Gli enigmi degli Anasazi

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Quale terribile evento ha costretto gli Anasazi a fuggire dalla loro terra natale, per non tornare mai più?

 

Noi quattro abbiamo camminato lentamente lungo il profondo e stretto canyon nel sud dello Utah. Era pieno inverno e il ruscello che scorreva accanto a noi era ghiacciato, formando graziose terrazze di ghiaccio lattiginoso. Tuttavia, il posto aveva un fascino accogliente: se avessimo voluto montare il campo, avremmo potuto scegliere una riva erbosa accanto al torrente, con acqua limpida che scorreva sotto lo strato sottile di ghiaccio, rami morti di pioppo per il fuoco e un riparo dal vento sotto l’altezza di 800 piedi di pareti rocciose.

Tuttavia, più di sette secoli fa, gli ultimi abitanti del canyon avevano preso una decisione completamente diversa riguardo dove vivere. Mentre giravamo una curva lungo il sentiero, Greg Child, un esperto scalatore di Castle Valley, Utah, si fermò e guardò verso l’alto. “Ecco”, disse, indicando una piega quasi invisibile della sporgenza appena sotto il bordo del canyon. “Vedi le abitazioni?” Con il binocolo potevamo distinguere appena le facciate di una fila di strutture di fango e pietra. Ci arrampicammo verso di loro, ansimando e sudando, attenti a non spostare massi grandi come piccole auto che barcollavano su trespoli insicuri. Alla fine, 600 piedi sopra il fondo del canyon, arrivammo alla cengia.

L’arioso insediamento che abbiamo esplorato è stato costruito dagli Anasazi, una civiltà sorta già nel 1500 a.C. I loro discendenti sono gli odierni indiani Pueblo, come gli Hopi e gli Zuni [Zuñi], i quali vivono in 20 comunità lungo il Rio Grande, nel New Mexico e nel nord dell’Arizona. Durante il X e XI secolo, il Chaco Canyon, nel New Mexico occidentale, è stato il centro culturale della patria degli Anasazi, un’area corrispondente all’incirca alla regione attuale dei Four Corners [ i Quattro Angoli] dove Utah, Colorado, Arizona e Nuovo Messico si incontrano geograficamente. Questo paesaggio di 30.000 miglia quadrate di canyon, colline e altopiani di arenaria era popolato da 30.000 persone. Gli Anasazi costruirono magnifici villaggi come il Pueblo Bonito di Chaco Canyon, un complesso del X secolo che era alto fino a cinque piani e conteneva circa 800 stanze. La gente ha tracciato una rete di strade di 400 miglia, alcune delle quali larghe 30 piedi, attraverso deserti e canyon. Nella loro architettura costruirono sofisticati osservatori astronomici.

Per la maggior parte del lungo periodo di tempo gli Anasazi occuparono la regione ora conosciuta come i Four Corners, vivendo all’aperto o in siti facilmente accessibili all’interno dei canyon. Ma intorno al 1250, molte persone iniziarono a costruire insediamenti in alto sulle pareti rocciose, insediamenti che offrissero difesa e protezione. Questi villaggi, ben conservati dal clima secco e dagli strapiombi di pietra, portarono gli esploratori anglosassoni a chiamare tali costruttori assenti Cliff Dwellers, i quali li trovarono nel 1880.

Verso la fine del XIII secolo, alcuni eventi catastrofici costrinsero gli Anasazi a fuggire da quelle case sulla roccia e dalla loro terra natale, spostandosi a sud e a est verso il Rio Grande e il fiume Little Colorado. Quello che è successo è stato il più grande enigma che gli archeologi che studiano la cultura antica si trovano ad affrontare. Gli indiani Pueblo di oggi hanno storie orali sulla migrazione dei loro popoli, ma i dettagli di queste storie rimangono gelosamente custoditi e segreti. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, gli archeologi hanno ricavato dalle rovine incontaminate nuove comprensioni sul motivo per cui gli Anasazi se ne andarono, il quadro che è emerso è oscuro. Comprende violenza e guerra, persino il cannibalismo, tra gli stessi Anasazi. “Dopo il 1200 d.C. circa, accade qualcosa di molto spiacevole”, afferma l’archeologo Stephen Lekson dell’University of Colorado. “Succede qualcosa di inaspettato.”

