Di Alessio Guglielmini, instoria.it
Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere, e quindi di non essere fedele a nessun patto che non sia quello con il lettore
È in questo passaggio di un editoriale uscito sul Corriere della Sera, il 6 ottobre 1974, col titolo “Chiesa e Potere”, che prende vita il senso programmatico degli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, raccolta di articoli apparsi tra il 1973 e il 1975, principalmente sul Corriere, a cui vanno aggiunti documenti e integrazioni che nella nota introduttiva Pasolini affida alla ricostruzione del lettore.
È dunque il lettore il silenzioso protagonista degli Scritti corsari? Un lettore a cui Pasolini, in quanto intellettuale che non ha nulla da perdere, delega in piena coscienza la complessa analisi di alcuni dei temi più scottanti della politica e della società italiane della prima metà degli anni ’70 del Novecento
Innanzitutto, il fascismo, quello nuovo e quello vecchio. Pasolini delinea principalmente due trame lungo i suoi interventi. Il fascismo classico, quello del Ventennio, è sfociato direttamente nel regime democristiano, ideale continuatore di una politica accentratrice, paternalista, tutelare dell’ordine. Ma, ravvisando il tramonto di una DC sempre più amministratrice e burocratica – si veda in tal senso l’editoriale del 18 febbraio 1975, comparso sul Corriere con il titolo“Gli insostituibili Nixon italiani” – Pasolini reclama l’emergere di un nuovo fascismo, imperniato sulla forza totalizzante dell’edonismo consumistico. Una odierna e prossima dittatura, fondata sugli interessi capitalistici e sul dominio delle masse tramite le mode e le offertecommerciali, si preannuncia negli Scritti corsari come la vera egemonia a cui le forze tradizionali devonoadeguarsi.
Tra queste forze tradizionali si colloca chiaramente anche la Chiesa romana. Il Pasolini corsaro ne investiga spesso lo stato di salute, rinvenendo paradossalmente nella perdita di prestigio da parte del Vaticano una grande opportunità di rinascita. A ispirare questo pensiero è lo “storico discorsetto di Castelgandolfo”, tenuto da Paolo VI l’11 settembre del 1974. Circa dieci giorni dopo, l’articolo sul Corriere dal titolo “I dilemmi di un Papa, oggi” ripercorre le parole sincere, fin troppo sincere, del Pontefice in quel famoso “discorsetto”, derubricato come tale perché nessuno ha voluto dargli il peso che Pasolini gli ha, al contrario, assegnato.
Ma cosa ha detto Paolo VI quell’11 settembre? Che la Chiesa, citando Pasolini, “è stata superata dal mondo; che il ruolo della Chiesa è divenuto di colpo incerto e superfluo; che il Potere reale non ha più bisogno della Chiesa”. Pasolini, di fronte a tanta desolante consapevolezza, si ritrova quasi a tifare per la Chiesa, invocando che essa, in quanto organo millenario, trovi la forza di sopravvivere a una liquidazione così ingloriosa.
In che modo? Passando finalmente all’opposizione, ponendosi come guida di “tutti coloro che rifiutano il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante”. Il “marxista” Pasolini auspica qui una sorta di alleanza contro un nemico comune, a condizione che la Chiesa accetti di tornare alle origini e alla rivolta rispetto al potere. Un potere che del resto non la sostiene più: Pasolini, in altre occasioni e a titolo emblematico, cita l’irriverente caso dei jeans Jesus e del loro slogan: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”. Il regime democristiano, clerico-fascista, come lo chiama Pasolini, un tempo sarebbe intervenuto ad arginare, a censurare, mentre adesso è il Moloch edonistico e consumistico a imporre le sue regole destinate a uniformare le masse sotto un nuovo credo.
Neanche il fascismo del Ventennio, sostiene Pasolini, era riuscito a cambiare gli italiani, se non alcuni di essi; si trattava al limite di una vernice dietro alla quale la vitalità e la schietta essenza del popolo erano rimaste invariate. Questo nuovo fascismo, viceversa, va a toccare nell’intimo l’individuo, va ad annichilire ogni tipo di particolarismo culturale, dialettale, ancestrale.
È l’uniformazione, del resto, una delle prove lampanti circa il fatto che il nuovo sistema edonistico-consumistico abbia cancellato le differenze, esteriori e interiori, omologando le ambizioni di ceti e classi.
Uno dei passi più illuminanti, che apre peraltro la raccolta degli Scritti corsari, è incentrato sull’equivoco dei capelli lunghi. Il 7 gennaio 1973 Pasolini, sul Corriere, esamina l’evoluzione del suo rapporto con i “capelloni”. In precedenza, era dalla loro parte: i capelli lunghi nel ‘66-67 erano ancora un’apparizione, una novità, un linguaggio che funzionava in silenzio, attraverso la semplicità della mimica; il capello lungo non implicava un’adesione politica puntuale, rappresentava una ribellione antiborghese a tutto campo.
