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La Redazione

 

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Architettare la Paranoia

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A cura di Redazione CDC
Il 26 Dicembre 2020
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architettare la paranoia

Di Pier.Cumgranosalis.radicicomuni.org

Quando visito una nuova città o un paese, camminando, amo andare in cerca di un panificio, sono ghiotto dei prodotti del forno e non esiste città che io ami di cui non ami i forni e vice versa non potrei mai amare una cittadina dove non si trovino del buon pane o dei dolcetti. Subito dopo cerco un piccolo angolo tranquillo o anche una panchina o un bel muretto al margine di una piazza o di un vicolo in cui fare colazione, possibilmente con una fonte di acqua fresca nelle vicinanze.

Credo che in questo approccio si possano riassumere milioni di primi incontri con le cittadine del Mediterraneo: assaggiare insieme al sapore semplice della quotidianità un po’ dello spirito del luogo, mentre architetture antiche o più spesso (e con non meno dignità) vecchie, offrono un appoggio per riposarsi. Ciò che è più importante, offrono tempo, tempo da perdere e da trovare poiché permettono di fermarsi e quindi sedimentarsi un po’ nell’aria del posto che diventa per questo un po’ nostro, dandoci l’occasione per appartenere, ci insegnano l’appartenenza che ci definisce.

Ma, ahimè, questo rito, come tanti altri analoghi, diventa sempre più inopportuno ed è così che diventa un gesto di resistenza quello di riappropriarsi delle superfici pubbliche che a loro volta diventano sempre più irte di spuntoni, spioventi, strette, recintate, vuote di panchine perché fatte sparire o ridotte ad assurdi poggia-fondoschiena verticali come in certe fermate dell’autobus.

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Ciò che accade oggi e che sta accadendo da alcuni anni è che il mondo che il viandante incontra, come anche il cittadino nelle sue incombenze quotidiane, è un mondo che gli uomini hanno costruito con le architetture della paranoia. Paesaggi urbani nei quali è sempre meno consentito fermarsi, in cui l’abitudine ad attraversare il luogo pubblico, invece che fermarsi a viverlo, si è già radicata abbastanza da destare qualche sospetto in chi scorgesse qualcuno attardarsi su un muretto o seduto in un aiuola.

Così l’uomo rifunzionalizza i suoi spazi affinché le interazioni dell’individuo con il suo habitat siano sterilizzate, siano le meno possibili produttrici di una cultura materica e dell’incontro, siano un luogo di transito e di allontanamento, un po’ come si pensa di fare talvolta installando orrendi dissuasori per piccioni sui cornicioni. Un uomo che sembra così affermare: “Non so-stare” e davvero non sappiamo se si riferisca più al suo prossimo o se inconsciamente rappresenti a se stesso il fallimento del costume di abitare un posto.

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La dimensione del pubblico assume così la forma perfezionata del non-luogo, spazio del transito perpetuo o dell’attesa che si trasforma in disagio, area adatta a canalizzare i fluidi più che a permettere l’incontro delle vite e l’intreccio delle storie.

Nel 1994 Steven Flusty scriveva “Costruire la Paranoia: la proliferazione dello spazio di interdizione e l’erosione della giustizia spaziale”1, un testo che già prendeva coscienza della deriva delle architetture aperte al pubblico e ne analizza la ridefinizione da spazio della eterogeneità (quella eterogeneità che è espressione di cultura materica e sociale degli spazi) a spazio della omogeneità dell’identico in chiave di sorveglianza totale e interdizione.
Un prezioso lavoro di “documentazione e critica di intensificazione delle reazioni alle crescenti paure urbane”, di cui vorrei ripercorrere in maniera sintetica i punti salienti negli sviluppi della società dei succesivi 25 anni di crescente paranoia sociale e in quest’ultimo annus horribilis del grande terrore dell’altro come icona del male, del contagioso incognito.

L’evoluzione e la trasmissione di culture urbane tradizionalmente passa per le interazioni comunitarie negli spazi pubblici accessibili.
Le strade, i vicoli, le piazze, le scalinate, le calli, i parchi si sono adattati o sono stati espressamente concepiti per molteplici usi da parte di ampi strati della popolazione, il che non ha determinato un’anarchizzazione di questi spazi, anzi, il costante dialogo fra usi più o meno leciti e graditi e divieti come quello di praticare determinati giochi nelle vie è parte stessa della cultura del luogo, poiché sono gli stessi abitatori e fruitori del paesaggio a determinare le regole e a esercitare una funzione di sorveglianza.

