tenga e continui a tenere le sue impeccabili geometrie social-antropologico-accademico-culturali in una bella e fresca blablaula universitaria. Quantomeno sarebbe forse il caso che JK si dia una mossa per risponderle per le dovute rime (è un augurio). Non lo faccio io stesso solo perché non spetta a me, non perché non ne sia in grado, alles klar? Aggiungo solo una cosa: chi ha detto, chi? che l’uomo della strada sia necessariamente solo un pagliaccio? Se non è razzismo anche questo, sono io un pagliaccio, anzi dirò di più: io sono John Kleeves.
Leonzo says
Oh, caspiterina, mi ero sbagliato, esiste già un commento di JK al felicissimo intervento di Francesca Fiorentino. Per tutti quelli che come me non sono stati così fortunati da scoprirlo: andate a dare un’occhiata su ‘archivio articoli’ di giugno, e divertitevi un po’.
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Inizio dicendo che sono disgustato nonchè offeso da quello che leggo in questi due articoli …( per non parlare della seconda parte che è una stronzata totale )
Lei signore ha una conoscenza davvero limitata dell’albania …, il suo articolo dimostra quanto lei è ignorante ( badi bene uso il termine ignorante alla franceswe , anche se nel suo caso potrebbe andare bene anche quello di uso comune ) in materia ed è mosso da sentimenti di odio , prepotenza e cattiveria nei confronti di un popolo che è piu’ antico di quello che lei crede ed è il discendente diretto degli antichi Illiri ( ma ovviamente lei non lo sa , come puo’ saperlo con tutta quella cattiveria che la distingue ) …. . Intanto vorrei portare degli esempi che dimostrano il contrario di quello che dice questo signore.
Lei scrive :
Un pericoloso complesso di inferiorità.
Gli albanesi non sono degli europei, non sono degli “ slavi “ come spesso viene detto per fuorviare ; sono una etnia turca, una delle tante, questa arrivata nel XIV secolo con l’avanzata dell’Impero Ottomano. Io direi anzi che sono una delle peggiori, assieme ai ceceni.
( Questo per dimostrare quanto lei è ignorante ) Prima di passare agli eventi della prima guerra, e’ interessante osservare che l’intervento romano in Illiria, pur trattandosi sempre di una guerra, non e’ caratterizzato da eccessiva agressivita’, e questo da entrambe le parti. Diverso e’ il comportamento dei romani nella guerra contro cartagine; cio’ accade perche’ e’ antico il buon rapporto tra i due popoli; in molti romani scorre sangue di avi illirici. I legami di sangue esistenti tra illiri e gli italici risalgono agli inizi dell’era del ferro. Gli Illiri sono i primi, in Europa, ad entrare nell’era del ferro. Cio’ permette loro, con armi piu’ evolute e resistenti, di sconfinare ed assoggettare i popoli vicini. E’ in questa fase che gli illiri si insediano lungo i due litorali dell’Adriatico.
Il glottologo italiano, Giuseppe Sergi, mette tra le prime civilta’ piu’ evolute quella degli illiri.
Sergi afferma: … durante la prima eta’ del ferro, delle tribu che si sogliono chiamare illiriche, passando attraverso le Alpi orientali invasero il Veneto e discesero fino al Bolognese, ed alcune si spinsero fino all’odierna Lazio. Ma avvenero anche delle immigrazioni marittime attraverso l’Adriatico, meno numerose. Sembra che si inoltrasero nell’Apulia e nella Basilicata, come attesta un sepolcreti di Ticino, indicando le immigrazioni illiriche, che sono i documenti piu’ antichi precedenti alle invasioni Celtiche
( Le prime e le piu’ evolute civilita’, Torino 1926).
La tesi che ha messo d’accordo gli storici piu’ noti e’ la dimostrazione della discendenza illirica dei veneti – (1° vol., pag. 196). Per quanto riguarda questa testimonianza lo studioso C. Pauli:… c’e’ nell’antico veneto un linguaggio illirico affine all’albanese e al messapico – (Altitalische Forschungen, II°, pag.200, 1894).
Non e’ meno importante l’affermazione dell’altro noto storico Ettore Pais: …i piu’ antichi popoli delle coste orientali d’Italia sono giunte dall’Illiria. I Iapigi, illirici, hanno attraversato le alpi orientali, percorrendo quella stessa via che tenero i Veneti che erano del pari un popolo di stirpe illirica. –
(Storia della Sicilia e della Magna Grecia, pag. 60).