Lo scorso gennaio e febbraio, Greg Child, Renée Globis, Vaughn Hadenfeldt e io abbiamo esplorato una serie di canyon nel sud-est dello Utah e nel nord dell’Arizona, alla ricerca dei resti degli Anasazi più inaccessibili che potessimo trovare. Ho vagato per il sud-ovest negli ultimi 15 anni e ho scritto un libro sugli Anasazi. Come Greg, che ha scalato l’Everest e il K2, anche Renée è un’esperta scalatrice; vive a Moab, nello Utah, ha scalato molte cime e pareti rocciose del deserto. Vaughn, una guida turistica di Bluff, Utah, ha lavorato in una serie di appalti di scavi e indagini sull’arte rupestre nel sud-est dello Utah.

Siamo stati incuriositi dalla domanda sul perché i villaggi fossero stati costruiti in alto sulle rocce, ma eravamo stati altrettanto affascinati dal “come”: come gli Anasazi avevano scalato le rocce, per non parlare di vivere lì. Durante le nostre uscite ci siamo imbattuti in rovine che non eravamo sicuri di poter raggiungere nemmeno con corde e moderne attrezzature da arrampicata, il cui utilizzo è vietato in tali siti. I ricercatori ritengono che gli Anasazi si arrampicassero sui tronchi degli alberi abbattuti e intaccati dalle asce di pietra per formare minuscoli punti d’appoggio. Queste scale di tronchi erano spesso appoggiate su sporgenze a centinaia di piedi da terra. (Alcune scale sono ancora al loro posto.) Ma non sarebbero state adeguate per raggiungere molte delle abitazioni che abbiamo esplorato. Credo che gli archeologi, che di solito non sono scalatori, abbiano sottovalutato l’abilità e il coraggio necessari per vivere tra i dirupi.

Gli edifici che Greg aveva individuato erano più facili da raggiungere rispetto alla maggior parte dei siti che avevamo esplorato. Ma non è stato altrettanto facile orientarsi all’interno dell’insediamento stesso. Mentre camminavamo sulla sporgenza delle rovine, la prima struttura che incontrammo fu un muro di pietra alto cinque piedi. Quattro piccole feritoie, aperture nel muro larghe tre pollici, avrebbero consentito alle sentinelle di osservare chiunque si avvicinasse. Dietro questo muro d’ingresso sorgeva un robusto edificio, con il tetto ancora intatto, che confinava con un granaio disseminato di pannocchie di 700 anni perfettamente conservate. Più avanti lungo la stretta sporgenza, abbiamo svoltato uno spigolo stretto solo per essere bloccati da un secondo muro in rovina. Lo scavalcammo e proseguimmo. Per due volte siamo stati costretti ad affrettarci a carponi mentre il dirupo sopra di noi si gonfiava nella nostra direzione, pizzicando la sporgenza come le fauci di uno schiaccianoci. I nostri piedi si aggrappavano al bordo del passaggio: un sobbalzo imprudente sarebbe significato morte certa. Alla fine il sentiero si allargò e ci imbattemmo in quattro splendide abitazioni in muratura e in un altro granaio spazioso. Sotto di noi, la roccia scendeva in picchiata per 150 piedi, assolutamente verticale rispetto a un pendio che scendeva per altri 450 piedi fino al fondo del canyon. L’insediamento, che un tempo ospitava forse due famiglie, sembrava emanare paranoia, come se i suoi costruttori avessero vissuto nella costante paura di un attacco. Era difficile immaginare anziani e bambini piccoli che andavano avanti e indietro lungo un passaggio così pericoloso. Eppure gli antichi devono aver fatto proprio questo: per gli Anasazi che vivevano al di sopra di quel vuoto, ogni tentativo in cerca di cibo e acqua doveva essere stata una missione pericolosa.

