9 GIUGNO: FELICITA' TRAGICA

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blankIL CUPIO DISSOLVI DI PACIFINTI E SINISTRI… E POSSIAMO RENDERNE MERITO A BERNOCCHI

DI FULVIO GRIMALDI
Mondocane Fuorilinea

Incominciamo con un bell’ossimoro: felicità tragica, volendo anche tragedia felice.

E’ quella che fiorisce nelle vittime delle bastonate quando riescono a colpire il bastonatore. Cosa
che, ovviamente, per Bertisconi, Menaguerra e Morgantini è sommamente diseducativo. Ma che si
radica anche negli analoghi sentimenti di qualche centinaio di generazioni passate per analoga
esperienza e di cui i successori attuali sono i felici portatori. Il cupio dissolvi l’ho visto quarant’anni
fa, di questi tempi, in Palestina, Guerra dei sei giorni. Uscito da Londra, dove Beatles, minigonne,
licenziosità varie e nordirlandesi in lotta mi avevano fatto sentire come un topo nel formaggio, sui
carri armati con la Olivetti 22 sulle ginocchia viaggiavo verso Sinai e Golan sentendomi un topo in
trappola: assistere ai presunti ricacciandi a mare che radevano al suolo l’habitat e la vita dei
palestinesi e ne cacciavano centinaia di migliaia ai confini del mondo, senza poter far altro che
riferirne, tra tagli astuti di censura militare, a qualcuno lontano che probabilmente non ci avrebbe
creduto. Pareva che quelle vittime non potessero ormai avere altro destino che quello di dissolversi
e uscire dalla storia, liquidati da una forza spietata che agiva nel nome di qualcosa di inconfutabile,
dio, nonché dall’inversione carnefici-vittime coltivata macchiavellicamente da chi era abituato da
millenni a sentirsi portatore di superiorità e verità. E, simultaneamente, il cupio dissolvi pareva
entrato nelle sinapsi inconscie di chi si esibiva da trionfatore e giustiziere dei torti subiti da tutt’altra
parte: era l’inesorabile l’autodissoluzione del mito di una nazione dal conclamato primato etico,
politico e sociale, in punta d’acciaio militarista e razzista del ricupero coloniale di popoli che
avevano iniziato il cammino del riscatto. Era l’assunzione da parte della vittima di un olocausto dei
principi e metodi dei suoi persecutori.
Ma i palestinesi, a un certo punto, tra le ceneri della dispersione e della soluzione finale dei rimasti,
avevano scoperto colori e calori di brace e li avevano alimentati con il soffio del vento che aveva
iniziato a spirare di continente in continente. Fine anni ’60, anni ’70, i migliori della nostra vita ( e
non perché, come si scrive su “Liberazione” e “manifesto”, perché gli anni di Berlinguer e Moro,
ma per tutt’il contrario), i migliori anche per i palestinesi assurti a fedayin. La felicità tragica l’ho
condivisa con questi fedayin adolescenti quando, appostati sulle rive del Giordano con il
Kalachnikov, per l’imboscata ai terminator con stella di Davide, ci guardavamo negli occhi e ci sorridevamo. Felicità, perché ci si ergeva contro il male, la morte, nel nome dell’umanità sofferente
passata, presente e futura, perché si apriva un varco di luce nel tunnel del “fine pena”, perché si
agiva di concerto, in solidarietà, zeppi d’amore. Tragica, perché tragico era il retroterra, perché la
vita risorgeva comunque da una tragedia in atto, perché si doveva morire e inevitabilmente uccidere
i singoli per la vita di tutti, perché, nella festa, un tarlo continuava a sussurrarti che la tragedia non
sarebbe finita.

