Di Luca V.
“Noi non possiamo capire quello che prova.”
Conoscevo già la teoria del divieto, ma prima di qualche giorno fa non lo avevo mai sperimentato personalmente. In questa frase perfetta che mi è stata rivolta è possibile rinvenire le dinamiche interiori di radicamento di un’intera ideologia.
Quel non possiamo si annuncia al destinatario con una nota di testa coscienziosa, per poi profondersi in una nota di cuore coinvolgente, acquosa, sentimentale: l’impressione è quella di una intensa compartecipazione al dolore altrui, da cui è difficile sottrarsi, soprattutto perché la connotazione morale è molto marcata.
L’implicazione più profonda, il cuore del messaggio, arriva però alla fine: la nota di coda. Il suo senso è inaspettato e diametralmente opposto a quello più immediatamente percepibile: tu non puoi. Dalla potenza del noi si passa improvvisamente al tu: il divieto è specificamente rivolto a chi ascolta. Conserva tutta la forza dell’imperativo morale, ma al calore del trasporto empatico si sostituisce ora l’amarezza del limite imposto: è impossibile al tuo cuore e al tuo pensiero superare un certo limite di comprensione, è il sottotesto minaccioso. Perciò, nel prosieguo della conversazione ti sono seduta stante vietate tutta una serie di potenziali considerazioni. La situazione risulta così paradossalmente ribaltata: la vicinanza al dolore dell’altro obbliga a un’ossequiosa distanza. L’imposizione è indiretta, obliqua, sottintesa: la violenza che porta con sé è così subdola e sottile da confondersi e perdersi nel potente e irresistibile abbraccio iniziale, che così la imprime come una morsa nel cuore dell’interlocutore quasi senza che se ne accorga.
Non appena storditi dal calore ci si concede al divieto, all’istante il beneficiario di tanta solidarietà fuoriesce dal campo visivo e si dissolve in una lontananza impalpabile e innominabile. Come un dio rispetto al quale, non potendone avere personale cognizione, sarà necessario d’ora in avanti attenersi a predefinite ed elusive formule rituali collettive con riferimento ignoto, condannati a mantenersi sempre al di fuori del perimetro del tempio.
Che cosa è successo? Una semplice frase basta a operare su chi ascolta una lobotomia a regola d’arte. Non puoi capire. Un bel taglio netto separa ora per sempre il pensatore dal suo pensiero, e lo sostituisce con un altro pensiero, esterno, collettivo ed evanescente. Il vettore del contagio è la forza travolgente e distruttiva del sentimento sociale, della moraleggiante persuasività di gruppo, il collante dell’ideologia di massa.
Se questo vale per tutti i divieti e per tutti i pensieri collettivi, a maggior ragione vale per ideologie come quella del gender, che fanno dell’altruismo a buon mercato il loro stendardo – molto più efficace rispetto alla diretta stimolazione di istinti malvagi. L’altruismo a buon mercato è fortemente inclusivo e ambivalente: sovrappone l’abbraccio al divieto, passa rapidamente dalla complicità alla ferocia senza soluzione di continuità. Tutti possono essere inglobati nel gruppo, e parimenti tutti possono esserne esclusi. Con questa violenza altamente contagiosa ciascuno si fa gendarme del pensiero collettivo, e impugna la sua cesoia. E il gender in particolare, inclusivo per eccellenza, è la cesoia che va più a fondo di tutte, perché affonda le sue lame direttamente nei legami tra gli esseri umani.
L’essenza dell’ideologia gender non corrisponde affatto alla sua immagine promozionale.
Il processo prende spunto dal fenomeno concreto della cosiddetta disforia di genere, condizione eccezionale del transessuale come soggetto che non è in pace con il proprio sesso, che vorrebbe cambiare le proprie sembianze per assomigliare al sesso opposto. Da lì, passa a suon di finanziamenti alla spiegazione ideologica del fenomeno: il transgender è tale perché dotato di un proprio genere interiore che non corrisponde con il sesso biologico, il quale deve dunque essere riallineato. Si reagisce così alla patologizzazione della disforia di genere, tipica di una società della sorveglianza, con la validazione incondizionata del sentire individuale. Questa validazione trae la sua forza dalla condanna del sistema morale precedente, ormai superato, e infatti si situa all’estremo opposto. Anzi, la depatologizzazione della disforia di genere, come è stato in precedenza per la prodromica depatologizzazione dell’omosessualità, non è dovuta per nulla a un progresso orizzontale della ricerca psichiatrica, che casomai tende ad aumentare le diagnosi piuttosto che a diminuirle, bensì puramente alla trasformazione dei suoi presupposti morali. Non si basa su una valutazione scientifica, ma politica – o per meglio dire, scienza, politica e morale coincidono e si confondono le une nelle altre, formando un corpo ideologico unitario.