Fusty si concentra sulla Los Angeles degli anni 90 e in essa rintraccia la progressiva interdizione agli spazi comuni che diventano il ricettacolo sempre più angusto in cui trovano rifugio gli emarginati, i disperati, i delinquenti e i dissidenti, spinti dal crescente sentimento di belligeranza all’interno della società.

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Chi sono invece gli emarginati di oggi e quali sono le forme silenti del controllo, integrate nelle architetture urbane?

Purtroppo la risposta rischia di essere piuttosto banale: ognuno è il potenziale dissidente, ognuno il potenziale emarginato: nelle società accelerate e spaesate, istigate alla costante performance sociale e indotte dal conformismo diffuso al culto dell’uguale, chi cerca di sottrarsi al flusso della modernità liquida, chi cerca di incrostarsi ad un luogo, stringersi attorno a un’idea di incontro fuori dalle logiche del commercio o voglia produrre una cultura dall’incontro con l’altro in maniera diversa da quella mediata da qualche sostanza all’ora dell’aperitivo, si espone al rischio dell’ostracizzazione.

L’architettura ostile, nata con l’intento di rendere la permanenza sgradita ai senzatetto, ha finito per rivolgersi potenzialmente ad ognuno di noi.
Mentre i luoghi dove interfacciarsi con la macchina diventano più accoglienti, come quei caffè in cui troviamo a disposizione le prese per ricaricare il nostro “dispositivo” e il wi-fi gratuito, i luoghi pubblici vengono ridisegnati impoveriti delle strutture dell’incontro.

Nel mondo fino a ieri abbiamo assistito, anche nelle città dei conviviali Paesi del Mediterraneo, alla comparsa di tutta una serie di subdole tecniche di interdizione dei luoghi, tipici esempi sono il proliferare di spuntoni piramidali sulle mensole dei palazzi, sulle gradinate e sui sagrati, sui gradini davanti alle vetrine delle vie più alla moda delle città, accompagnati da ringhiere di tutte le misure sui muretti e a tutela di proprietà private e, ciò che più offende, di terreni o edifici pubblici, una volta a diuturna disposizione della collettività.
Le panchine tradizionali sono andate via via scomparendo o hanno lasciato il posto a nuove concezioni del sedile pubblico, dalle forme scomode e scivolose, dove il design moderno incontra l’esigenza dell’ente pubblico che esprime la sua autorità vietando di stendersi o di stare comodi, per dissuadere, proprio come i piccioni, certe categorie di persone a “bivaccare” sulla pubblica piazza o nelle stazioni.
Ovunque ce ne sia stata l’occasione, spesso senza alcuna necessità sono comparsi tornelli a contingentare il flusso delle particelle del liquido sociale mentre per quanto riguarda le aiuole, delimitate anch’esse e relegate a mero orpello, vige la proibizione allo stesso tempo di sedersi sull’erba come quella di coltivarle quanto quella ai cani di imbrattarle.

Per stimolare la compulsione all’acquisto, se mai ce ne fosse bisogno, ogni anno nuove fontane vengono chiuse e diventano secche a tempo indeterminato e i bagni pubblici sopravvivono solo come rare vestigia del vecchio mondo, così da abituare le persone a pagare per soddisfare i propri bisogni più elementari. Da quest’anno si è riusciti anche con il più fondamentale bisogno ovvero quello di respirare, anche se per far sì che ciò accadesse si è modificato ontologicamente il paesaggio caricando il mondo intero col significato di potenziale luogo del contagio, il che come vedremo ha aperto la breccia di forme incredibilmente più pervasive della semplice interdizione.