Oramai si ritiene comunemente che in Italia durante il X e il IX sec. a.C. fiori’ una cultura preellenica dovuta ad una vasta invasione illirica.
Un altro autorevole storico, Gaetano De Sanctis, conferma:… I Iapigi dell’Italia meridionale debbono la loro origine ad una invasione illirica.
Inoltre de Sanctis conclude: Il popolo illirico (albanese), stabilendosi nella Puglia, s’era avanzato vittorioso nelle regioni vicine, mentre una tribu’ dell’Illiria settentrionale aveva tolto agli italici quel terreno che ancora tenevano sulla sinistra del Po – (Storia deli Romani, vol.I, pag.168.)
Lo stesso si pronuncia anche Wolfgang Helbig: …tanto le epigrafi quanto i nomi dimostrano che i lapigi parlavano una lingua indoeuropea, e presentano al tempo stesso una singolare affinita’ con l’odierno albanese, che e’ l’ultima conservazione di un antico dialetto illirico –
(“Hermes” Studien uber die alteste italische Geschichte, XI°, Pag.257, ed.1876)
Per concludere sull’importanza dell’Antica Albania, capace di diffondere cultura attraverso una lingua scritta, occorre citare una tra le figure di spicco della glottologia del XX sec., il Prof. L. Ceci:
… la lingua dei Messapi e dei Iapigi ha congruenza piena, nei piu’ importanti fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, con l’albanese.
Percio’ il messapico ci rappresenta, per l’antichita’ dei suoi monumenti, l’antico illirico o uno degli antichi dialetti illirici, come l’albanese ci rappresenta la fase piu’ recente dell’antico illirico, o di uno degli antichi dialetti illirici, come albanese ci rappresenta la fase piu’ recente dell’antico illirico, o di uno degli antichi dialetti illirici. non ci sono dubbi quindi che i messapi e i Iapigi – rami della medesima famiglia – siano venuti dall’Illiria nell’Italia del Sud, proprio come le antiche leggende dicono. –
(Per la storia della civilita’ italica,, pag.12, Roma 1901).
Gli scavi archeologici, sia in Albania che in Italia, hanno provato un intenso rapporto culturale e commerciale tra i due popoli, sia prima dell’eta’ storica, precedente la civilta’ greca.
Il commersio per mare, tra le due sponde dell’Adriatico, e’ praticato sin dall’epoca neolitica; per questa ricostruzione ha ottenuto notevoli riscontri il Professore A. Jatta – ( La Puglia preistorica).
Grazie ai velocissimi lembi, gli illiri impiegano solo poche ore ad attraversare il braccio di mare che divide l’Albania dall’Italia, con risultati soddisfacenti per i commercianti dell’epoca.
Reperti di oggetti dell’era neolitica sono stati rinvenuti sia nel sottosuolo albanese che in quello italiano, rilevando un comune stato di sviluppo e civilta’.
La diffusione, nel bacino Adriatico, del culto di Diomede, congiunto a quelle delle acque e dei cavalli, documenta l’influenza preellenico-illirica, lungo le coste Orientali degli Appennini.
Tra l’altro gli illiri, prima delle colonizzazioni elleniche della Magna Grecia, introdussero in Italia i vocaboli Graeci e Ulixes.
Sono scientificamente attribuite alla civilta’ illirica, i reperti dell’antica ceramica Apula, rinvenute a Teano, Benevento, Suessula, in Campania, Lazio ed Etruria.
La civilta’ illirica estesa anche al territorio Veneto, e’ testimoniato dalle iscrizioni paleovenete rinvenute in Cadore, nella Carinzia, nella vasta Necropoli di Santa Lucia d’Isonzo, nella Caverna di S.Canziano, nei sepolcreti di Vemo, di Pizzughi e Nesazio, come pure nelle vallate di Rezia (Alto Adige, Tirolo, Grigioni).
Il popolo illirico, per lo sviluppo delle popolazioni preistoriche europee, e’ considerato fondamentalmentedalllo storico dell’eta’ classica, Plinio, che riferisce una leggenda secondo la quale da nove giovani e da nove vergini illiriche nascono dodici popoli. da Plinio conosciamo anche l’esistenza di una colonia illirica tra Ancona e Rimini con capoluogo amministrativo di Truento, unica colonia fondata dalla tribu’ illirica dei Liburni in Italia.