Nonostante la paura che apparentemente oscurava la loro esistenza, questi ultimi abitanti del canyon si erano presi il tempo per abbellire la loro casa. I muri esterni delle abitazioni erano intonacati con uno strato liscio di fango, e le facciate superiori dipinte di bianco crema. Linee deboli e motivi di tratteggio sono stati incisi nell’intonaco, creando disegni bicolore. La sporgenza di pietra aveva protetto queste strutture così bene che sembravano essere state abbandonate solo negli ultimi dieci anni, non 700 anni fa.

Le vertiginose abitazioni rupestri non furono l’unica risposta degli Anasazi a qualunque cosa li minacciasse nel corso del 1200; in effetti, probabilmente non erano poi così comuni nella cultura. Ciò divenne evidente pochi giorni dopo, quando Vaughn e io, lasciando i nostri due compagni, visitammo Sand Canyon Pueblo nel sud-ovest del Colorado, più di 50 miglia a est delle nostre perlustrazioni nello Utah. Parzialmente scavato tra il 1984 e il 1993 dal Crow Canyon Archaeological Center, un ente senza scopo di lucro, il villaggio comprendeva 420 stanze, da 90 a 100 kivas (camere sottoterra), 14 torri e diversi altri edifici, tutti racchiusi da un muro di pietra. Curiosamente, questo vasto insediamento, la cui architettura ben congegnata suggerisce che i costruttori lavorassero secondo un piano generale, fu creato e abbandonato nel corso di una vita, tra il 1240 e il 1285 circa. Sand Canyon Pueblo non assomiglia alle abitazioni rupestri selvaggiamente inaccessibili dello Utah. Ma c’era comunque una strategia di difesa incorporata nell’architettura. “Alla fine del XIII secolo”, dice l’archeologo William Lipe della Washington State University, “c’erano da 50 a 75 grandi villaggi come Sand Canyon nella regione di Mesa Verde, in Colorado, siti sul bordo del canyon che racchiudevano una sorgente e fortificati con alte mura. Nel complesso, il miglior piano di difesa contro i nemici era quello di aggregarsi in gruppi più grandi. Nello Utah meridionale, dove il terreno era poco profondo e il cibo difficile da reperire, la densità di popolazione era bassa, quindi unirsi a un grande gruppo non era un’opzione. Invece costruirono delle abitazioni sulla roccia”.

Cosa spinse gli Anasazi a ritirarsi sulle alte rocce e nei villaggi fortificati? E più tardi, cosa provocò l’esodo? Per molto tempo gli esperti si sono concentrati sulle spiegazioni ambientali. Utilizzando i dati degli anelli degli alberi, i ricercatori sanno che una terribile siccità colpì il sud-ovest dal 1276 al 1299; è possibile che in certe zone non ci sia stata praticamente alcuna pioggia durante quei 23 anni. Inoltre, il popolo Anasazi potrebbe aver quasi disboscato la regione, abbattendo gli alberi per ricavarne travi per le coperture e legna da ardere. Ma i problemi ambientali non spiegano tutto. Nel corso dei secoli, gli Anasazi superarono crisi paragonabili, una siccità più lunga e grave, per esempio, dal 1130 al 1180, senza dirigersi verso le rocce o abbandonare le loro terre.

Un’altra teoria, avanzata dai primi esploratori, ipotizzava che i banditi nomadi potessero aver cacciato gli Anasazi dalla loro terra natale. Ma, Lipe dice, “semplicemente non ci sono prove [di tribù nomadi in quest’area] nel XIII secolo. Questa è una delle regioni più studiate al mondo. Se ci fossero stati abbastanza nomadi da scacciare decine di migliaia di persone, sicuramente gli invasori avrebbero lasciato numerose prove archeologiche”.