Sono anche comparsi ovunque gli indiscreti strumenti che sono occhio e memoria del moderno Panopticon diffuso e decentralizzato del controllo totale: le telecamere. Grazie alla certezza o ancor peggio al dubbio di essere sottoposti ad una costante osservazione ed esposti ad un qualche tipo di sanzione o di repressione, la grande maggioranza degli individui esercita su se stessa una forma feroce di autocontrollo e si abitua ad obbedire ad ordini sottintesi, a misure più repressive di quelle che il Potere Costituito oserebbe imporgli, poiché esso è certo di ottenere il massimo risultato limitandosi a suggerire le forme dell’obbedienza e della repressione, tratteggiando i contorni sfumati del Lecito cosicchè, per orientarsi nell’indeterminato ed arginare il senso di smarrimento, l’individuo si rintani in confini molto più angusti di quelli che gli sarebbero concessi, pur di poter gestire la paura sociale di sbagliare e di non perdere il riconoscimento della collettività.

La diffusione di “misure di sicurezza” è alimentata e giustificata dall’accresciuta percezione di potenziali “minacce”.
Ma cosa siamo arrivati a considerare una minaccia e quale costruzione culturale si fa del concetto di rischio?
Ci siamo abituati a tal punto alle misure di proibizione silente e di sorveglianza da rendere accettabili le più pervasive forme di coercizione che, applicate al paesaggio urbano e alle infrastrutture di servizi, invalidano in parte o del tutto il significato e la funzione dei luoghi. Si creano così mondi a prova di imbecilli, con parapetti orribili su antichi muretti, per non sporgersi, e balaustre intorno ai monumenti per non deturparli (né goderne).
Pali, recinzioni, spartitraffico, gli arredi per sedersi vengono rimossi o sostituiti con altri più scomodi o con le sedute opposte così da scoraggiare il dialogo, dissuasori vengono applicati su tutte le altre superfici che potevano servire allo scopo. Tutte misure che hanno come fine quello di contingentare o limitare la permanenza in un’area o di reindirizzarla verso un posto deputato al consumo o alla consumazione.

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Tutte queste misure vengono applicate, soprattutto laddove la minaccia sia la convivenza per il “più ricco” con il “più povero”, anche in quelle aree soggette ad un processo di gentrificazione, come spesso sono i centri storici riqualificati, dove gli spazi pubblici vengono resi sempre meno disponibili e più inutilizzabili, così risultando in un aumento delle disuguaglianze spaziali e determinando una spinta di alcune categorie di persone verso luoghi in cui abbiano vita più facile.

Fusty elenca 5 categorie dello stato di insicurezza prodotto dai luoghi.

Il primo è la segretezza costituita dalle vetrate scure, dalle barriere visive che caratterizzano i tanti edifici dedicati agli uffici e alle istituzioni.

Poi ci sono quei luoghi “scivolosi”, dall’acceso sfuggente, dissimulati da false piste, vie d’accesso confuse e svianti ed ingressi defilati.

Altra categoria è quella dei luoghi caratterizzati dal rigido confine: l’accesso ad essi è del tutto interdetto da muri, inferriate, recinzioni, cancelli ed al massimo li si può osservare dall’esterno anche qualora facciano parte di un patrimonio pubblico.

Spinosi si rivelano essere tutti quei luoghi il cui spazio non può essere occupato in maniera confortevole, con quegli accorgimenti che impediscono di fruire del luogo per un tempo prolungato, impedendo di sedere, tagliando gli alberi in zone assolate o adoperandosi per rendere la permanenza praticamente insopportabile.

Infine ci sono spazi che rendono nervosi perché sottoposti ad una sorveglianza costante per tutta la durata della permanenza.

A vari livelli e nelle varie combinazioni questi elementi sono diventati pervasivi nei panorami urbani.

E con l’avvento dell’epoca della pandemia, qual è stato l’approccio ai luoghi nell’era dell’interdizione?

Ancora una volta ed in proporzioni senza precedenti si è fatto largo uso della manipolazione dei luoghi sociali per riorientare il carattere ed insegnare un metodo.
Il metodo è quello della paura sociale, un terrore del diverso senza distinzioni di estrazione sociale, di censo, di sesso, di età, di cultura: l’alterità è in questa fase storica la sorgente inestinguibile di ogni male, poichè è rappresentata come ricettacolo inarrestabile del contagio, pertanto l’imperativo per la gestione dei luoghi è diventato la sterilizzazione (delle superfici e delle interazioni), una vita in assenza di contatto, dunque il distanziamento.
Ecco che senza alcun pudore né riguardo, in men che non si dica, nei luoghi aperti al pubblico sono state rimosse le panchine e gli altri arredi o sono stati transennati. Nelle stazioni ferroviarie sono state bandite le sale d’aspetto e sono comparsi ovunque ridicoli segnaposti distanziati, barriere in plexiglass, sono stati tracciati i percorsi obbligati per scongiurare la minaccia peggiore di tutte: l’incontro.