… Truentum cum amne quod solum Libuornorum in Italia relicum est –
(Plinio – Natura – Historia, III, pag.102;pag.110)
***
Conferma l’estensione geografica dei possedimenti illiriche sulle coste italiche dell’Adriatico; come specificato da autorevoli studiosi sull’antichita’, essa si espande anche nell’entroterra della Penisola Balcanica.
Vale la tesi, da piu’ storici proposta, che anche i macedoni dell’antichita’ erano di stirpe illirica, e che sono con il passare del tempo vennero ellenizzati.
Il fatto e’ che, fino al XIX sec. d.C., diverse citta’ dell’antica Macedonia, come Kavala e Tessalonico, erano abbitate, prevalentemente dagli illiri ( albanesi).
Proprio nella citta’ di Kavala, da una famiglia albanese, nacque l’ultimo faraone d’Egitto, Me’he’med Ali, il trisavolo dell’ultimo re d’Egitto, Faruk.
L’ultimo faraone d’Egitto, l’albanese Me’he’med Ali, riuscira’ ad opporsi con successo persino a Napoleone Bonaparte ed anche al Sultano Turco, ritornando a far risplendere l’Egitto, nel XIX sec. d.C., dopo lunghi secoli di agonia.
Ritardando all’epoca trattata occorre ricordare che gli storici greci dell’eta’ classica ritenevano i macedoni, assolutamente di non stirpe ellena, ma con riluttanza, considerando i macedoni appartenenti alla popolazione ellenica solo molto dopo l’epopea di Alessandro Magno, per trarre profitto dalla sua grandezza.
Tanto piu’ che, e’ stato verificato, che la civilta’ illirica si e’ estesa persino nelle isole dell’Egeo.
Intorno al 1300 a.C. la civilta’ Cretese-Micenea viveva la sua fase di declino ed e’ in questo periodo che anche Creta viene sottomessa ad una civilta’ diversa. e’ notevole soppratutto, nella parte centrale dell’isola, un forte elemento pre-dorico che ha lasciato traccia di se nella costituzione della lingua del Paese. Questo cambiamento, al principio dell’epoca del ferro, viene attribuito ad una civilta’ altretanto evoluta e che porto con se’ le nuove forme d’armi lavorato con il nuovo metallo, il ferro. La spada di tipo illirico che era gia’ diffusa anche nel territorio della Grecia Continentale, preellenica.
Una massiccia invasione di Creta da parte della tribu illirica dei Dardani si registra durante il regno in Egitto di ramses II. piu’ avanti, all’incirca nel 1193 a.C., Ramses III riesce, con molte difficolta’ ad arestare l’invasione dell’Asia Minore da parte di una coalizione illirica- Hittita.
Percio’, e’ da ritenere che gli illiri, come discendente dei Pelasgi, popolavano gran parte della penisola Balcanica, compreso il territorio greco, gia’ prima che arrivassero gli elleni. Diversamente nn si spiega la presenza della lingua illirica in diversi dialetti greci durante il X e IX sec. a.C. –
Non puo’ che essere presa con molta considerazione l’affermazione riportata nell’Enciclopedia Europea, che precisa: illirico – Si ritiene oggi communemente che nell’albanese sia presente un fondo originario illirico. Una remota componente di origine illirica e’ riconoscibile anche nella formazione di quei dialetti greci che furono poi detti Dorici – (vol. V, pag.1057).
La… remota componente di origine illirica nei dialetti greci, non e’ niente altro che la lingua degli antenati degli illiri, dei Pelasgi che popolavano l’odierana Grecia e vennero assimiliati dagli elleni dove fiori’ la loro potentissima cultura.
E’ comunemente ritenuto che in Grecia e in creta la civilta’ illirica sia preellenica. Questo e’ stato provato durante gli ultimi tentativi di decifrare dei testi epigrafici preellenici dove sono stete notate diverse voci che hanno il loro riscontro esclusivamente nell’albanese odierno. Il che dimostra che gli antenati degli albanesi, e degli stessi illiri, erano affini con gli abitanti preellenici della grecia, i Pelasgi.
Allora mi chiedo come puo’ un popolo cosi antico , sopravissuto nel tempo a nutrire un complesso di inferiorità , come da lei riportato ??
Questo caro signore e cara redazione è solo un esempio di quante cazzate ci sono in quel articolo, non puo’ essere altrimenti che tale articolo non abbia visto la gloria che lei si aspettava …., tutto il resto ( compresa la seconda parte ) è un insieme di menzogne e stupidaggini …
Pur non essendo un giornalista , cerchero di improvisarmi tale , chiedendo alla redazione la possibiltà di difendere il mio popolo e la mia storia tramite un articolo…
Volevo anch’io informare Kleeves che gli albanesi non sono slavi nè turchi, ma illirici, proprio come i pirati che 2000 e passa anni fa infestavano le coste dell’Adriatico.
