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La Redazione

 

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LA POLITICA NASCOSTA DI HOLLYWOOD

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A cura di Das schloss
Il 19 Marzo 2009
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DI M. ALFORD E R. GRAHAM

Global Research

Tom Cruise, la celebrità più potente del mondo, è stato licenziato, secondo la rivista “Forbes”, senza tanti giri di parole nel 2006. Il suo licenziamento è stato particolarmente scioccante per il fatto che non è stato licenziato dal suo datore di lavoro del tempo, la “Paramount Studios”, ma bensì da una compagnia molto vicina alla Paramount, la Viacom. Il notoriamente irascibile amministratore delegato della Viacom Sumner Redstone – proprietario di una lunga lista di compagnie di informazione come CBS, Nickelodeon, MTV, e VH1 – ha affermato che Cruise aveva commesso un “suicidio creativo” a seguito di una successione di attività maniacale pubblica. Si trattava di licenziamento meritevole di un episodio di “The Apprentice”.[1]

Il caso Cruise rimanda alla nozione dominante secondo cui i meccanismi interni di Hollywood non sono interamente determinati dai voleri del pubblico, come ci si potrebbe aspettare, né sono finalizzati a rispondere solamente alle decisioni dei creativi dello studio, o anche a quelle dei responsabili stessi dello studio.

Nel 2000, l’“Hollywood Reporter” ha redatto una lista delle prime 100 figure più potenti nell’industria durante gli ultimi 70 anni. Rupert Murdoch, capo della News Corporation, proprietario della Twentieth Century Fox, è risultato il personaggio vivente più potente in assoluto.
Ad eccezione del regista Steven Spielberg ( n°3) , nessun artista compare entro le prime dieci posizioni.Ciascuno degli studi di Hollywood più importanti ( le “majors”) è ora una filiale di un’industria più grande, e perciò non è un business così separato o indipendente, ma soltanto una delle molteplici grandi fonti di reddito per l’impero finanziario più ampio della propria società madre. Le majors e i loro “genitori” sono: Twentieth Century Fox (News Corp), Paramount Pictures (Viacom), Universal (General Electric/Vivendi), Disney (The Walt Disney Company), Columbia TriStar (Sony), e Warner Brothers (Time Warner). Queste compagnie madri sono tra le più grandi e più potenti del mondo, e normalmente sono supportate da avvocati ed investimenti bancari.[2] I loro interessi economici sono a volte anche strettamente legati ad aree politicizzate come l’industria degli armamenti, e sono frequentemente inclini a cozzare contro il governo in carica quando decide sulla regolazione finanziaria.

Come sottolinea il giornalista vincitore del premio Pulitzer Professor Ben Bagdikian, mentre una volta gli uomini e le donne proprietari dei mezzi di comunicazione di massa potevano entrare nella “sala da ballo di un modesto hotel”, ora gli stessi proprietari (tutti uomini) possono stare in una “generosa cabina telefonica”. Avrebbe potuto aggiungere che, mentre una cabina telefonica potrebbe non essere esattamente il luogo gradito a Rupert Murdoch e Sumner Redstone, questi individui d’altro canto si incontrano in luoghi lussuosi come l’ “Idaho’s Sun Valley” per identificare e dare forma ai loro interessi collettivi.

Sicuramente, il contenuto dei film di uno studio non è, di norma, determinato solamente dagli interessi politici ed economici delle case madri. Gli amministratori delegati degli Studios hanno una considerevole libertà di azione per realizzare il cinema che vogliono senza diretta interferenza dei loro principali padroni. In realtà, comunque, il contenuto degli Studios di Hollywood riflette in maniera chiara i più ampi interessi della compagnia e, a volte, le compagnie madri che si celano dietro gli Studios mostrano un interesse pieno e deliberato per alcuni film piuttosto che per altri. C’è una lotta tra forze maggiori e forze minori, ma i tradizionali mezzi di comunicazione di massa e le accademie si sono concentrati sulle ultime piuttosto che sulle prime.

