Chi è davvero “lo scomparso”?

Nel giallo filosofico di Carlo Sarti edito da Byoblu, lo “scomparso” da trovare sembra essere il significato che diamo alla nostra esistenza. All’ombra dell’enigma del Tempo, dell’Eterno, del Nulla.

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Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

L’espediente è una trama letteraria avvincente, a tratti comica e surreale: l’ingaggio dell’investigatore Marlon De Angelis sulle tracce di un cliente che, per via della sua morte annunciata, è prossimo a scomparire per recarsi al di fuori del tempo degli umani… e lì dovrà essere trovato.

Ma di colpo di scena in colpo di scena, il lettore s’accorge presto d’essere finito in un gioco più grande di lui, in cui sarà costretto a porsi le domande che ognuno di noi occorre si ponga ad ogni tornante dell’esistenza.

L’indagine poliziesca di De Angelis diviene infatti ricerca indiziaria sul vero senso dell’esserci, sulla natura dell’avventura umana e di quella del cosmo, delle creature, della materia e dell’energia sin dalla scaturigine del tempo, o da ancor prima del suo inizio.

Il chiacchierone De Angelis non molla l’osso nelle diatribe verbali che ingaggia con i suoi interlocutori, cogliendo ogni occasione per aprirsi spazi dialogici di pensiero, per rubarli a forza – dovremmo tutti imparare da lui! – allo scorrere delle nostre esistenze distratte.

In questo ricorda il tafano ateniese, il primo che come una levatrice tentò l’impresa di far emergere la verità dalle menti assopite dei coevi. Come lui, De Angelis punge la coscienza dell’uomo contemporaneo per indurlo a scoprire la verità.

Ma la verità non abita là dove alberga l’ovvio.  Com’ebbe ad asserire Blanchot, “La réponse est le malheur de la question”, la risposta è il male della domanda. Lo psicoanalista Wilfred Bion trasformò la frase nel lapidario “La conoscenza è il male dell’ignoranza”, dunque con amara, paradossale ironia potremmo anche dire “la conoscenza è l’assassina della curiosità”.

Allora è in “quel che ancora non s’è pensato” che troveremo qualcosa di vero. Ma per avvicinarvisi occorre un percorso a spirale, un periplo che ripercorra il “già saputo”, lo scandagli e ne faccia DNA da rinnovare al fine di produrre l’idea nuova, anzi, di “trovarla”. Perché la verità è un incrocio paradossale tra il “già da sempre lì” e il “creato ex novo da me”. Probabilmente l’Autore non saprebbe dire dove l’ha presa, quella verità che De Angelis trova, ma per tornare al sommo Bion, solo la menzogna necessita di un autore, la verità no. La verità esiste anche prima di essere pensata, esiste senza dover ricorrere a un pensatore che la pensi. È solo la bugia che esige un pensatore, perché senza di lui non esisterebbe. Tanto che, aggiunge Luigi Pagliarani, se ne potrebbe derivare un criterio di falsità: quanto più un pensiero si regge sulla paternità di chi l’ha generato e sul culto dei seguaci che lo sostengono, tento più è legittimo il sospetto di trovarsi di fronte ad una bugia che ha bisogno di tutto quest’apparato di forze per sussistere come vera, plausibile.

Non si accede alla verità se non dopo grande fatica. La storia dell’uomo esibisce, accanto alla lotta per il sapere, un’eguale e forse ancor più forte necessità di “non sapere”. “Pensieri senza pensatore” sono i randagi portatori di verità che per Bion ci arrivano dalla periferia o dall’interno del soma, dalla nebbia del presagito. E si trasformano in fenomeni mentali, dapprima prendendo la veste del sogno, dell’immagine, del mito, poi della narrazione, infine della teoria. De Angelis scopre che ce l’ha già dentro, la verità: essa è un “noumeno” che risiede altrove, in uno spazio mentale protetto dallo spazio e dal tempo, cui volendo si può accedere attraverso la pratica quotidiana del silenzio interiore suggerita da De Angelis.