Attualmente l’unico altro popolo illirico a metà è costituito dai Macedoni, differenti per il 50% dagli omonimi che 2300 anni fa conquistavano la Grecia e poi l’Asia.
Con le invasioni slave, l’unica enclave illirica rimase l’Albania, ed il Kosovo confinante, seppur albanese nella lingua e nei geni, seguì un diverso percorso etnico, venendo “assimilato” nella galassia panslava che ruotava intorno alla Serbia, almeno sino ai recenti eventi culminati nella guerra del 1999.
Per quanto riguarda gli Albanesi in Italia, purtroppo sono veramente pochi quelli sinceramente intenzionati ad integrarsi. Altri vengono abbagliati dai miraggi del consumismo e scelgono la scorciatoia dell’illegalità. La maggioranza oscilla tra le due posizioni, finchè riesce a trovare un qualche equilibrio.
Cordiali Saluti
FB
Mah, forse la questione è un po’ più complessa, considerata che l’Albania è stata turchizzata ed islamizzata (in parte).
Enton cita cose tutte molto interessanti (le nozioni sull’Illiria e gli Illiri), senonché commette lo stesso errore di chi considerasse gli abitanti dell’odierna Turchia diretti eredi della civiltà greca solo perché un tempo la penisola fu centro di cultura greca abitato da popolazioni greche e/o grecizzate; oppure la popolazione dell’odierna Toscana diretta discendente degli Etruschi, come se in Italia non fosse successo nulla, in seguito, in termini di apporti etnici… Gli Illiri dei libri che cita non sono gli albanesi di oggi, né etnicamente né, tanto meno, culturalmente.
Effettivamente sono rimasto anch’io un po’ deluso dall’analisi storico-sociale della questione, deluso naturalmente in quanto ammiratore di John Kleeves e della sua penna giustamente velenosa. Forse però più dai modi, dall’aggressività usata che dalla sostanza stessa dell’articolo. Voglio dire che, pur ammettendo che sia tutto vero quanto viene detto, si sa che alla violenza non si risponde con la violenza, altrimenti è la guerra, o almeno… sono coltellate. Non a caso la reazione immediata del nostro amico lettore albanese…
Impensabile comunque che non ci sia un fondo di verità in tutto questo marciume, lo dico sempre rispettando la presenza e l’opinione di chi si è sentito attaccato senza vederne il motivo. Probabilmente sarà vero che Enton non ne veda il motivo, ma resta il fatto che noi sì, al contrario di lui. Chiedo solo dunque che si rispetti ora questo nostro stesso motivo messo in evidenza da Kleeves di avere paura degli albanesi – o insomma di alcuni di loro -, visto che questa in teoria rimane la nostra terra, anche se terra di idioti e asserviti al Potente. Come chiedo che si rispetti la storia di un popolo che certamente non ha meno dignità del nostro, non è più barbaro. La civilizzazione non c’entra un cazzo con la dignità, non dimenticate di dare un’occhiata agli USA. Il resto non mi interessa.
Ottima osservazione. Qui ormai a forza di dover “rispetattare”, nessuno rispetta più quelli che – fino a prova contraria – sono i “padroni di casa”, liberi quindi di “preoccuparsi”…
I toni dell’articolo di JK sono forti, ma la sostanza non è campata in aria, tutt’altro.
Ok, è vero ciò che dici: difatti Albanesi e Kosovari non sono la stessa cosa, visto che i secondi si ritengono in qualche modo diversi dai primi.
Gli stessi Macedoni, ai tempi di Filippo ed Alessandro Magno si ritenevano ben diversi dagli altri popoli illirici, in quanto “loro si erano abbeverati alla fonte della cultura greca”. Ora come ora, come segnalavo prima, i Macedoni sono per metà slavi e per metà illirici, avendo costumi “ibridi”.
Saluti
FB
….il come e il perché conosciamo stabilisce il cosa conosciamo….
(Salvini A.)
Già, forse la questione è davvero più complessa… perché la realtà in
cui siamo immersi è costituzionalmente complessa, e non risponde alla
logica causalistica lineare (causa-effetto, per intenderci) antico
retaggio di un positivismo oramai obsoleto e superato, persino in quegli
ambiti della scienza considerati da sempre come “esatti” ….