Quindi i ricercatori hanno iniziato a cercare la risposta all’interno degli stessi Anasazi. Secondo Lekson, ci sono due fattori critici emersi dopo il 1150, la documentata imprevedibilità del clima e quella che lui chiama “socializzazione per paura”, si combinarono per produrre una violenza di lunga durata che fece a pezzi la cultura Anasazi. Nell’XI e all’inizio del XII secolo ci sono poche prove archeologiche di vere guerre, dice Lekson, ma ci furono esecuzioni. Come dice lui, “Sembra che ci fossero squadre di balordi. Le cose non andavano bene per i leader e la struttura di governo voleva perpetuarsi dando un esempio agli emarginati sociali; i leader li giustiziarono e addirittura fecero uso della cannibalizzazione”. Questa pratica, perpetrata dai governanti del Chaco Canyon, creò una paranoia in tutta la società, secondo la teoria di Lekson, così il popolo Anasazi “convisse” nella paura costante. Lekson prosegue descrivendo uno scenario cupo che, a suo avviso, è emerso nel corso nei centinaia di anni successivi. Dice, “interi villaggi si rincorrono”, “alleanza contro alleanza e persistette anche nel periodo spagnolo”. Ancora, per esempio nel 1700, diversi villaggi Hopi attaccarono il popolo Hopi di Awatovi, dando fuoco alla comunità, uccidendo tutti i maschi adulti, catturando e forse uccidendo donne e bambini e cannibalizzando le vittime. Resoconti vividi e raccapriccianti di questo massacro sono stati recentemente raccolti dagli anziani da parte del professore della Northern Arizona University ed esperto Hopi, Ekkehart Malotki.

Fino a poco tempo fa, a causa della percezione popolare e radicata che le antiche culture sedentarie fossero pacifiche, gli archeologi sono stati riluttanti a riconoscere che gli Anasazi avrebbero potuto essere violenti. Come sostiene l’antropologo della University of Illinois Lawrence Keeley nel suo libro del 1996, War Before Civilization, gli esperti hanno ignorato le prove della guerra nelle società pre-alfabetiche o pre-colombiane.

Durante l’ultima metà del XIII secolo, quando apparentemente la guerra arrivò nel sud-ovest, anche la strategia difensiva di aggregazione utilizzata a Sand Canyon sembra aver fallito. Dopo aver scavato solo il 12% del sito, le squadre del Crow Canyon Center hanno trovato i resti di otto individui che hanno avuto morti violente, sei con il cranio sfondato, altri che avrebbero potuto essere vittime di combattimento, con i loro scheletri abbandonati in modo scomposto. Non c’erano prove della sepoltura formale che era la norma Anasazi, cioè, corpi disposti in posizione fetale e posti nel terreno con ceramiche, feticci e altri corredi funerari.

Un quadro ancora più macabro emerge a Castle Rock, una collina di arenaria che spunta a 70 piedi dalla roccia nel McElmo Canyon, circa cinque miglia a sud-ovest di Sand Canyon. Sono andato lì con Vaughn per incontrare Kristin Kuckelman, un’archeologa del Crow Canyon Center che ha co-condotto uno scavo alla base del butte [montagna isolata in mezzo a un largo terreno piatto, molto frequente negli Stati Uniti]. Qui, gli Anasazi realizzarono blocchi di stanze e costruirono persino strutture in cima al butte. Gli archeologi del Crow Canyon Center hanno scavato l’insediamento tra il 1990 e il 1994. Rilevarono 37 stanze, 16 kivas e nove torri, un complesso che ospitava forse da 75 a 150 persone. I dati sugli anelli degli alberi ricavati dalle travi del tetto indicano che il villaggio fu costruito e occupato dal 1256 al 1274, un periodo ancora più breve di quello in cui esisteva il Sand Canyon Pueblo. “Quando abbiamo iniziato a scavare qui”, mi ha detto Kuckelman, “non ci aspettavamo di trovare prove di violenza. Abbiamo trovato resti umani che non erano stati formalmente sepolti e le ossa di individui erano mescolate tra di loro. Ma è stato solo dopo due o tre anni dall’inizio dei nostri scavi che ci siamo resi conto che qui era successo qualcosa di veramente brutto”.