E la verità, lì dentro, chi ce l’ha messa? Non è che per caso esista dentro tutti noi questo luogo protetto noto solo ai mistici e agli artisti, così originale e così fuori dal tempo che ci consente di sbirciare davvero “al di là” della temporalità, oltre o prima, in ogni caso fuori, dal Tempo? De Angelis accetta la sfida, fiducioso di poter accedere a quello spazio in cui trovare “lo scomparso”. Ma chi gli ha dato quella fiducia?

Nell’avventura può contare solo su di sé e lo fa contro ogni evidenza, dal momento che a quarant’anni non ha concluso granché nella vita: “io sono l’uomo senza passato”, dice infatti di sé.

Armato di tutte le sue difese – diniego, formazione reattiva, delirio (e il delirio gli concede, come asserì Freud, il dono felice della teoria), intellettualizzazione, razionalizzazione, sublimazione – affronta dunque con la mente il problema della Morte… e non è un caso che la sua vita ricominci a girare, non è un caso che si innamori e cominci a pensare al matrimonio.

Solo quando impari a confrontarti con la morte, infatti, puoi affrontare la vita. Se non lo fai mai rimarrai prigioniero della paura, che ti indurrà alla prigionia di una “vita non vissuta”.

La prima volta è nell’infanzia, è quasi più la paura della vita che quella della morte. O viceversa?

… Poi accade in adolescenza, quando si comincia a capire che il lutto è quello per il nostro Sé bambino, a quello ne seguiranno molti altri. Solo questa scoperta è propedeutica a quella “seconda nascita” che è la giovinezza, in cui a debuttare siamo noi, con la nostra identità.

Purtroppo sono tanti e ubiquitari gli evitamenti che la società odierna ci offre per fuggircene a Samarcanda. Il nostro si confronta anche con essi: quali rimedi alla Morte propone la nostra società? Negazione del problema, fuga maniacale in piccoli quotidiani paradisi artificiali, somatizzazione, non incominciare mai a vivere, poi le finte eternità della fama, del successo, del salutismo, della chirurgia estetica, le finte eternità offerte dalla scienza… tutti rimedi falsi. Assai diffuso è poi il metodo di mandare avanti nel mondo, al posto nostro, una specie di “avatar” che dica, pensi, produca ciò che il mondo vuole venga detto, pensato, prodotto: è il problema dell’autenticità, anche di quella artistica, e della “missione nella vita” di cui discutono De Angelis e il regista Bonci. “Se si vuole seguire la strada solitaria della ricerca di un’immortalità che vada al di là della socio-cultura dominante, l’unico modo è quello di porsi talmente al di là e lontani delle idee dominanti da collocarsi in uno spazio futuro che resisterà alla distruzione e all’oblio che la società dominante crea attorno a chi non è omogeneizzato! Un pensiero immortale, che sopravviva al di là del nostro piccolo universo vivente, per contribuire alla costruzione dell’eternità”.