L’errore che scorgo alla base dell’analisi del nostro esimio professor
Kleeves e seguaci, non sta (solo ed unicamente) nella citazione di dati
aleatori desunti da non si sa bene quale fonte, piuttosto che
nell’assunzione di se stesso quale unico referente scientifico . L’errore del
nostro è l’errore del cosiddetto “uomo della strada”, di colui cioè che
si fa ingannare dai ragionamenti di senso comune, dalle scorciatoie
della ragione, per arrivare in perfetto stile antipopperiano, alla conferma
dei propri assunti. Egli si trova così, schiavo incatenato di
pregiudizi e stereotipi, a privilegiare un punto di vista (il suo), un
interesse, che è palesemente contenuto nel linguaggio attribuzionale di cui si
avvale, connotato altresì da giudizi di valore (e dunque non
scientifici) assurti erroneamente a dogmi esplicativi. Ancora. L’errore che sta
alla base del ragionamento del Prof. Kleeves, e di molti che come lui che
si improvvisano sociologi o scienziati dell’ultima ora, risiede proprio
nell’approccio conoscitivo: è cioè un errore di tipo
epistemologico…egli ha in mente una teoria e la vuole a tutti i costi dimostrare
dimenticando che:
-ogni teoria è scientifica solo nella misura in cui può essere
falsificata (Popper)
-ogni teoria, o modello esplicativo, devono, per essere validi, tenere
conto dei criteri di adeguatezza e validità esplicativa locale, non
possono cioè presentarsi esaustivi nello spiegare la realtà nel suo
complesso. ” Se un modello (o una teoria) è adeguato per spiegare un certo
problema, diverrà inutilizzabile su altri piani di realtà o per altri
oggetti configurati entro altre categorizzazioni conoscitive (A.
Salvini, 1988, p.31). Il presunto “complesso di inferiorità” cui attinge il
Nostro potrà dunque essere utilizzato per scrivere un articolo circa le
problematiche sessuali dell’uomo moderno occidentale ma non può essere
applicato in un percorso conoscitivo inerente una tematica quale la
criminalità.
In buona sostanza, se non si rispettano queste regole minime ogni
teoria o modello teorico, perderà di valore, divenendo discorso di senso
comune, smarrendo così il senso della propria funzione principale, quella
cioè di essere essenzialmente strumento conoscitivo ed operativo.
Ritornando alla complessità e ai processi di conoscenza , non dobbiamo
dimenticare quanto Heisenberg aveva scoperto e successivamente
formulato nel noto ” Principio di indeterminazione”. Nella sua formulazione più
comune, questa teoria dice che non è possibile misurare
contemporaneamente e con arbitraria precisione la posizione e l`impulso (e quindi la
velocità) di una particella. O meglio quel che Heisenberg ha dimostrato,
è che qualsiasi misura induce un errore sull’oggetto osservato.
Tradotto in altri termini bypassando consapevolmente considerazioni su cui non
mi voglio dilungare molto, si può dimostrare che il principio di
Heisenberg non deriva da difficoltà tecnologiche, ma rappresenta una
caratteristica della natura delle cose e dei processi conoscitivi, da cui
deriva l’impossibilità di osservare un sistema senza alterarne i parametri
osservati. Nel momento in cui osserviamo qualcosa stiamo modificando il
nostro oggetto di conoscenza. Conoscere è un atto interpretativo e non
un processo neutro di tipo “fotografico” volto a rappresentare una
realtà esterna a noi, solida e monolitica.