Nel nuovo approccio affermativo, non solo il dialogo psicoterapeutico diventa violenza, ma anche qualsiasi approfondimento delle relazioni interpersonali, soprattutto del rapporto tra genitori e figli: il rischio paventato è quello del suicidio. Il sentire individuale quindi non è più in discussione, esce dal pensabile, è vietato al pensiero altrui e quindi fa a meno anche del proprio. Il genere a questo punto non c’entra più nulla con il sesso, che di conseguenza non deve per forza essere riallineato in caso di incongruenza. Non ci sono regole nel severo dominio dell’indiscutibile.
Una volta scollegato dal corpo, il concetto perde gradualmente consistenza, si scompone in una variopinta e cangiante distesa di possibilità vaghe e dai confini incerti, in continua ridefinizione. Alla fine, nell’acme inclusiva, la spiegazione ideologica è abbastanza ampia da potersi espandere in una antropologia universale: tutti sono dotati di un genere interiore. Abbandonata completamente l’imbragatura di partenza, il genere finisce insomma per coincidere con l’identità personale, la quale però risulta ora scollegata da qualsiasi possibilità di riscontro esterno, e quindi da qualsiasi possibilità di reale costruzione.
Nell’ansia pervasiva del bipolarismo inclusivo, il cui luogo privilegiato di assimilazione è la scuola, l’individuo in formazione impara quindi a isolarsi da tutto e da tutti. Siccome la realtà è fatta di confini, e i confini delle cose emergono dal loro scontrarsi reciproco, egli viene catapultato al di fuori della realtà. Il genere in cui i bambini e i ragazzi sono caldamente invitati a identificarsi è il nulla. L’ideologia gender, cavallo di Troia, non è altro che un intricatissimo e contorto guscio vuoto, un immane chiacchiericcio collettivo aggressivo ma incredibilmente privo di oggetto.
C’è una stretta correlazione tra pensiero e realtà, confini e identità: non è un caso che certi termini abbiano assunto nel linguaggio corrente una sgargiante colorazione artificiale, a nient’altro volta che a ostacolarne il normale utilizzo. Intanto pezzo dopo pezzo, anche l’essere umano viene smantellato e si scioglie nel liquido in cui è immerso: attraverso il passaggio linguistico intermedio del transgender, il mondo diventa transumano. Così con l’ultimativa e radicale erosione introdotta da questa ideologia, il reale può scomparire definitivamente negli abissi. Le teste vuote restano a galla sul pelo dell’acqua dell’esistenza: dalle profondità misteriose arrivano ancora talvolta segnali vaghi e indistinti, come sbalzi di temperatura appena percepibili. La corrente le trasporta e sballotta di qua e di là, e tutte seguono passivamente il flusso, senza che nessuno possa dire qualcosa di sicuro su alcunché, al di fuori delle elusive e minacciose formule rituali urlate all’infinito l’uno contro l’altro.
Intanto si compie il passaggio da un sistema di sorveglianza basato su un rigido principio proibitivo di esclusione del patologico (la società pesante e solida di Bauman), a un sistema di controllo inclusivo alla massima potenza e che appunto richiede un processo di totale depatologizzazione e liquefazione. Andiamo quindi dalla padella alla brace: come il caldo abbraccio si stringe in realtà in un solidissimo e soffocante divieto di pensare, si assiste a un ribaltamento tra la proibizione morale del super-io e il desiderio represso nell’inconscio. Il desiderio viene portato alla luce del sole, viene liberato da ogni limite, pudore, censura e costrizione morale, cavalca a briglia sciolta, mentre la proibizione scivola nell’inconscio, come dice Slavoj Žižek, facendosi quindi più radicata nell’animo e più viscerale e violenta nella sua espressione. Ecco la libertà imposta tipica delle democrazie occidentali. La realtà liberata, sfibrata e scomposta nelle sue particelle elementari resta completamente a disposizione delle esigenze dell’ordine tecno-capitalistico.
Così si spiega l’incredibile, cioè come è possibile al giorno d’oggi far dire a una persona, con convinzione, che un uomo è una donna e viceversa. Il pensiero si è liquefatto. In altri termini, l’altruismo a buon mercato non proibisce il comportamento, ma direttamente il pensiero. Perciò, la vera libertà non è quella dell’individuo di modificare il proprio corpo per conformarlo a un’identità inesistente, ma è quella del potere di modificare il corpo dell’individuo senza che questi opponga resistenza. Ciò che viene realmente soppresso è il dissenso alla liquida anarchia del potere.