Leggevo un cupio dissolvi, analogo ai due di cui sopra, nelle facce stiracchiate e nelle patetiche e
bislacche dichiarazioni di coloro che si erano creduti capipopolo e si sono ritrovati, il 9 giugno
2007, alle 17, in Piazza del Popolo, capicapannello. Volevano rampognare Bush e accarezzare
Prodi. Prendersela con il cavaliere dell’Apocalisse, ma far finta che il suo scudiero facesse il
filantropo da un’altra parte. Convincenti e credibili come il papa quando ammonisce i ricchi e
abbraccia Bush (vista la meravigliosa vignetta di Bush col panzerpapa: “La coppia di fatto”?).
Come non ipotizzare la fuga nell’Antartico dopo aver constatato, con l’evidenza di una tegola sul
naso, che, a forza di protervia delle chiacchiere e disastro delle azioni, a forza di biasimare il
mandante e risparmiare il sicario, si era rimasti in quattro, e nemmeno gatti: poliziotti, cronisti,
famigliari, portaborse, ostinati occupanti o intemerati auspicanti di strapuntini e poltrone? Mentre
da un paio di chilometri, oltre i caffè presidiati dal Kossiga imbandierato di nazisionismo, giungeva
il rombo di 150.000 (alla faccia del sabotaggio dello sfasciume detto “Trenitalia”, disposto dal
sempre più beriano ministro di polizia) marciatori della liberazione. Liberazione sia dal tiranno che
dal suo buffone di corte, sia dall’assassino che dal palo. Elementare, Watson. Liberazione dal
colonialismo della menzogna, dell’intimidazione, diffamazione, repressione. Liberazione dai
praticoni dell’equivoco, del millantato credito, del camaleontismo, dell’imbroglio, del bidone, del
ricatto. Quelli lì, imbalsamati nel disdoro a Piazza del Popolo. Compresi gli scaltri cerchiobottisti
delle due piazze il 9 ( diventato 90 per la paura di perdere il posto), divertenti a vederli squartati
come Montezuma dai cavalli di Cortez, con i piedi a Piazza del Popolo e aneliti verso il corteo.
Ecco, in quelli che in quel corteo si vedevano vindici della verità e della serietà, finalmente
vincenti, e anche rappresentanti dei milioni confinati nella parte del torto a sud e a nord
dell’equatore, c’era le felicità tragica che splendeva come un circuito elettrico tra i miei compagni
fedayin con il Kalachnikov, vindici di tutto quanto spetta all’uomo. C’è forse qualcosa che dà più
soddisfazione al sottoposto dell’aver fucilato, in questo caso politicamente e moralmente, il
sodomizzatore dei sottoposti? Dell’aver potuto strappare il vello di agnello al lupo (scusami, lupo!)
e averlo mostrato nudo a quelle 150.000 avanguardie di popolo e, al TG1, 2, 3, 4, 5 piacendo, alla
platea televisiva del globo terracqueo? Guardate che non esagero. Dai tempi della cacciata di Lama
dall’università, non era più successo. C’è un battaglione di traumatizzati da quel ’77 che stanno
stendendo vernice nera bipartisan sull’anno più nobile degli ultimi quattro decenni: hai visto mai
che si ripresenta? E riusciranno ancora a infiltrarlo, manipolarlo, provocarlo a un confronto armato
suicida, criminalizzarlo ed estinguerlo?

