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C'E' POCO DA FESTEGGIARE: IL VERO VALORE E' IL TEMPO

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A cura di Davide
Il 4 Maggio 2006
71 Views

blankDI MASSIMO FINI

Il lavoro, di cui si è testè celebrata la Festa in pompa magna, è uno dei valori più importanti della società moderna, se non addirittura il principale visto che la nostra Costituzione si apre, al primo articolo, con l’affermazione solenne: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Ma non è stato sempre così. In epoca preindustriale il lavoro era se non proprio un disvalore quantomeno per dirla con San Paolo, “uno spiacevole sudore della fronte”. In altre culture il lavoro non è mai stato un valore e in alcune, quelle che si sono salvate dall’assalto della nostra economia, non lo è mai diventato.
In Europa il lavoro assurge a valore solo con la Rivoluzione industriale. Sia per i liberali che per i marxisti. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stakanov è un eroe dell’Unione Sovietica) per i liberal-liberisti è quel fattore che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plusvalore”. In precedenza il lavoro non è un valore. In epoca feudale e medioevale è nobile chi non lavora e l’artigiano e il contadino lavorano solo per quanto gli basta, il resto è vita. Non che il contadino e l’artigiano medioevale non amino il loro mestiere – certamente lo amano di più, perchè maggiormente personale e creativo dell’odierno operaio industriale o dell’impiegato – ma non sono disposti a sacrificargli più di tanto del loro tempo. Perchè per quella gente il vero valore è appunto, “il tempo”. E, una volta assicurato il fabbisogno essenziale, il tempo va usato per vivere, non per accumulare altro lavoro. E quindi ricchezza. Anche a quegli uomini e a quelle donne piaceva, com’è sempre stato da che mondo è mondo, la ricchezza, ma a nessuno era mai passato per la testa che la si dovesse fare lavorando e non piuttosto con un colpo alla Ruota della Fortuna o mettendosi in caccia di qualche tesoro.

Come notano Max Weber e Werner Somabart la ricchezza attraverso il lavoro è un concetto, inaudito, che si afferma con l’avvento di quella classe doverista, metodica, calcolatrice, razionalizzatrice, punitrice e autopunitrice, autolestionista e masochista che è la borghesia e che venne poi proprio, per mimesi, dal proletariato e dalle filosofie ad esso collegate. Con la Rivoluzione industriale cambia anche il modo di concepire, di pensare e di sentire il lavoratore. Il signore, il maestro artigiano, il padrone della bottega non considerava i dipendenti una merce che si può vendere e comprare e nè essi si sentono tali. Il feudatario può considerare il servo casato una sua proprietà, ma sempre come una persona non come cosa, oggetto, merce. L’attività del dipendente è incorporata nella sua persona e non ne può essere scissa. Oggi invece il dovere e il lavoratore sono una merce come un’altra, tanto che esiste un “mercato del lavoro” così come c’è un mercato del bestiame o dei latticini o dell’abbigliamento o dei “prodotti derivati” o di qualsiasi altra cosa (per mascherare un po’ la mercificazione i lavoratori vengono oggi ipocritamente chiamati “risorse”. Ma se sono tali come mai ce ne si libera così volentieri?).

Se il lavoro è il valore massimo, la disoccupazione – che in epoca preindustriale non esisteva perchè ad ogni nucleo familiare era assicurato il proprio, sia pur limitato, spazio vitale – è il suo contraltare negativo, la disperazione, l’orrore. Però oggi nelle società sviluppate ci sono milioni di disoccupati che, benchè tali, hanno di che nutrirsi, vestire, abitare, sia pur modestamente. Poter vivere senza lavorare – com’è il caso di questi disoccupati – è sempre stato il sogno dell’uomo. Almeno fino a quando ha avuto la testa. Invece costoro, immersi in una società opulenta, soffrono una drammatica frustrazione e si sentono umiliati e monchi perchè non possono accedere ai beni voluttuari che gli altri posseggono. Ma basterebbe un’inversione concettuale, come quando invece che nuotare controcorrente la si asseconda e capirebbero che sono loro i veri ricchi, perchè hanno a disposizione il bene più prezioso, proprio quello che agli altri, gli invidiati, coloro che lavorano, penosamente manca: il tempo. Mi ha sempre fatto sorridere che noi, il Primo Maggio, si celebri allegramente la Festa della nostra schiavitù. E non mi pare privo di un significato su cui forse varrebbe la pena riflettere che la Festa di questo valore importantissimo e decisivo, qual’è oggi considerato il lavoro, si celebri facendo il contrario: non lavorando.

Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it/
Uscito su “Il gazzettino” il 03/05/2006

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