Si consideri il successo cinematografico dell’anno scorso, “Australia”, l’epopea di Baz Luhrmann. Due degli aspetti salienti del film riguardarono, in primo luogo, il fatto che esso sorvolava sulla storia degli Aborigeni, e, in secondo luogo, il fatto che attraverso la pellicola, l’Australia era resa come una fantastica meta in cui andare in vacanza. Ciò non dovrebbe sorprendere – dato che la Twentieth Century Fox, di proprietà di Rupert Murdoch – aveva lavorato alla produzione del film in stretto contatto con il governo australiano fondamentalmente per interesse da ambo le parti. Il governo beneficiò dell’ampia campagna turistica promossa da Luhrmann e dal suo lavoro, che includeva non solo le caratteristiche proprie del film, ma anche una serie di stravaganti pubblicità collegate ( tutte in apparenza fungevano da supporto al maldestro programma di riconciliazione Aborigeno ). Di conseguenza, il governo dette ai suoi prediletti decine di milioni di dollari come rimborsi delle tasse. Il giornale West Australian dichiarò addirittura che Murdoch aveva fatto sì che i suoi “soldati di stampo giornalistico”, si assicurassero che ogni aspetto del suo impero di mezzi di comunicazione di massa premiasse e lodasse “Australia” attraverso scintillanti riviste, valutazione candidamente illustrata dalla rivista “The Sun”, la quale si apprezzò “il raro pezzo di buon divertimento vecchio stile” così tanto che i suoi critici fossero “tentati di correre verso l’agenzia viaggi.”

Esistono precedenti storici a tale interferenza. Nel 1969 Haskell Wexler, cineasta di ”Qualcuno volò sul nido del cuculo” ebbe un problema considerevole a rilasciare il suo classico “Medium Cool”, il quale era in stretta relazione con le proteste contro la guerra alla Convention Democratica dell’anno precedente. Wexler reclamò la più assoluta libertà di informazione per i documenti rivelando che alla vigilia dell’uscita della pellicola, il sindaco di Chicago Richard J. Daley, ed alte cariche del partito democratico avevano reso noto a Gulf e Western ( le compagnie vicine a Paramount ) che se Medium Cool fosse realmente uscito, alcuni benefici sulle tasse e altri vantaggi nell’interesse di Gulf e Western non sarebbero stati concessi. “Uno stronzo ben deciso non ha coscienza” ci ha detto Wexler furiosamente, riferendosi ai leaders delle attività commerciali di Hollywood “e loro non hanno coscienza”.

Wexler spiegò come questo complotto aziendale fosse stato messo in atto per minimizzare l’attenzione: “La Paramount mi aveva contattato dicendomi che avevo bisogno di liberatorie da tutti i [manifestanti] nel parco, di cui era impossibile tener conto. Affermarono che se la gente fosse andata a vedere quel film abbandonando il teatro e avessero compiuto un atto di violenza, allora si sarebbe potuta intentare un’azione contro gli uffici della Paramount”. Un modo difficile per ricavare dei guadagni da un film ma sicuramente un modo utile per proteggere gli interessi della società madre.

Ora passiamo al caso più famoso: quello di Fahreneit 9/11 (2004), il successo cinematografico di Michael Moore, che la Walt Disney Company ha tentato di far naufragare a dispetto del fatto che “era già stato esaminato dai piani alti” dopo essere stato sottoposto al giudizio di alcuni spettatori. La filiale di Disney, la Miramax, insistette sul fatto che i suoi creatori non avevano il diritto di bloccarlo dal rilasciare il film dal momento che il budget era ben al di sotto del livello richiesto dalla Disney per l’approvazione. I rappresentanti della Disney replicarono che avrebbero potuto vietare qualsiasi film della Miramax se poteva sembrare che la sua distribuzione potesse scontrarsi con i loro interessi. Ari Emanuel, agente di Michael Moore dichiarò che il capo della Disney, Michael Eisner, gli aveva detto che avrebbe voluto ritirarsi dal patto a causa delle preoccupazioni presaglie da parte dei politici conservatori, specialmente riguardanti le agevolazioni fiscali date alle proprietà della Disney come il “Walt Disney World” in Florida, (di cui governatore era al tempo il fratello del presidente degli Stati Uniti d’America, Jeb Bush). La Disney era anche legata alla famiglia reale saudita, che nel film era stata rappresentata in maniera non molto favorevole: un membro potente della famiglia, Al-Walid Bin Talal, proprietario di una grande quota di Eurodisney, aveva contribuito a far uscire dai guai finanziari il parco divertimenti. La Disney ha sempre negato l’interferenza della politica in tale meccanismo, spiegando che temevano di essere “trascinati in una battaglia politica con una posta in gioco molto alta”, che avrebbe potuto infastidire i clienti.