Kuckelman e i suoi colleghi vennero a conoscenza anche di un’antica leggenda su Castle Rock. Nel 1874, John Moss, una guida che aveva trascorso del tempo tra gli Hopi, guidò un gruppo che includeva il fotografo William Henry Jackson attraverso il McElmo Canyon. Moss espose una storia raccontatagli, disse, da un anziano Hopi; un giornalista che accompagnò il gruppo pubblicò il racconto con le fotografie di Jackson sul New York Tribune. Circa mille anni fa, secondo quanto riferito dall’anziano, il villaggio fu visitato da stranieri selvaggi provenienti dal nord. Gli abitanti del villaggio trattarono gli intrusi con gentilezza, ma presto i nuovi arrivati “cominciarono a foraggiare su di loro in cerca di cibo e, alla fine, a massacrarli e devastare le loro fattorie”, diceva l’articolo. In preda alla disperazione, gli Anasazi “costruirono case in alto sulle rocce, dove potevano immagazzinare il cibo e nascondersi finché i predoni non fossero andati via”. Eppure questa strategia fallì. Una battaglia durata un mese culminò in una carneficina, finché “le cavità delle rocce furono riempite fino all’orlo del sangue misto di conquistatori e conquistati”. I sopravvissuti fuggirono a sud, per non tornare mai più.

Nel 1993, la squadra di Kuckelman aveva concluso che stavano scavando il luogo di un grande massacro. Sebbene abbiano scavato solo il 5% del villaggio, hanno identificato i resti di almeno 41 individui, i quali probabilmente sono morti violentemente. “Evidentemente”, mi ha detto Kuckelman, “il massacro ha posto fine all’occupazione di Castle Rock”.

Più recentemente, gli scavatori di Castle Rock hanno riconosciuto che alcuni dei morti erano stati cannibalizzati. Hanno anche trovato prove di scalpo, decapitazione e “rimozione del volto”, una pratica che potrebbe aver trasformato la testa della vittima in un trofeo portatile disossato.

I sospetti di cannibalismo Anasazi furono sollevati per la prima volta alla fine del XIX secolo, ma fu solo negli anni ’70 che un gruppo di antropologi fisici, tra cui Christy Turner dell’Arizona State University, spinse davvero l’argomento. Il libro di Turner del 1999, Man Corn, documenta le prove di 76 diversi casi di cannibalismo preistorico nel sud-ovest che ha scoperto durante più di 30 anni di ricerca. Turner ha sviluppato sei criteri per individuare il cannibalismo nelle ossa: la rottura delle ossa lunghe per arrivare al midollo, i segni di taglio sulle ossa lasciati da coltelli di pietra, ossa bruciate, le “abrasioni dell’incudine” risultanti dal posizionamento di un osso su una roccia e dal pestaggio con un’altra roccia, la polverizzazione di vertebre, la “lucidatura delle pentole”: una lucentezza lasciata sulle ossa quando vengono bollite a lungo in un recipiente di argilla. Per rafforzare la sua tesi, Turner rifiuta di attribuire il danno in un insieme di ossa al cannibalismo a meno che non siano soddisfatti tutti e sei i criteri.

Com’era prevedibile, le affermazioni di Turner suscitarono polemiche. Molti degli odierni indigeni Pueblo furono profondamente offesi dalle accuse, così come un certo numero di archeologi e antropologi anglosassoni che considerarono le affermazioni esagerate e parte di un modello remissivo verso i nativi americani.

Anche di fronte alle prove di Turner, alcuni esperti si sono aggrappati all’idea che la “lavorazione estrema” dei resti avrebbe potuto invece derivare, per esempio, dalla distruzione post-mortem dei corpi di emarginati sociali, come streghe e devianti. Kurt Dongoske, un archeologo britannico che lavora per gli Hopi, mi disse nel 1994: “Per quanto mi riguarda, non puoi provare il cannibalismo finché non trovi effettivamente resti umani nella coprolite umana [feci fossilizzate]”.