Poi i capelloni cominciarono a tramutarsi in emissari della sinistra e delle barricate studentesche del 1968. Ma cos’erano già diventati poco dopo, in seguito alla strage di piazza Fontana? Una mimesi dietro alla quale si nascondevano anche i provocatori neofascisti.
Proprio nella sovrapposizione della sottocultura di sinistra e di quella di destra, oltre l’apparenza fluente dei capelli lunghi, Pasolini rinviene l’imporsi di un equivoco Destra-Sinistra che è anche il termometro di una società confusa rispetto ai suoi segni identificativi e alle sue ideologie effettive.
Citare gli anni di piombo e le stragi, di Milano come di Brescia, come dell’Italicus, equivale ad aprire altre importanti finestre sulle riflessioni del Pasolini di Scritti corsari. Da una parte vige il rimpianto dell’intellettuale, che non si è preso la briga di dialogare con i giovani neofascisti. Sarebbe dovere suo, e degli altri uomini di pensiero, provare a entrare in contatto con queste figure incerte, ideologicamente ibride, che possono essere riportate sulla retta via prima che sia troppo tardi. Essi non sono nati fascisti: “forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza”, “un solo semplice incontro”, perché il loro destino cambiasse. È questo che Pasolini annota in una lettera aperta a Calvino, pubblicata l’8 luglio del 1974 su Paese Sera.
Citare quelle stragi per Pasolini è anche l’inizio di un serrato J’accuse, materializzatosi nel veemente articolo del 14 novembre 1974, sotto il titolo “Che cos’è questo golpe?”, sempre dalle pagine del Corriere. Qui Pasolini esordisce con un lapidario “Io so”. Ossia, io conosco i responsabili delle stragi, salvo non averne le prove. Prove che un intellettuale non può avere, mentre esse, inevitabilmente, potrebbero essere nella disponibilità di giornalisti e politici, insieme agli indizi.
Nel menzionare lo scandalo di Nixon, Pasolini chiude quel suo intervento evocando una soluzione di compromesso: ossia che i nomi dei responsabili vengano fatti dai minori responsabili di quegli eventi contro i maggiori responsabili. Questo, in definitiva, sarebbe “il vero colpo di Stato”, l’unico possibile all’interno di una nazione oramai spaccata in due.
L’ennesimo argomento di divisione affrontato dal Pasolini degli Scritti corsari è infine quello dell’aborto. Se su altre dispute solidarizza con Pannella, sull’aborto Pasolini si schiera a favore della vita, a qualsiasi costo e incondizionatamente. Il contributo di Pasolini è delicato, sotto ogni prospettiva possibile, in parte per via del dibattito che ne deriva con noti intellettuali dell’epoca: Eco, Bocca, Moravia, la Ginzburg, per citarne alcuni.
La difesa del feto è avvalorata da Pasolini anche attraverso gli studi della psicanalisi, da Freud a Ferenczi, nella ferma convinzione che la vita sussista già in forma di embrione: «Io so che in nessun altro fenomeno dell’esistenza c’è un altrettanto furibonda, totale, essenziale volontà di vita che nel feto. La sua ansia di attuare la propria potenzialità, ripercorrendo fulmineamente la storia del genere umano, ha qualcosa di irresistibile e perciò di assoluto e di gioioso. Anche se poi nasce un imbecille».
La polemica di quel Pasolini è inoltre incentrata sulla gestione del coito. Prima di arrivare alla misura estrema dell’aborto, non sarebbe meglio ragionare in termini di “anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse” e non procreanti, strumenti e informazioni da rendere accessibili, tramite la stampa e la televisione, alle masse piccolo-borghesi e popolari che non possono essere chiaramente preparate in materia?
In questo, come negli altri dibattiti, si coglie l’isolamento straordinario di un intellettuale che, oltre a non aver voluto nessuna autorevolezza, non ha nemmeno voluto/potuto posizionarsi su una mattonella sicura, che fosse protetta e garantita da un partito, che fosse pienamente appoggiata da una redazione o abbracciata saldamente da una corrente di pensiero.
Nemico dichiarato della Democrazia Cristiana, ma non abbastanza appiattito e allineato per confortare l’intelligencia comunista; troppo indipendente sul tema tabù dell’aborto; troppo distante dalla cultura borghese, a cui oppone ostinatamente il recupero della cultura popolare; troppo dissonante rispetto al comune pensiero. Un corsaro, appunto, senza alcuna bandiera legittima e con un equipaggio altamente incerto al seguito.
Di Alessio Guglielmini, instoria.it
Riferimenti bibliografici
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2000.
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link fonte: http://www.instoria.it/home/pasolini_scritti_corsari.htm
N° 173 / MAGGIO 2022 (CCIV)
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Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org