La Disney ha diffuso costantemente nei suoi film messaggi favorevoli al sistema, in modo particolare sotto marchi secondari come la Hollywood Pictures e la Touchstone Pictures (sebbene il film basato sulla biografia di Nixon, diretto da Oliver Stone nel 1995, rappresenti una notevole eccezione). In molti ricevettero una generosa assistenza dal governo degli Stati Uniti: il Pentagono appoggiò “Army Now” (1994), “Crimson Tide” (1995), e “Armageddon” (1998), così come il film sulla CIA “Bad Company” (2002) e “The Recruit” (2003). Nel 2006, la Disney favorì la messa in onda del film TV “The Path to 9/11”, film che in maniera pesante era incline a esonerare da colpe l’amministrazione di Bush e dava la colpa a quella di Clinton per gli attacchi terroristici, provocando reazioni indignate di reclamo dal precedente Segretario di Stato Madeline Albright e, allo stesso modo, da Sandy Berger, direttore della sicurezza nazionale sotto Clinton.

La natura del comportamento della Disney acquista significato se si considerano gli interessi delle alte parti della multinazionale. Storicamente, la Disney aveva stretto dei rapporti con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, e Walt stesso era un violento “anti-comunista” (anche se resoconti su di lui come agente dell’FBI o addirittura un fascista sono parecchio più speculativi). Negli anni 50, gli sponsor delle aziende e del governo aiutarono la Disney a produrre dei film che promuovessero la politica del presidente Eisenhower “Atomi per la pace” e allo stesso tempo l’infame documentario “Duck and Cover” spiegava agli alunni delle scuole elementari come sarebbero sopravvissuti ad un attacco atomico nascondendosi sotto i loro banchi di scuola. Ancora oggi, uno dei responsabili principali della Disney è John E. Bryson che è anche direttore della compagnia “Boeing” una dei maggiori appaltatori nel settore aerospaziale e della difesa. La Boeing aveva ricevuto 16,6 miliardi di dollari dai contratti con il Pentagono nel periodo successivo all’invasione dell’Afghanistan [3] ad opera delle truppe americane. Ciò si sarebbe dimostrato un incentivo non da poco per Disney per evitare di finanziare film che andassero conto la politica estera di George W. Bush, come Fahrenheit 9/11 ad esempio.

Sorprende molto il fatto che quando la Disney distribuì Pearl Harbor, nel 2001- un film semplicistico dall’amplissimo budget realizzato in forte cooperazione con il Pentagono, e che celebrava la rinascita del nazionalismo americano dopo il cosiddetto “giorno dell’infamia” – esso fu recepito dal pubblico con molto cinismo. Ancora, nonostante alcune riviste contrarie, inaspettatamente Disney decise nell’Agosto del 2001 di estendere la distribuzione del film su scala nazionale dal periodo standard due-quattro mesi ad uno sbalorditivo di sette mesi, facendo sì che questo capolavoro “estivo” sarebbe ora stato trasmesso fino a Dicembre. Inoltre, la Disney aumentò il numero dei cinema in cui il film veniva trasmesso da 116 a 1306. Per le aziende provate dai pochi guadagni del periodo successivo all’ 11/9 Pearl Harbor provvide a risollevare in maniera decisiva gli animi.

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Ma mentre film come Australia e Pearl Harbor ricevevano trattamenti di favore, le produzioni più in controtendenza o votate al cambiamento si avviavano ad entrare nel buco della memoria del cinema. Il film “Salvador”, di Oliver Stone, girato nel 1986, racconta la storia della guerra civile del Salvador; la sua trama era molto affine alle idee dell’ala rivoluzionaria contadina di sinistra e criticava fortemente la politica estera degli Stati Uniti, condannando in special modo il supporto che questi avevano offerto alla destra a carattere militare ed agli infami squadroni della morte.