Alcuni anni dopo, il biochimico dell’University of Colorado Richard Marlar e la sua squadra fecero proprio questo. In un sito Anasazi nel Colorado sud-occidentale, chiamato Cowboy Wash, gli scavatori hanno trovato tre case a fossa, dimore semi-sotterranee, i cui pavimenti erano ricoperti dagli scheletri disarticolati di sette vittime. Le ossa sembravano portare la maggior parte dei segni distintivi del cannibalismo di Christy Turner. Il gruppo ha anche trovato coprolite in una delle case infossate. In uno studio pubblicato su Nature nel 2000, Marlar e i suoi colleghi hanno segnalato la presenza nel coprolite di una proteina umana chiamata mioglobina, che si trova soltanto nel tessuto muscolare umano. La sua presenza potrebbe essere dovuta solo al consumo di carne umana. Gli scavatori hanno anche notato prove di violenza che andavano oltre ciò che era necessario per uccidere: un bambino, per esempio, è stato colpito in bocca così forte con una mazza o una pietra che gli sono stati rotti i denti. Come Marlar ha ipotizzato alla ABC News, la defecazione accanto ai cadaveri da 8 a 16 ore dopo l’atto di cannibalismo “potrebbe essere stata la profanazione finale del sito, o umiliazione verso le persone che vivevano lì”.

Quando gli studiosi di Castle Rock presentarono alcuni dei loro manufatti a Marlar nel 2001, la sua analisi rilevò la mioglobina sulle superfici interne di due recipienti da cucina e di un recipiente da portata, nonché su quattro magli e due asce di pietra. Kuckelman non può dire se il cannibalismo di Castle Rock fosse una risposta alla carestia, ma dice che era chiaramente correlato alla guerra. “Ora mi sento diversamente riguardo a questo posto rispetto a quando lavoravamo qui”, mi ha detto una Kuckelman pensierosa nel sito. “Allora non avevamo il quadro completo. Adesso sento tutta la tragedia di quel posto”.

Che gli Anasazi possano aver fatto ricorso alla violenza e al cannibalismo sotto stress non è del tutto sorprendente. “Gli studi indicano che almeno un terzo delle culture del mondo hanno praticato il cannibalismo associato alla guerra, ai rituali o entrambi”, afferma Lipe, ricercatore della Washington State University. “Incidenti occasionali di ‘cannibalismo da carestia e fame’ si sono verificati probabilmente in qualche momento della storia in tutte le culture”.

Dal Colorado ho viaggiato verso sud con Vaughn Hadenfeldt fino alla Navajo Reservation in Arizona. Abbiamo trascorso altri quattro giorni a cercare tra i remoti siti Anasazi occupati fino alla grande migrazione. Poiché le escursioni nella riserva richiedono un permesso della Navajo Nation, queste aree sono ancora meno visitate dei canyon dello Utah. Tre siti che abbiamo esplorato si trovavano in cima alle mesas che si innalzavano da 500 a 1.000 piedi, ciascuna aveva solo un percorso ragionevole per raggiungere la vetta. Sebbene questi rifugi siano ora in vista da un’autostrada, sembrano così improbabili come siti abitativi (nessuno ha acqua) che nessun archeologo li abbia analizzati fino alla fine degli anni ’80, quando marito e moglie Jonathan Haas del Field Museum di Chicago e Winifred Creamer della Northern Illinois University hanno effettuato indagini approfondite e datato i siti utilizzando le età conosciute dei diversi stili di ceramica trovati lì.

Haas e Creamer avanzano una teoria secondo cui gli abitanti di questi insediamenti svilupparono una strategia di difesa unica. Mentre ci trovavamo in cima alla mesa più settentrionale, potevo vedere la seconda mesa appena a sud-est di noi, anche se non la terza, che era più a est; tuttavia, quando siamo arrivati in cima alla terza, abbiamo potuto vedere la seconda. Nella Kayenta Valley, che ci circondava, Haas e Creamer identificarono dieci villaggi principali che furono occupati dopo il 1250 e collegati da linee in vista. Non è stata la difficoltà di accesso a proteggere gli insediamenti (nessuna delle arrampicate che abbiamo fatto qui era paragonabile alle arrampicate che abbiamo fatto nei canyon dello Utah), ma un’alleanza basata sulla visibilità. Se un villaggio fosse stato sotto attacco, avrebbe potuto inviare segnali ai suoi alleati sulle altre mesas.