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I luoghi sono diventati scivolosi per antonomasia, cosicchè il fluido fatto di umani che vi transita non abbia alcun appiglio per fermarsi, per restare, per addensarsi. Nuove forme di contingentamento, di interdizione e nuove condizioni di accesso sono state proposte ed imposte ed è stato necessario finanche circoscrivere lo spazio personale con le maschere facciali. Queste sono il reale prolungamento della nuova ontologia dei luoghi pubblici come infrastruttura sugli individui, con la funzione di condizione, soddisfatta la quale i luoghi restano fruibili e dunque esse hanno funzione di recinto mobile imposto sulla persona stessa o persino di dissuasore.
Ora più che mai nei luoghi non ci si può fermare ed essi non sono più deputati ad un uso condiviso e all’usanza della condivisione, al contrario persino l’aria che vi si respira allo stesso momento deve essere separata per alimentare l’illusione che ognuno realizzi attorno a sè una bolla e non scambi materia né energia con il sistema nel quale è immerso e ad ogni contatto con qualunque cosa si suggeriscono i modi per rimarcare un distacco, tramite il gesto apotropaico della sterilizzazione delle mani o quello istituzionale della sanificazione dei luoghi.

L’unica forma di cultura permessa che abbia luogo nell’emergenza sanitaria è quella nuova forma di buona educazione socialmente accettabile, per la quale ognuno deve provvedere a scongiurare il contagio dell’altro e che maschera quella subdola ipocrisia che è la paura di essere vittima del contagio in prima persona.

Ciò che già riscontrava Fusty è che esacerbare le istanze paranoiche di maggior sicurezza, porta alla disgregazione delle comunità in agglomerati di proprietà private fortificate. Si tratta di un processo in fase avanzata anche nella nostra terra, dove ancora fino a pochi anni fa era abitudine lasciare la proverbiale chiave nella porta di casa e dove le strade, le piazze, i cortili aperti erano le naturali propaggini delle abitazioni ed in quei luoghi pubblici si svolgeva la maggior parte delle attività quotidiane sia quelle degli artigiani e dei commercianti che quelle domestiche. Necessariamente si alimentavano fitti scambi di relazioni, tanto che sarebbe stato inconcepibile che potesse essere proibito svolgere tutte le proprie attività, per tutto il tempo desiderato e a proprio agio sulla strada e nella piazza.

Infatti le persone sono state oggetto di una vasta e duratura opera congiunta di persuasione e dissuasione, con l’introduzione delle televisioni in ogni casa e l’imborghesimento degli spazi e con un’architettura della paranoia dello spazio pubblico.
Abbiamo poi assistito per un’intera decade alla diffusione su vasta scala dei dispositivi che ci permettono di collegarci alla rete in ogni momento e pressochè ovunque, ed essi, portati nello spazio pubblico, hanno impiegato diversamente il nostro tempo e sottratto la nostra attenzione all’ambiente, rendendo superfluo chiedere indicazioni o aiuto ad un estraneo; si sono sostituiti allo spazio vuoto e creativo della noia, ci hanno talvolta usurpato l’intimità della solitudine, che riporta con più intensità nel consesso sociale.
Quegli stessi apparecchi ci sorvegliano costantemente e si è cominciato a pensare di usarli esplicitamente come sistemi di tracciamento e distanziamento fisico. Essi stanno diventando, se noi lo permetteremo, i nostri guardiani digitali, stanno iniziando a gestire il nostro spazio, riorientando efficaciemente i nostri comportamenti secondo volontà eterodirette.
Ciò che è peggio questa tecnologia è ora in grado di esiliarci dallo spazio pubblico e rinchiuderci, con la forza del condizionamento costante, nello spazio del privato, provvedendo insieme ad alimentare e blandire le nostre ansie ed inquietudini.
Il processo è ora in una fase avanzata e quando sarà completo il pubblico si sarà ingerito a tal punto nella sfera privata per mezzo della macchina, che non sarà più accettabile il concetto di privacy o l’idea che esista un tempo che ci appartiene, separato e distinto dalle ore e dal luogo deputati al lavoro.