L’opera di Stone fu rifiutata da tutte le più grandi case di produzione di Hollywood – qualcuno la definì addirittura come “un odioso lavoro” – nonostante avesse ricevuto un’ottima critica da molte riviste. Alla fine il film fu finanziato da investitori inglesi e messicani ma raggiunse una distribuzione limitata. Altri documentari controversi più recenti come “Loose Change” del 2006-2007, che sostenve che l’11/9 fosse un ‘complotto interno’, e “Zeitgeist” del 2007, che presenta un agghiacciante ritratto dell’economia globale, sono stati visti da milioni di persone attraverso Internet, l’unico “luogo” dove i “capi” delle comunicazioni di massa non possono toccarli o ostacolarli.[4]

La produzione più recente degli Universal Studios ha supportato in maniera più velata il potere degli Stati Uniti, con film come “Children of Men” del 2006, “Jarhead” del 2005 e “The Good Shepherd” del 2006. Eppure, con produzioni come “U-571” del 2000, e “La guerra di Charlie Wilson” del 2007, diventa possibile comprendere la ragione per cui una compagnia strettamente legata agli Universal fosse la General Electric, i cui interessi più lucrativi ben si relazionavano con la produzione di armi e di componenti fondamentali per pianificare guerre, tecnologia avanzata di sorveglianza, ed hardware essenziali per olii e gas industriali su scala planetaria, soprattutto nel periodo dopo Saddam, in Iraq.

Il gruppo di direttori della General Electric aveva inoltre grande interesse a stringere rapporti con grandi organizzazioni liberali come la Fondazione Rockfeller. Dal momento che “liberale” potrebbe suonare come un termine positivo dopo l’impopolare marchio conservatore di Bush, bisogna ricordare che le organizzazioni liberali sono strettamente relazionate con le fondamenta delle elite degli Stati Uniti e molto spesso sono state, assieme a loro, architetti di molte delle azioni di politica estera del paese, come ad esempio la guerra in Vietnam. Sono preparati ad allearsi con parti conservatrici su certe questioni, in particolare la sicurezza nazionale, perciò non dovrebbe sconvolgere più di tanto trovare che la General Electric fosse molto vicina all’amministrazione Bush soprattutto con i più recenti amministratori delegati. Jack Welch, amministratore delegato dal 1981 al 2001, aveva apertamente dichiarato il proprio sdegno per “protocollo, diplomazia e regolatori” e fu addirittura accusato dal membro del Congresso della California Henry Waxman di aver fatto pressione sulla sua rete NBC al fine di dichiarare prematuramente Bush come vincitore, nel 2000, dell’ “elezione rubata”, quando si era fatto vedere inaspettatamente nella sala stampa mentre si stavano conteggiando le votazioni. Il successore di Welch, l’odierno amministratore delegato della General Electric Jeff Immelt, è un neoconservatore ed è stato un generoso contribuente della campagna politica per la ri-elezione di Bush.

Forse la produzione che più sbigottisce della coppia General Electric e Universal è la distribuzione di “United 93” del 2006, considerata la “reale descrizione” di come gli eroici passeggeri del 9/11 “forzarono i piani terroristici” spingendo l’aeroplano a schiantarsi prematuramente al suolo nella campagna della Pennsylvania. Sebbene il film avesse registrato delle entrate nettamente superiori al basso costo di produzione, fu accolto con una buona dose di apatia ed ostilità da parte del pubblico quando la sua distribuzione divenne nazionale. A quel tempo, ci si fecero molte domande in merito alla versione ufficiale di Bush sull’11 settembre, soprattutto provenienti dalle notizie dei mass media americani indipendenti: secondo i risultati delle votazioni Zogby del 2004, la metà dei newyorkesi credeva che “i capi degli Stati Uniti avevano la sensazione che qualcosa sarebbe accaduto nell’immediato per quanto riguarda gli attacchi dell’11 settembre e ‘consapevolmente’ hanno evitato di agire”, e, appena un mese prima della distribuzione di “United 93” , l’83% degli spettatori della CNN era pressoché convinto che “ il governo degli Stati Uniti avesse coperto la realtà dietro gli attacchi dell’11 Settembre”.