La parte tragica della faccenda è proprio quell’esito. E il contesto, ancora più scientificamente
repressivo e castrante, allestito dai padroni oggi. Con il concorso – e questa non è una gran novità
rispetto agli anni ’70 – di quei coadiuvanti che, ancora una volta, erano riusciti a farci credere che
sarebbero stati dalla nostra parte, al governo dei capitalisti avrebbero messo la mordacchia, per le
guerre si sarebbe dovuto passare sopra i cadaveri delle loro mamme, e se solo fossimo stati zitti e
del tutto nonviolenti, avrebbero sistemato ogni cosa. Una buona fetta di tragedia sta in questo. E in
chi ci ha bruciato, una volta di più, pezzi di cuore e di cervello. Una classe politica monnezza, con
per cupola esterna i delinquenti di Tel Aviv e Washington e, per quella interna, l’uomo della
Goldman Sachs, quello della confindustria e quello del Vaticano. Una classe ormai
pasolinianamente omologa, brigantesca, corrotta dal primo all’ultimo, dove il più pulito ha la rogna
e va a braccetto dell’avversario appestato (vedi Berlusconi che soccorre il D’Alema sospettato di
fondi brasiliani e il bombarolo di Belgrado che corrisponde sostenendo il compare contro i fischi dei giusti), dove oggi la massima preoccupazione di questi lestofanti è soffocare, a colpi ipocriti di
privacy, gli ultimi sprazzi deontologici dei giornalisti. La parte più formidabile in commedia, però,
va riconosciuta a Bertinotti. E’ forse l’unico, tra i rottami dell’associazione a truffare, a godersela
senza ombre di tragico. Catturato nel 1993 quanto era sopravvissuto al craxismo-occhettismo per un
futuro mondo migliore in questo paese, lucidamente, scientificamente ne ha perseguito la
distruzione, passo passo, di arretramento in arretramento (ovviamente novista), fino a regalare ai
padroni la disintegrazione dell’ultimo ostacolo al trionfo dell’agognato protocapitalismo tendente al
feudalesimo, magari attraverso una fase fascista. Ne ha avuto in cambio lo scranno del vigile nel
traffico di Montecitorio, macchina blù, frequentazioni vip, magari pruriginose, ovazioni da Azione
Giovani e Cielle, voli di Stato (legittimi?) alle nozze delle baronesse albioniche. Non ha sbagliato
una mossa. Chissà se l’arrampicata gli sarebbe riuscita così rapida e incontrastata senza il coro
panegiricista di quella brigata di femministe ginocratiche, ma devote al maschio capobranco,
giornaliste, parlamentari, che al confronto la guardia del corpo di Gheddafi è una covata di gattine.
Non è un film dell’orrore immaginarsi quote rosa con precedenti come Melandri, Armeni, ancella
nella stazione Cia di Giuliano Ferrara, Menapace-Menaguerra, Deiana, Sentinelli, Nocioni, Sereni,
Dominijanni, Turco, Sgrena, Azzaro, Finocchiaro… Signore alla Rice, Thatcher, Albright, Meir,
Merkel ne menerebbero vanto. Certo, i maschi della nostra classe politica non avrebbero nulla da
invidiargli. Forse, mi sia consentito l’infernale dubbio, è ancora più questione di classe che di
genere.

Ora c’è una corsa che sembra quella del cinodromo verso il coniglio rosso che alla Piazza del
Popolo ha detto marameo. Dalle Alpi al Lilibeo è un frastuono assordante che urla: sono io il
comunismo vero, giusto, onesto. Anzi, spesso si intrasente nel sottofondo un sottile ma convinto:
sono io il capo del nuovo comunismo, vero, corretto, eccetera. C’è di tutto. Prescindendo da quanto
cercano di rappezzare nel Palazzo i laceri reduci della ritirata di Russia, abbiamo tutto un bestiario
di corvi e capovaccai (avvoltoio della regione centrale) che astutamente si erano posti alla finestra
mentre nel palazzo dei notabili l’appartamentino di sinistra andava in rovina. Pronti a scendere in
picchiata sulle folle rimaste all’aperto. Cosa vi fanno pensare nomi come Folena, Tortorella, Salvi,
Occhetto, Novelli, Ruffolo, Spini, Veltri, Patta, Curzi, Salvato, o sigle come Punto Rosso, Network
delle comunità in movimento, Attac, Arci, Cgil, Uniti a sinistra, Per la sinistra, Leoncavallo, Essere
comunisti, Forum per la Sinistra, Forum per la sinistra europea-socialismo XXI, trotzkisti qua
trotzkisti là e chi più ci crede più ne metta? E’ l’ora dell’adunata e le trombe sono quasi più dei
convocati. Per tutti penso a un prototipo: accademico, autore prolifico, direttore di alcuni house
organ di vasta copertura geografica e di ridottissima copertura di lettori, sostenitore alla morte delle
rivoluzioni lontane e altrettanto dei Veltroni vicini che brindano al serial killer Simon Peres-Capo di
Stato, mentre riposano i piedi sul cuscinetto di voti dal Nostro graziosamente offertigli.
Chiamiamolo Lucky Baciagallina. Leader di comitati di solidarietà e però dichiara guerra a chi,
magari da quarant’anni e molto meglio, fa solidarietà con lo stesso interlocutore di là dal mare e
poi, visto il fallimento di questo assalto al cielo, fa una capriola e diventa spietato accusatore dello
stesso comitato per aver fatto la guerra a chi fa solidarietà. Con doppio salto carpiato si intrufola poi
nella stessa casa del concorrente già da obliterare e ricomincia un’altra scalata. Dal che si vede che
il modello Palazzo sa diffondersi fin negli slums della politica. Un virtuoso! Perciò occhio,
compagni, prima di farsi mettere cappelli intesta! Chè poi quel cappello te lo calano sugli occhi e
non vedi più niente e magari te lo cambiano in corsa e manco te ne accorgi che stai votando per il
campione italico di Olmert. Ma su, siamo buoni, non è detto che anche il più curvacelo e flessibile
non possa redimersi ritrovando una spina dorsale dritta e puntata nella direzione giusta. Che in ogni
caso – e questo nel nostro paese va sottolineato sempre – non è quella dell’ego.