Ciò vale a maggior ragione in un ambito così complesso quale quello del
comportamento umano, e della devianza in particolare. Come è noto (ma
forse non all’esimio prof. Kleeves e seguaci) le moderne teorie
esplicative del comportamento deviante, hanno da tempo abbandonato
quell’approccio di lombrosiana memoria che sembra accompagnare l’analisi del
Nostro, per accedere a più idonei sistemi esplicativi di appannaggio
antropomorfista (cfr A.Salvini, 1998) propri dell’approccio costruzionista ed
interazionista. Secondo questo modello, ogni comportamento, per essere
compreso, deve essere collocato all’interno della matrice dei
significati che lo ha generato e non può prescindere dall’ossevatore stesso che
nel processo conoscitivo modifica l’oggetto stesso della sua
conoscenza, più o meno consapevolmente. Anche la scienza è un modo di vedere la
realtà, dove per realtà intendiamo i diversi sguardi prospettici che si
intersecano in una “fusione di orizzonti”. Il problema non è come si
possa uscire dal cerchio delle nostre interpretazioni soggettive. Al
contrario la soluzione sta proprio nella presa di coscienza della nostre
pre-supposizioni. In tale ottica si pongono le più moderne teorie
sociologiche e in particolare quelle sviluppate attorno agli studi sulla
devianza. Harrè, Lemert, De Leo, Salvini, per citarne solo alcuni, hanno
proposto un modello di analisi del fenomeno delinquenziale che, esulando
dal tentativo di trovale il “delinquococco”, sposta l’attenzione ai
processi sociali, alle interazioni umane (formali ed informali), ai
contesti entro cui queste si collocano e ai significati che in essi assumono
i comportamenti. Comprendere la devianza è un’impresa scientifica
massiccia e ridurre il problema ad un’analisi semplicistica quale quella
fatta dell’esimio professore non ci porta molto più lontano dai discorsi
dell’uomo della strada. Il paradigma della complessità diviene qui un
utile strumento per comprendere questo fenomeno. Becker Lemert, Bandura e
Matza ci forniscono utili concetti per in tal senso. Dagli anni ’60
circa si incomincia così a parlare di carriera deviante, di disimpegno
morale, di neutralizzazione della norma ed etichettamento sociale.. Senza
entrare nel merito di ognuna di queste teorie , ciò che pare utile
sottolineare ai fini della nostra analisi, è lo spostamento del focus
attentivo, operato questi studiosi, dal tentativo di trovare le cause
all’interno dell’individuo (Lombroso) ad una maggiore attenzione ai processi
relazionali, sociali e soprattutto conoscitivi. Si va così a costruire
un concetto di devianza intesa non più come comportamento patologico
della persona bensì come processo che coinvolge differenti attori sociali
(ecco dunque la complessità) che si struttura all’interno di un tessuto
normativo e relazionale storicamente e culturalmente collocato,
all’interno del quale è importante, ai fini della comprensione del fenomeno,
prestare attenzione sia al comportamento (che il contesto connota come
deviante) che alla risposta sociale che ne consegue. Ciò che viene così
a costituirsi è un’immagine della devianza come “carriera”, costituita
cioè da una serie di tappe. Un processo attivo che si sviluppa e si
dipana attraverso varie fasi, concatenate a livello di significato ma
suscettibili di interruzione o prosecuzione a seconda di diversi e
importanti fattori tra i quali la risposta sociale stessa. Non esiste un gene
della devianza, professore, la cui spiegazione possa essere trovata nel
passato storico di una nazione. La devianza è un percorso che parte
dalla violazione di una norma, socialmente riconosciuta e condivisa, una
violazione la cui caratteristica fondamentale è quella della visibilità
sociale (si veda Lemert, devianza primaria e secondaria), e che si
inserisce all’interno di una serie di possibili risposte formali. Goffman,
appartenente alla famosa scuola di sociologia di Chicago, sottolinea
bene nelle sue opere come spesso è nella risposta sociale stessa che si
struttura la carriera deviante. Sono proprio le leggi, le errate e
superficiali teorie pseudo-scientifiche e di senso comune nonché le
istituzioni stesse create dalla società per prevenire, reprimere e curare la
devianza a divenire la ragione che sostiene e supporta la devianza
stessa .
E proprio a tale proposito vale la pena sottolineare come l’equazione
clandestino= criminale è del tutto aleatoria e foriera di conseguenze
nefaste. Se il fenomeno della clandestinità introduce quello
dell’illegalità e della criminalità è perché forse, come sostiene Dal Lago, è
necessario ripensare in maniera sostanziale al fenomeno migratorio, alle
teorie interpretative a e alle conseguenti politiche di gestione
dell’immigrazione stessa. Viviamo comodamente e acriticamente in un’epoca dove
la gente si riempie la bocca di concetti quale quello di
“globalizzazione” senza tuttavia essere riusciti a giungere ad una normativa civile e
coerente in materia di Stranieri e migrazioni. Va da sé che l’immagine
dello Straniero come Nemico, all’origine della filosofia politica
moderna e dell’origine stessa di stato moderno, è alla base di monche e
ideologiche rappresentazioni identitarie di chiara fattura xenofoba. In
questo nostro Occidente “civilizzato” la normativa e la politica in
materia di immigrazione ha ancora a che fare con paradigmi di esclusione
dello Straniero, non riuscendo a ripensare il legame sociale in modo più
costruttivo. Il risultato è che ancora oggi, quando si parla di
immigrazione, si evocano scenari apocalittici che necessitano di feroci
interventi polizieschi. Il mondo contemporaneo, come suggerisce Pier Aldo
Rovatti, è attraversato dall’ansia di ricostruire identità chiuse e
perfette, religiose, etniche, territoriali o economiche che siano. Il
migrante, lo straniero che viola i confini territoriali minaccia i confini
identitari della Nazione e del Singolo. Da questa premessa scaturiscono
discorsi giuridici e prassi operative (politiche e sociali) che a
partire dalla paura dello straniero, del Diverso, lo fa diventare il Nemico
da odiare, la causa della crisi sociale, un problema di ordine politico
da gestire solo ed esclusivamente a livello di polizia locale o
internazionale.