Ma non c’è scampo, tutti i compagni di viaggio di de Angelis nel romanzo cadono, prima o poi,  vittime del tritacarne della cultura attuale. Eleonora Cancelli, per esempio, raccoglie tutta la sua identità nella vuota etichetta di “produttrice, promoter, wedding planner”, ruba portafogli non sapendo fare altro: prende cioè “il buono che c’è” dagli altri, poiché sa di non saperlo produrre autonomamente, autosvalutata e svilita nella sua dignità come segretamente si sente. Non osa nemmeno darsi un progetto futuro, vittima com’è della “presentificazione” cui ci sospinge la società liquida denunciata per primo da Zygmunt Bauman. Il direttore dell’hotel Flacidia, vittima della sua accidia e del suo “tedium vitae”, è anch’egli capace solo di estorcere e non di creare. Il prof. Vincenzi è pronto a tradire i suoi studi e il suo migliore allievo alla prima profferta che solleciti la sua avidità. Ma anche il maligno psicoanalista Murex, figura esemplare, che ha tutti gli strumenti intellettuali per non cadere nella vita falsa, preferisce “la via breve” e si trova ad uccidere per il denaro e il prestigio, tradendo così quella missione veritativa che probabilmente dava un senso alla sua vita da giovane. Collocato nella filiera dei “traditori di se stessi”, non riesce ad accedere, com’è invece proprio delle grandi figure della fiction o della storia aventi analogo ruolo – si veda Giuda Iscariota- alla dimensione di una grandiosità tragica. Rimanere confinato nella meschinità, non soffre nemmeno e non si fa domande: d’altronde, per accedere alla verità occorre accettar di soffrire. Un saggio ebbe a ribadire che non è soltanto sopportando, bensì patendo il dolore si può evolvere e trasformarsi come esseri pienamente umani. Il dolore ha un senso, serve, ha dignità: “Il dolore non è nemico della gioia! Anzi, ci rende più forti e profondi”, esclama De Angelis”. Nell’imperativo del godimento, la nostra società propone invece l’ebbrezza di una spasmodica ricerca della felicità per tutelarsi dall’angoscia di una morte tanto più pressante quanto più denegata. I clown hanno sempre qualcosa di inquietante, dietro il loro sorriso dipinto: alcuni nascondono la tristezza del Pierrot, altri l’angoscia soverchiante, portatrice di morte, dell’ “It” di Stephen King. Murex dunque non ce la fa, forse segretamente si sente all’altezza, non si sente nemmeno “vero”: un “vero” psicoanalista, un “vero” uomo. D’altronde, il grande Donald Winnicott disse che o una vita è creativa e generativa, o non è vita. Ciò da cui tutti fuggiamo è dunque il nostro stesso vuoto e la commedia che allestiamo è per nascondere la verità del nostro mancare a noi stessi. Tutti i compagni di viaggio di De Angelis patiscono il medesimo male, sono simulacri di uomini che hanno perso per strada il coraggio, oppure non l’hanno mai avuto.

Ci vuole una tragedia, un’interruzione e qualcuno che sia pronto a far della crisi una crisalide, persino di una morte un’occasione di rinascita, per riportare un po’ di dignità tra le macerie di un senso di sé  perduto in questa società della pusillanimità e dalla paura.

Nella sua impietosa disamina De Angelis non risparmia né la Storia, riletta in termini di lotta di classe e ideologia, né l’approdo miserevole del turbocapitalismo che tutto consuma e tutto svaluta, svuotando di senso non solo la dimensione metafisica, ma anche quella fisica, “il tempo vissuto nel Tempo” dall’uomo. Questo sistema è, a guisa di Cronos, il vero mostro divoratore di ogni suo oggetto, creato al solo scopo d’esser consumato per via della sua obsolescenza programmata e svalutato in un perverso gioco di retroazioni in cui il prodotto senza valore, destinato a scadere, nutre un uomo svalutato, anche lui “vuoto a perdere”.

Il nostro si lancia poi, forte delle due lauree di cui la prima è in paleontologia e la seconda in filosofia, in una “metafisica scientifica” sgorgata dagli abissi della sua mente che risulta coerente, lucida, ardita sull’origine, il senso, il destino di quel mistero chiamato uomo.

Non manca neppure, all’indomani della soluzione teorica dell’”enigma del tempo”, un “vademecum per coraggiosi”, cioè per coloro che abbiano l’ardire di affrontare con tenacia la verità.

In esso tralucono i saperi dei santi, dei profeti, dei testi sapienziali, delle scoperte della scienza. Più di tutto a risplendere è il miracoloso buon senso delle persone “sufficientemente sane”, tanto  da voler custodire in sé e tutelare nel mondo i valori preziosi dell’umanità. Come a dire che solo attrezzati con il meglio cui la coscienza di sé dell’uomo abbia avuto accesso nella Storia e soltanto affratellati a qualcuno che davvero voglia il bene dell’umanità si possono affrontare i tempi di oggi.

Di Alessia Vignali per ComeDonChisciotte.org

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