Con la stampa ufficiale in seria difficoltà, l’amministrazione Bush accolse a braccia aperte “United 93”: il film era una fedele traduzione audio-visuale del “Commission Report” sull’11 Settembre, con un “ringraziamento speciale” a Phil Stub, contatto del Pentagono con Hollywood, cosa che appare in maniera discreta nei titoli di coda. Presto, dopo la data in cui iniziava la distribuzione su scala nazionale della pellicola, con quello che può essere interpretato come una cinica mossa di pubbliche relazioni e un gesto di approvazione ufficiale, il Presidente Bush si è incontrato con alcuni membri delle famiglie delle vittime per una proiezione privata della pellicola alla casa bianca.[5]

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Il film “Munich” del 2005, distribuito da General Electrics e Universal- esplorazione di Steven Spielberg nella vendetta di Israele seguita agli attacchi palestinesi alle Olimpiadi del 1972- solleva alcuni sospetti. Sebbene l’organizzazione dei Sionisti Americani volesse fortemente boicottare il film perché, sostenevano, collocasse gli israeliani sullo stesso piano di terroristi, questa lettura è molto poco convincente. Inoltre, da quando i titoli di coda di “Munich” iniziano a scorrere, i forti messaggi contenuti nella pellicola si stampano indelebilmente nelle menti, messaggi messi in bocca ai protagonisti delle Forze Speciali israeliane: “Ogni civiltà trova necessario arrivare a compromessi con i propri principi” , “Uccidiamo per il nostro futuro, uccidiamo per la pace”, e “Non rompete il c…o agli Ebrei” [“Don’t f*ck with the Jews.” N.d.r.] . Come è giusto aspettarsi, Israele è uno dei clienti più fidati della General Electric, avendo comperato da essa missili laser Hellfire II, così come sistemi di propulsione per l’ F16 “falcon fighter” , l’F-4 “phantom fighter”, l’elicottero d’attcco AH64 Apache e l’elicottero UH60 “Black Hawk”. Nei 167 minuti di “Munich” il tempo dedicato alla spiegazione della causa palestinese è ridotto a due minuti e mezzo di dialogo altamente semplicistico. Lungi da essere un “imparziale grido per la pace” , come il Los Angeles Times lo ha accolto, il “Munich” della General Electric è interpretabile molto più facilmente come una sottile conferma delle politiche di un fedele cliente.

Dal lato più liberale della cinematografia si è trovata negli ultimi anni la Warner Bros. “JFK” nel 1991, “The Iron Giant” nel 1999, “Southpark: big, longer and uncut”, sempre del 1999, “Good night and good luck” del 2005, “V for Vendetta” sempre del 2005, “A scanner darkly” del 2006, “Rendition” del 2007, e “In the valley of Elah” sempre del 2007. Molto indicativo che, in seguito alle lamentele in merito a una sorta di stereotipia di stampo razzista nella produzione della Warner Bros sponsorizzata dal Pentagono “Executive decision” del 1996, lo studio prese l’insolita iniziativa di assumere Jack Shaheen, un consulente per le politiche razziali sul set, dando come risultato quello che fu considerato dalla critica come uno dei migliori film del suo genere, “Three Kings” del 1999.
Potrebbero non esserci coincidenze con il fatto che una stretta collaboratrice della Warner Bros, la Time Warner, sia meno legata all’industria della armi o alla cricca dei neoconservatori.

Ma per avere un’idea di ciò che accade ai film, quando nella loro produzione vengono rimossi gli interessi delle multinazionali, consideriamo la Lions Gate Films, una distributrice indipendente, che pure in verità è parte del sistema capitalista ( è stata formata in Canada da un investimento di un banchiere), ma che comunque non appartiene a una multinazione da miliardi di dollari e con molteplici interessi. Sebbene la Lion Gate abbia prodotto una grossa quantità di prodotti politicamente vaghi e del genere ‘sangue e viscere’, sta anche dietro alcuni dei più audaci ed originali film del cinema politico popolare degli ultimi dieci anni, criticando il corporativismo in “American Psycho” del 2006, la politica estera degli Stati Uniti in “Hotel Rwanda” del 2004, il commercio di armi in “Lord of war” del 2005, il sistema sanitario nazionale degli Stati Uniti in “Sicko” di Michael Moore, del 2007, e in generale tutto l’establishment degli Stati Uniti in “The U.S. vs John Lennon” del 2006.