In un’assemblea post-9 molta brava gente ha voluto riflettere sul cosa fare dei rottami sparsi della
sinistra, su cosa ricuperare e come utilizzarlo per costruire una barca che regga i marosi, anzi gli
tsunami, a venire. Idee, proposte, auspici, poca autocritica. Mi preme segnalare un intervento nel segno, in controtendenza, del ripartire “dall’alto”, anziché dal basso. Forse non s’intendeva
apertamente che i lavori sui rottami e sui territori non compromessi dovessero essere ordinati e
guidati dall’alto, magari di una cattedra, da gerarchie preesistenti e prestabilite. Forse andava
compreso che noialtri, avendo il perfetto controllo dello strumento “teoria”, la dovevamo far
scendere a pioggia benefica sulle masse da organizzare. In entrambi i casi opportuna risposta venne
dall’ intervento successivo che rovesciava l’apodittico assunto e riferiva quanto ne era venuto in
Rifondazione a lui e a tutti da un’impostazione del genere. Al catechismo precostituito, spesso
sclerotico più di un dinosauro nel Museo di Scienze Naturali, opponeva la sconfinata messe di
innovazione, invenzione, creazione che spumeggia nelle lotte di massa di questi anni, dai NoTav ai
NoDalMolin, da Serre ad Acerra, dai NoPonte ai NoMose, dai metalmeccanici fischianti e
scioperanti ai precari e pensionati marcianti e poi nei mille e mille gruppi, variamente organizzati e
denominati, che, incontaminati e irriducibili, sono cresciuti su tutto il territorio. Qui non è che si
voglia fare lottacontinuisticamente l’esaltazione dello spontaneismo. E’ che non essendoci né
partito, né lotta anticapitalista generalizzata, questo è quanto offre il convento. E non è poco. Perché
prendendosela con il tunnel in Val di Susa si è imparato a capire cosa il capitale fa all’ecosistema e
alla convivenza civile, opponendosi alla base degli sterminatori Usa a Vincenza, si è visto in faccia
la mostruosità dell’imperialismo e l’oscenità dei suoi corifei. La strada della lotta di classe
consapevole è aperta, tocca farla entrare nella rete di tutte le altre strade. Tocca farla partire da chi
aveva capito tutto del capitalismo/imperialismo e farla arrivare dove ci porta il cuore (per ridare
dignità al titolaccio di un pessimo libro). Non l’euro. Non la poltrona, E su questo, mi pare, che ci
tocca lavorare, con la demolizione della falsa informazione – terrorismo, estremismo, paura,
securitarismo – in prima linea.