Ciò detto, non bisogna perdere di vista il fatto che il motore da cui parte questa ideologia dell’identità è una domanda di ascolto e di riconoscimento umano, tipica dell’adolescenza, che resta genuina. Il vero problema della cosiddetta ideologia gender cioè non è una presunta confusione morale tra maschio e femmina, che è soltanto uno specchietto per le allodole e il sottile involucro linguistico dell’operazione, ma il trasferimento dello spazio privato nello spazio pubblico, del complesso nello stilizzato, del reale nel fittizio. Insistere sull’evidenza della distinzione tra i sessi significa cadere nella stessa trappola dell’ideologia, utilizzare il suo stesso linguaggio, e sottovalutare invece la complessità della realtà psichica da cui queste teorie traggono crescente nutrimento: complessità che in mancanza di alternative soddisfacenti va a loro vantaggio, visto che pescano nel torbido.
Allo spazio pubblico, alla polis, non competono le nude questioni umane: idealmente, le istanze individuali vi si presentano mascherate secondo una comune convenzione, e così si prestano alla mediazione e al compromesso politico, permettendo la convivenza civile. Gli spazi privati, come è naturale che sia, non conoscono questa compostezza. Essi dovrebbero sapersi proteggere dalle approssimazioni, dalle classificazioni di superficie e dalle ingerenze dello spazio pubblico, perché l’essere umano dotato di intelligenza non può permettersi di perdere la ricchezza della propria vita. Al tempo stesso, pretendere di invadere il teatro della politica con una nuda questione privata, osserva Hannah Arendt, quindi con una questione puramente morale, significa annullare il confine tra la realtà e la finzione giuridica, e imprigionare la complessità della prima in un’ideologia falsa, aggressiva e totalizzante. In quest’ottica tutte le speranze di liberazione individuale, una volta affidate a un discorso politico, diventano un delirio oppressivo, perché mantengono tutta la propria passione ma cedono alla pressione della contraddizione tra libertà e ordine sociale, tra realtà e finzione. Naturalmente questo travaso non parte dal basso, ma viene eterodiretto dagli interessi privati di tipo economico che in realtà detengono il potere: lo spazio pubblico inclusivo invita a gran voce tutti gli spazi privati a sciogliervisi dentro, è un colorato parco divertimenti in cui si promette la realizzazione di tutti i desideri, al prezzo del biglietto e a patto di rispettare le regole del gioco.
In conclusione, l’ideale probabilmente non è negare la misteriosa e irrisolvibile ambiguità della vita, soprattutto in un periodo complesso e di transizione come l’adolescenza, quanto piuttosto restituirla alla segretezza e alla delicatezza dello spazio privato, dove il racconto di sé, da grossolano e ideologico, può farsi nuovamente sensibile e umano, trasformato in parole solo per quanto necessario. In questo modo anche oggi è perfettamente possibile (è impossibile vietarlo) seguire con la dovuta pazienza il difficile cammino, per ciascuno diverso e per il quale per fortuna non esistono ricette, verso l’età adulta. Cammino del quale i pericoli e le bugie del mondo costituiscono peraltro da sempre parte integrante.
Per quanto concerne la lotta politica dunque è importante considerare che l’ideologia dell’identità è uno scambio ferroviario azionato a tradimento nelle fasi più delicate di un cammino di crescita e di ricerca di sé: rifiutando di utilizzare il linguaggio del potere per comprenderlo, il gender esce gradualmente di scena e lascia spazio a questioni sottostanti completamente diverse. Da un lato emerge, più evidente, l’obiettivo della distruzione della relazione e dell’identità come distruzione della possibilità di pensare, raggiunto sfruttando come catalizzatore una miscela di insicurezza ed estremismo sentimentale che è tipica dell’adolescenza, dall’altro lato, appena visibile ma centrale, la delicata domanda di senso che ribolle sotto a questa miscela, che non necessiterebbe di risposte facili e soluzioni immediate, ma di protezione e ascolto. Proprio attraverso la relazione umana è possibile preservare nel mondo uno spazio privato e appartato, lontano dalla confusione, in cui il pensiero e l’identità possano fiorire.
Alla luce di ciò, e a maggior ragione visto che siamo in aria di guerre, potrebbe essere utile ricordare la storia di Arjuna, il guerriero della Bhagavadgītā che a un certo punto scorge tra le fila del nemico schierato sul campo di battaglia non degli sconosciuti, ma propri parenti e amici. Cosa fare di fronte a questa visione? L’indicazione divina è che il guerriero deve combattere, perché non può sottrarsi dal compiere il proprio dovere sulla terra. Io penso che non dal sentimentale altruismo a buon mercato, che rade al suolo i confini e nega le identità, ma proprio dalla chiara e limpida accettazione del proprio obbligo di combattere nasca la capacità di riconoscerlo anche nell’altro, trasposto e modellato dai diversi casi della vita, e di comprendere più in profondità anche la sua battaglia. Il che è a sua volta essenziale per comprendere anche qual è davvero la propria, e soprattutto per vincere. In definitiva concluderei l’articolo in maniera speculare al suo inizio, citando Spinoza: “Riguardo alle cose umane non ridere, non piangere, non indignarsi, ma capire.”
Di Luca V. per ComeDonChisciotte.org
07.05.2024