Ora, mentre sedevo tra le rovine crollate della mesa più settentrionale, riflettevo su come doveva essere stata la vita qui durante quel periodo pericoloso. Intorno a me giacevano frammenti di ceramica in uno stile chiamato Kayenta nero su bianco, decorato in un’elaborazione infinitamente barocca di minuscole griglie, quadrati e tratteggi, prova, ancora una volta, che gli abitanti avevano dedicato tempo all’arte. E senza dubbio i produttori di contenitori avevano trovato maestosa la vista dalla loro casa in cima alla mesa, come me. Ma ciò che rendeva loro la vista più preziosa era che potevano vedere arrivare il nemico.

Gli archeologi oggi sono generalmente d’accordo su quella che chiamano lo “scatto” che condusse gli Anasazi a fuggire dalla regione dei Four Corners alla fine del XIII secolo. Sembra che abbia avuto origine da catastrofi ambientali, che a loro volta potrebbero aver dato origine a violenza e guerre infinite dopo il 1250. Tuttavia, i tempi difficili da soli non spiegano l’abbandono di massa, né è chiaro come lo stabilirsi in un altro luogo avrebbe risolto il problema. Negli ultimi 15 anni, alcuni esperti hanno insistito sempre più sul fatto che deve esserci stato anche uno “strattone” che abbia condotto gli Anasazi verso sud ed est, qualcosa di così attraente da attirarli lontano dalla loro terra ancestrale. Diversi archeologi hanno sostenuto che lo strattone fosse stato il culto Kachina. Le Kachina non sono semplicemente le bambole vendute oggi ai turisti nei negozi di souvenir di Pueblo. Sono un pantheon di almeno 400 divinità che intercedono presso gli dei per garantire pioggia e fertilità. Ancora oggi, la vita dei Pueblo ruota spesso attorno alle credenze Kachina, che promettono protezione e procreazione.

Il culto Kachina, forse di origine mesoamericana, potrebbe aver preso piede tra i relativamente pochi Anasazi che vivevano nelle aree del Rio Grande e del fiume Little Colorado all’epoca dell’esodo. La prova della presenza del culto si trova nelle rappresentazioni Kachina che compaiono su antichi murali delle kivas, ceramiche e pannelli di arte rupestre vicino al Rio Grande e nell’Arizona centro-meridionale. Una tale evoluzione nel pensiero religioso tra gli Anasazi più a sud e a est potrebbe aver attirato l’attenzione dei contadini e dei cacciatori che conducevano un’esistenza sempre più disperata nella regione dei Four Corners. Potrebbero aver appreso del culto da commercianti che viaggiavano in tutta la zona.

Sfortunatamente, nessuno può essere sicuro dell’età delle immagini Kachina del Rio Grande e dell’Arizona meridionale. Alcuni archeologi, tra cui Lipe e Lekson, sostengono che il culto Kachina sia nato molto tardi per aver innescato lui la migrazione del XIII secolo. Finora, insistono, non esiste alcuna prova certa dell’iconografia Kachina in nessuna parte del sud-ovest prima del 1350 d.C. In ogni caso, il culto divenne il centro spirituale della vita anasazi subito dopo la grande migrazione. E nel XIV secolo, gli Anasazi cominciarono ad aggregarsi in gruppi ancora più grandi, erigendo enormi pueblos, alcuni con più di 2.500 stanze. Stephen Lekson afferma: “C’è bisogno di una sorta di collante sociale per tenere insieme pueblos così grandi”.