Il ragionamento è Migrante = clandestino = criminale.
Il pregiudizio di fondo che muove l’analisi dell’esimio professore è
proprio quello che appartiene al senso comune: se uno è clandestino
allora vuol dire che è fuori legge, dunque è pericoloso. Ecco allora che il
Professore, insieme ad altri piccoli uomini della televisione o del
mondo politico, si fanno d’un tratto grandi uomini, assurgendo al ruolo di
“imprenditore morale” colui cioè che a vario titolo difende e
“vendica” la società e i suoi simili, e che tramite discorsi e azioni
trasforma e legittima opinioni di senso comune in azioni di violenta
repressione, avallato da un sentire morale socialmente condiviso, legittimato da
uno pseudosapere scientifico.E’ infatti proprio grazie ad analisi quale
quella illustrata dal professore che si arriva a conseguenze estreme
quali quelle previste dalla legge Bossi-Fini: militarizzare il controllo
delle frontiere e impedire l’accesso ai clandestini (criminali) anche a
suon di mitragliate… E cosa c’è di tanto diverso tra la violenza
perpetrata attraverso questo comportamento e quella da lei giudicato come
inaccettabile? Professore mi dica, esiste una violenza accettabile? Quale
la differenza tra questo atteggiamento e il comportamento perpetrato
dai tanto odiati albanesi, se non l’arroganza di chi si pone dalla parte
del giusto, della legge e della democrazia e per questo si sente in
diritto di esercitare un’altrettanto esecrabile violenza mosso dal
superiore interesse dello stato nel tentativo di riportare lo status quo. Ma
questo è un classico esempio di disimpegno morale, una bieca forma di
autogiustificazionismo che oltre a non aggiungere in termini
intellettuali nulla al discorso scientifico in corso, non risolve il diffuso e
generalizzabile problema della criminalità. Ancora sono qui chiederle
professore, se secondo lei (domanda retorica poiché desumo la risposta dal
suo scritto) esiste una criminalità più buona di un’altra, se per caso
lei pensa che le stragi che hanno toccato in altri tempi il nostro
Paese (penso alla strategia della tensione dei famosi anni di piombo) e i
delitti e le esecuzioni di mafia che ancora oggi colpiscono le nostra
cultura (ricorda negli ultimi tempi quante persone sono morte a
Secondigliano e dintorni?) sono forse forme di criminalità migliore rispetto a
quella da lei analizata?
Che male che fa professore sentire discorsi come il suo. Soffro,
intellettualmente , culturalmente e soprattutto come persona.
E poi Professore, la prego, non citi il Kanun senza possedere
conoscenze approfondite in merito. Piuttosto incominci a leggere qualche libro
di penna albanese. Sa, non tutti in Albania usano utilizzano come unico
prolungamento della mano il Kalashnikov…. conosce ad esempio “Aprile
spezzato” di Ismail Kadarè? E dello stesso le potrei citare, come
utilelettura d’approfondimento, anche un altro testo dal titolo Il generale
dell’armata morta”, che racconta le gesta dei soldati italiani nella
terra delle aquile….
Riassumendo e concludendo non voglio assolutamente negare il problema
della criminalità tuttavia dando una rapida scorsa ai dati statistici
provenienti da fonti riconosciute (www.giustizia.it), e non da
giornaletti locali che sbattono il mostro in prima pagina con l’unico fine di
vendere qualche copia in più, non ci pare che l’allarme del professore
abbia serie e concrete ragioni di esistere. La criminalità albanese non
supera quella italiana ….ma che glielo dico a fare?!
Ripeto….Un crimine è una violazione del patto sociale. Come può esserci
una criminalità buona (quella italiana?) ed una cattiva (quella
albanese?) suvvia professore…. Faccia il serio!!!