Non c’è molto bisogno di ripetere che Hollywood è guidata dalla brama di denaro piuttosto che dall’integrità artistica. A causa di ciò, il mondo del cinema è aperto alla pubblicità di prodotti in forme diverse: giocattoli, sigarette e addirittura armamenti di ultima generazione, (da qui gli “special thanks” a Boeing nei titoli di coda del film “Iron Man” del 2008). Molto meno ovvio- nonché meno investigato- è come gli interessi delle multinazionali-madri stesse si riversino nel mondo del cinema- a livello individuale e sistemico. Noi speriamo che l’attenzione critica si focalizzi sui produttori dei film per aiutare a spiegare il perché dei loro contenuti reazionari ed infine, per aiutare il pubblico a prendere decisioni informate su ciò che consuma.

Mentre scrutiamo all’interno dei nostri popcorn, sarebbe meglio ricordare che dietro la magia dei film ci sono i maghi delle pubbliche relazioni delle multinazionali.

Matthew Alford è autore del libro di prossima pubblicazione “Projecting Power: American Foreign Policy and the Hollywood Propaganda System.” Robbie Graham è Associate Lecturer in Film presso lo Stafford College. Referenze sono disponibili su richiesta.

NOTE

[1] In maniera memorabile, Cruise dichiarò il suo amore per Katie Holmes mentre rimbalzava sù e giù su Oprah ( il programma, non la conduttrice).

[2] La classifica “2008 Fortune Global 500” piazza la General Electric al numero 12 con un reddito di 176 bilioni di dollari. Sony era al numero 75, Time Warner al 150, la Walt Disney Company al 207, la “News corporation al 280. Per fare un paragone, la “Coca Cola Company” è al numero 403.

[3] In maniera interessante, l’amministratore delegato della Disney Michael Eisner fu personalmente coinvolto quando giocò un brutto scherzo allo show politicamente scorretto di Bill Maher, dopo che l’ospite aveva commesso l’errore sovrumano di affermare che l’uso dei missili cruise da parte degli Stati Uniti era più da vigliacchi che gli attacchi dell’11 Settembre, con Eisner (che aveva in seguito) “convocato Maher nel suo ufficio per una batosta” secondo Marc Crispin di The Nation.

[4] Un caso meno convincente ma tuttavia intrigante potrebbe essere considerato l’alto numero di interessi politici ed economici coinvolti nella distribuzione del satirico e fantascientifico film di John Carpenter “They live”, del 1988, il quale dipingeva il mondo in preda ad un’invasione di forze aliene malvagie alleate con il governo degli Stati Uniti.
Il film fu recepito in maniera positiva dalla critica ( ad eccezione del Washington Post e del New York Times) e balzò al primo posto in molti botteghini. Si rifece velocemente dei 4 milioni di $ spesi per la realizzazione nella prima settimana, e nella seconda scese alla quarta posizione raggiungendo un guadagno di 2,7 milioni di dollari. Lo studio distributore, la Universal Pictures, pubblicò un annuncio durante il periodo di riproduzione del film, in cui compariva un alieno scheletrico in giacca e cravatta, in piedi dietro un podio, con in mano una zazzera simile a quella di Dan Quayle, il nuovo Vice Presidente eletto degli Stati Uniti. Le elezioni si erano svolte appena pochi giorni prima, l’8 di Novembre. Il co-protagonista Keith David disse:- “Non è per essere paranoici ma….improvvisamente non riuscivi a vederlo (“They live”) più da nessuna parte- era come se qualcuno l’avesse rubato”.

[5] In altri luoghi abbiamo affermato che i rappresentanti della Universal erano presenti alla proiezione. Ciò è errato.

[6] Poco tempo dopo Shaheen fu assistente per Syriana (2005), distribuito dalla Warner Bros.

Titolo originale: “The Deep Politics of Hollywood”

Fonte: http://www.globalresearch.ca
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21.02.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ADERLAIS

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