Il giorno dopo aver esplorato la Kayenta Valley, Vaughn e io abbiamo fatto un’escursione all’alba nel labirinto del sistema Tsegi Canyon, a nord della linea di veduta delle mesas. Due ore dopo, ci siamo arrampicati su una rovina di considerevoli dimensioni contenente i resti di circa 35 stanze. Il muro dietro le strutture era ricoperto di pittogrammi e petroglifi di pecore con grandi corna marrone rossiccio, uomini-lucertola bianchi, contorni di mani (create soffiando vernice pastosa dalla bocca contro una mano tenuta piatta sul muro) e uno straordinario serpente lungo 40 piedi.

Una struttura nelle rovine era la creazione Anasazi più sorprendente che abbia mai visto. Una piattaforma di legno di squisita fattura, inserita in un’enorme fessura sgargiante, era sospesa a più di 30 piedi sopra di noi, impeccabilmente conservata nel corso dei secoli. Era stretta nella parte posteriore e larga nella parte anteriore, adattandosi perfettamente ai contorni della fessura. Per crearlo, i costruttori avevano battuto dei fori a forma di coppa nelle pareti laterali e vi avevano incastrato le estremità scavate dall’ascia di massicce travi trasversali per il supporto. Queste erano sovrapposte con più travi, sormontate da un reticolo di bastoni e infine ricoperte completamente di fango. A cosa serviva la piattaforma? Nessuno che l’abbia vista mi ha dato una spiegazione convincente. Mentre fissavo questo capolavoro di falegnameria, ho giocato con l’immaginazione che gli Anasazi l’avessero costruita “solo perché”: arte, per amore per l’arte.

Sembra che il Tsegi Canyon sia stato l’ultimo luogo in cui resistettero gli Anasazi, mentre il XIII secolo volgeva al termine. Jeffrey Dean dell’Arizona Tree-Ring Laboratory ha datato il sito con la piattaforma di legno tra il 1273 e il 1285. Dean ha datato le vicine Betatakin e Keet Seel create nel 1286, due delle più grandi abitazioni rupestri mai costruite, i siti più antichi scoperti finora all’interno della regione abbandonata. Sembrerebbe che tutte le strategie per la sopravvivenza siano fallite dopo il 1250. Poco prima del 1300, gli ultimi Anasazi migrarono a sud ed est, unendosi ai loro lontani parenti.

“La guerra è uno studio lugubre”, conclude Lekson in un importante decisivo articolo del 2002, “la guerra nel sud-ovest, la guerra nel mondo”. Considerando la carneficina che aveva distrutto Castle Rock, la paura che sembrava insita nelle abitazioni rupestri dello Utah e le elaborate alleanze sviluppate nella Kayenta Valley, dovrei essere d’accordo con ciò.

Finora i miei vagabondaggi dello scorso inverno alla ricerca delle rovine del XIII secolo si sono rivelati un idillio prolungato. Per quanto pragmatiche fossero le motivazioni degli antichi, il terrore aveva in qualche modo dato vita alla bellezza. Gli Anasazi produssero grandi opere d’arte, villaggi come il Cliff Palace di Mesa Verde, allucinanti pannelli petroglifi, alcune delle ceramiche più belle del mondo, mentre la sua gente era capace di crudeltà e violenza. La guerra e il cannibalismo potrebbero essere state risposte alle evidenze che raggiunsero il culmine nel XIII secolo, ma gli Anasazi sopravvissero. Sopravvissero non solo all’eventuale crisi che colpì subito dopo il 1250, ma anche agli assalti della conquista spagnola nel XVI secolo e all’invasione anglo-americana iniziata nel XIX secolo. Dai Taos Pueblo nel New Mexico ai villaggi Hopi in Arizona, il popolo Pueblo oggi balla ancora le sue danze tradizionali e prega i propri dei. I loro figli parlano la lingua dei loro antenati. La cultura antica prospera.


Autore: David Roberts per Smithsonian Magazine

Fonte: https://www.smithsonianmag.com/history/riddles-of-the-anasazi-85274508/

Traduzione: Rossana Taddei per Come Don Chisciotte

Foto da: https://national-parks.org/united-states/mesa-verde


 

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