Aggiungo in ultimo, per entrare nel merito della problematica albanese
e precisando che da anni mi occupo del fenomeno della devianza e della
criminalità essendo esperta in psicologia giuridica, che dagli anni ’90
l’Italia in collaborazione con il governo albanese ed alcune ONG
locali, ha messo in atto un piano di intervento massiccio (più o meno
opinabile ma questo è un altro discorso) finalizzato ad interrompere dapprima
il flusso di scafi nel canale d’Otranto (infatti quelli provenienti
dall’Albania sono quasi del tutto scomparsi) e poi volto alla
strutturazione programmi di rimpatrio assistito per quei giovani (minorenni) che si
trovano in Italia senza permesso di soggiorno. Sono così stati avviati
interventi atti a incentivare la permanenza dei giovani albanesi in
patria attraverso l’incremento di corsi di formazione professionale con
avviamento al mondo del lavoro che andando ad incidere su uno dei fattori
che sottostanno al fenomeno migratorio (il miglioramento delle proprie
condizioni di vita) rivelano l’interesse anche del governo albanese a
gestire il problema della criminalità e degli esodi di massa in maniera
intellettualmente ed operativamente più adeguato di un mero e
superficiale intervento di operazione poliziesca.
…e ora mi fermo qui, perché ho come la sensazione che lei professore, e
i lettori di questo sito, non abbiano alcun interesse ad approfondire
la questione, intenzionati solo ed unicamente a cercare assensi volti a
confermare il proprio punto di vista, poco o per nulla interessati ad
aprirsi a nuovi orizzonti conoscitivi.
Cordiali Saluti
Francesca Fiorentino
Suggerimenti bibliografici
– Ciacci M. (a cura di) Significato e interazione: dal behaviorismo
sociale all’interazionisno simbolico, (1983) Il Mulino, Bologna
– Lemert E.M. , Devianza problemi sociali e forme di controllo, (1981),
ed. Giuffrè, Milano
– Goffman E. La vita quotIdiana come rappresentazione, (1969), Il
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– Goffman E. Stigma, l’identità negata, (1970), Laterza, Bari.
– Salvini, Fiora, Pedrabissi, Pluralismo teorico e pragmatismo
conoscitivo, 1993, Ed. Giuffrè.
– Berger e Luckmann, La realtà come costruzione sociale, 1971
– Matza, Come si diventadevianti, 1969
– Leyens, Psicologia del senso comune, 1969, Ed. Giuffrè.
– Alessandro Dal Lago Non Persone -L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli 1999
Scusandomi per gli errori e i refusi all’interno del commento postato colgo l’occasione per aggiungere alcune note che sono rimaste inavvertitamente escluse .
Note
– E noto che quando si fa ricerca la citazione delle fonti , teoriche e statistiche, è di fondamentale importanza per dare credibilità scientifica all’articolo.
– L’Epistemologia è una branca della filosofia che studia i processi di conoscenza e fornisce criteri circa le caratteristiche che una teoria dovrebbe avere per essere un’asserzione scientifica a tutti gli effetti.
– Si veda,per approfondire la legge in materia di immigrazione: L. 39/90 “Legge Martelli”; L. 286/98 “Legge Turco-Napolitano”; L. 40/98 “Disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione di straniero”; e la Legge Bossi-Fini, che introduce il controllo militarizzato delle frontiere.
– Si veda, in tema di minori stranieri e immigrazione clandestina, l’interessantissimo testo dal titolo “Il male minore”, di G. Petti, Ed. Ombre Corte
F.F.
Sarebbe forse il caso che l’esimia professoressa Francesca Fiorentino tenga e continui a tenere le sue impeccabili geometrie social-antropologico-accademico-culturali in una bella e fresca blablaula universitaria. Quantomeno sarebbe forse il caso che JK si dia una mossa per risponderle per le dovute rime (è un augurio). Non lo faccio io stesso solo perché non spetta a me, non perché non ne sia in grado, alles klar?
Aggiungo solo una cosa: chi ha detto, chi? che l’uomo della strada sia necessariamente solo un pagliaccio? Se non è razzismo anche questo, sono io un pagliaccio, anzi dirò di più: io sono John Kleeves.
Oh, caspiterina, mi ero sbagliato, esiste già un commento di JK al felicissimo intervento di Francesca Fiorentino. Per tutti quelli che come me non sono stati così fortunati da scoprirlo: andate a dare un’occhiata su ‘archivio articoli’ di giugno, e divertitevi un po’.