Come sappiamo, essendo stato preparato il terreno per decenni in questo senso, si è potuto già imporre il confinamento entro le mura domestiche a tutta la popolazione, con un grado di accettazione quasi totale.

Questo ritengo sia un passaggio fondamentale.

Ciò che di fatto si insegna alle persone ridefinendo gli spazi del loro habitat è un metodo e il metodo in questione è l’interdizione. Una pratica di proibizione degli spazi, la censura di precise idee, lo stigma su alcuni comportamenti, su certe interazioni, ritenute del tutto accettabili nelle civiltà tradizionali occidentali e oggi del tutto misconosciute. Tutto ciò al fine di indurre la totalità ed ogni singolo a disciplinarsi con forme via via più stringenti di autocontrollo dei comportamenti individuali e delle interazioni collettive all’interno degli ambienti pubblici.

Allora cosa occorrerebbe fare per riappropriarsi dei luoghi artatamente manipolati?
Bisogna riscoprire il filo sepolto della tradizione dei gesti e delle mani e dei corpi di cui ancora le nostre città portano i segni.
Mi capita spesso soprattutto visitando le città del sud dell’Europa, tutte lontane parenti sulle rive dello stesso mare, di trovare tanti locali abbandonati che fino a pochi decenni fa non avevano alcun pudore di servire allo scopo per il quale erano stati costruiti: erano stalle, officine, botteghe artigiane. Dietro alcuni vecchi portoni si trovano ancora gli attrezzi dei mestieri dimenticati. Le città erano la sede di molte attività produttive, in esse si vendevano e si allevavano animali, i mercati rionali erano la forma prevalente di acquisto dei beni di consumo. I cittadini del passato non avevano timore di fare sporco o rumore perchè si prendevano la responsabilità del luogo, tenendolo pulito, rimettendolo in ordine, vivendolo e vigilando sui suoi abitanti e sui forestieri. Anche per questo non servivano (nè sarebbero state efficaci) le strutture artificiali della proibizione e del controllo.

Oggi occorre reclamare quegli spazi, riprendere in mano il retaggio millenario dell’artigianato e del commercio come vocazione, non come impiego e assumere il ruolo delle isole nella corrente: rallentare il flusso accelerato e offrire l’occasione di parlare e di offrire un bicchiere di vino a chi si ferma.
E colui che è di passaggio ha ugualmente la grande responsabilità di attardarsi, di curiosare, di fare domande e di avere il coraggio di rimproverare gli abitanti di un luogo trascurato e abbandonato al dilagare di attività sterilizzate e omologate come i negozi delle grandi catene.

Abbiamo assoluto bisogno di renderci ridicoli, come scriveva Eliade2:
Mi sembra che il ridicolo sia l’elemento dinamico, creatore e nuovo, presente in ogni coscienza che intenda essere viva e che sperimenti dal vivo. […] Il ridicolo è una formula lanciata dagli uomini contro la sincerità. Non esiste atto umano sincero che non sia ridicolo. E ciò che l’amore ha di veramente sublime è di essere riuscito a sopprimere il ridicolo tra due esseri, a sopprimere la censura applicata di riflesso alla loro sincerità.”
Ecco cosa occorre fare: bisogna ristabilire rapporti intimi con i nostri luoghi, essere capaci di amarli, sentire l’orgoglio di appartenere ad essi e prendersi la responsabilità di curarli, e riprendere coscienza del fatto che è chi li vive che ne gestisce e modifica le strutture in base a ciò che è necessario e non si può limitare ad essere utente della geografia disegnata da qualcun altro.

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1 Steven Fusty – Building Paranoia. The proliferation of interdiction space and the erosion of Spatial Justice. 1994

2 Mircea Eliade – Oceanografia. 1934

Di Pier.Cumgranosalis.radicicomuni.org

link fonte:  https://cumgranosalis.radicicomuni.org/architettare-la-paranoia/

21.12.2020

Scelto da Mer Curio per ComeDonChisciotte.org

Pubblicato da Jacopo Brogi, ComeDonChisciotte.org

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