Chi fa questo da quarant’anni (Piero, nella dedica sul libro ho scritto “da trent’anni insieme”.
Sbaglio: da quarant’anni) è Piero Bernocchi. E sono da qualche tempo i Cobas. Non faccio
l’agiografo alla Gagliardi per Bertisconi, sto ai fatti. Basta pensare a quanti hanno mantenuto gambe
salde, sguardo acuto, coerenza totale (e stupefacentemente pelo nero) dalla rivolta del ’68 in qua.
Basta pensare che quando, con il “governo amico” la sbracatura fu cieca e generale e il “manifesto”
bombardava chi aveva osato definire Damiano “amico dei padroni”, quando i più esagitati
propugnatori della nonviolenza, i più integerrimi apostoli del pacifismo, quelli della “scuola
pubblica e basta”, i più appassionati lottatori di classe si misero a nuotare nella corrente della
restaurazione sociale tipo ‘800 e di un colonialismo genocida, non c’erano che Cobas e cani sciolti
attorno al ragazzaccio smanierato Bernocchi che, temerariamente, aveva chiamato a raccolta una
possibile resistenza. Duecento alla celebrazione ciampian-bertisconiana dell’Italia in armi. Trecento
sotto Palazzo Chigi quando se la fece sotto e la mandò in Afghanistan anche chi aveva spergiurato
no all’imperialismo. Decine di migliaia in corteo contro l'”amico dei padroni”, per il
“manifesto”tanto iniquamente diffamato. E, via via, fino alla rotta tipo Stalingrado degli zombie di
Piazza del Popolo. C’erano anche Cremaschi, Turigliatto, Ferrando. Evviva. Ma, rispondete con
sincerità, se Bernocchi da solo non avesse retto, tra contumelie e irrisioni, quanti ci sarebbero stati,
quanti saremmo stati a iniziare davvero un nuovo ciclo? Fa tenerezza anche qui il “manifesto” che,
con perizia da funambolo, si è mantenuto in equilibro tra le due piazze, innamorato com’era di
Mussi e della sua rivoluzionaria scissione (ma poi, ohibò, Mussi non c’era neanche nella piazza dei
relitti). In equilibro, però vagamente squilibrato verso l’apoteosi che l’intruppamento dei tre o
quattro sinistri “radicali” del parlamento avrebbe dovuto celebrare in quella piazza.

Ma davvero pensavano quelli del “manifesto”, quelli dei partiti-cortocircuito “di lotta e di governo”,
che dopo aver rivoltato il programma dell’Unione come un guanto nel suo contrario, dopo essersi
stesi a zerbino davanti a Olmert, Bush e Montezemolo, con per politica solo l’occasionale mugugno
di Ferrero, costoro potessero raccogliere più gente di quante ce ne sta in nella sala d’attesa della
stazione di Sgurgola di sotto? Hanno tutti dato prova di grandissimo fiuto, di stretta sinergia con il
comune sentire del “popolo di sinistra”. Grande classe politica, grande categoria giornalistica!

Epperò ecco che, a sabato 9 giugno concluso, il “quotidiano comunista” ha saputo raddrizzare la
barra, cazzare la randa e prodigarsi in compiacimento per i vincenti e in irrisione dei perdenti.
Ottimo, che resti sulla buona strada. Possa succedere la stessa cosa a Salvatore Cannavò del
nascituro partito di “Sinistra Critica”, commendevole animatore della lavanda gastrica post-
bertinottiana. Ne ricordiamo gli entusiasmi smodati – e ferocemente censori nei confronti di chi
dissentiva – per i provocatori serbi di Otpor, prima grande prova di “rivoluzioni di velluto”, cioè di
colpi di Stato “di velluto” (si fa per dire) pianificati, diretti, finanziati da “sinistri critici” come
National Endowment for Democracy, Einstein Institute, Usaid, Open Society del sionista George
Soros e altre centrali della destabilizzazione imperialista di Stati non sottomessi. Se non ha rivisto
quel particolaruccio il discepolo di quell’altro confusionario ammazza-Milosevic di Livio Maitan,
c’è da preoccuparsi per i destini del gruppo che pure annovera il grande Turigliatto. Quanto al
“manifesto”, che tutti sosteniamo, chieda scusa a Piero Bernocchi. Noi gli diciamo grazie.

Fulvio Grimaldi
Mondocane Fuorilinea
14.06.2007

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