DI ALESSANDRO GILIOLI
Piovono rame
Va sfatato un mito, un pensiero erroneo ma estremamente diffuso: quello secondo il quale, trattandosi di società private, Facebook e gli altri colossi del web possono fare tutto quello che vogliono in modo assolutamente arbitrario e senza rispondere a nessuno se non a se stessi.
Va sfatato intanto per un semplice principio di buon senso che si applica a qualsiasi altra attività privata, cioè il rispetto per alcune regole di utilità collettiva: anche il ristoratore sotto casa è un’attività privata, ma se in cucina ci sono gli scarafaggi la collettività ha il diritto di intervenire per motivi igienici, cioè per l’interesse comune.
Allo stesso modo, non è accettabile alcun principio di «assolutezza» dei social network e delle corporation digitali rispetto alle società reali in cui operano: altrimenti, per coerenza, dovremmo ammettere l’idea che domani mattina uno di questi siti (o un negozio, o un’autostrada provata) possa proibire il suo ingresso alle persone con un particolare colore della pelle, oppure cancelli i contenuti di un determinato partito, perché tanto «è una società privata e può fare quello che vuole».
Ma c’è di più, per quanto riguarda alcuni di questi siti, come ad esempio Facebook e Google.
C’è cioè il fatto che la loro potenza, la loro forza, la loro diffusione ha fatto sì che ormai superano di gran lunga la dimensione della semplice potenzialità per entrare nella sfera del bisogno, quindi del diritto. Per capirci: in molti settori, ormai, un’azienda che non è su Facebook è come se fosse morta; lo stesso dicasi per un politico o per un giornalista, per un cantante, per un artista; e tante altre professioni ancora, per le quali l’esistenza sul social network di Zuckerberg è ormai una condicio sine qua non di sopravvivenza.
Possono, questi soggetti, rischiare di essere espulsi sulla base di un codice del tutto arbitrario e privato? È lecito ad esempio attribuire a un potere assoluto il diritto di espellere dal dialogo social un’azienda concorrente rispetto a un’azienda amica?
Ma, aldilà degli aspetti economici e professionali, senza le pagine biancoblu di Facebook, il paginone bianco di Google o i cinguettii di Twitter, una parte importante della popolazione del mondo oggi probabilmente si ritroverebbe isolata e impossibilitata a comunicare come ormai si è abituata a fare: le sue relazioni sociali, amicali, affettive sono quindi alla mercé di un gruppetto di misteriosi decisori che stanno da qualche parte nel mondo, tra l’Irlanda, l’India e la California, e che stabiliscono se, quanto, quando «bannarci», a loro insindacabile giudizio: e a loro solo ci possiamo appellare, non a un giudice terzo, se siamo stati parzialmente o totalmente espulsi.
Sul tema ha cercato qualche anno fa di sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica un acuto ricercatore e semiologo americano, Peter Ludlow, con un libretto intitolato «Il nostro futuro nei mondi virtuali» e con una serie di conferenze in diversi Paesi. Secondo Ludlow, «i mondi virtuali e i social network sono meno democratici delle nostre società reali e i gestori li amministrano come dittatori, senza rendere conto ai propri utenti-cittadini. Ne decidono il bello e il cattivo tempo. Se bandire qualcuno dalla community, per esempio. Man mano che i mondi virtuali acquistano popolarità, vengono gestiti in modo sempre più autoritario. Ed è qualcosa di cui preoccuparsi».
Per lo studioso americano, «se i network sono gestiti in modo non democratico né trasparente possono essere manipolati per servire gli interessi di un individuo invece che del gruppo; in secondo luogo, c’è il rischio che i mondi virtuali ci rendano avvezzi a vivere in ambienti poco democratici, dove sono aboliti quei diritti frutto di secoli di lotte, progresso e conquiste civili. In altre parole, le dittature on line ci rendono più passivi nei confronti di un possibile dittatore nel mondo reale».
E, di fronte all’obiezione che nessuno è obbligato a stare su Facebook o a usare Google, Ludlow risponde che «andarsene ha un costo personale e a volte economico crescente, in termini di relazioni, contatti affettivi e di lavoro che perdiamo: per molta gente siti come Facebook sono ormai indispensabili come strumento di business o altro». Sicché, secondo Ludlow, «è necessaria una sorta di nuovo illuminismo dei mondi virtuali, dove i gestori offrano nuovi strumenti per condurre esperimenti di democrazia: strumenti con i quali gli utenti stessi possano sviluppare i propri sistemi politici e di governance. La giurisprudenza del mondo reale, da parte sua, deve cominciare a considerare i mondi virtuali non più come proprietà di un’azienda, ma come vere “nazioni”. Altrimenti finiremo sotto il pugno di un despota ogni volta che andremo su Internet».
Insomma, non si può ridurre il problema a una mera questione di aziende private che possono risolvere tutto con policy arbitrarie.
L’allarme di Peter Ludlow sulla «tirannia dei mondi virtuali» è del 2010 ma da allora è stato completamente ignorato, tanto dalle corporation stesse quanto dai governi e dalla politica.
Molti i motivi, tra i quali l’egemonia culturale del mantra privatistico, diffuso in Occidente dai tempi di Reagan e Thatcher, ma mai davvero contestato neppure dalla sinistra.
Tuttavia, forse, tra le ragioni per cui nessuno cerca almeno di temperare un equilibro così sbilanciato c’è anche la graduale e contemporanea sottrazione di sovranità politica complessiva dagli Stati nazionali verso i vari poteri economici sovranazionali, un trend globale che ha reso molto più deboli i governi in generale; e una tendenza di cui anche il trasferimento «legislativo» dai codici degli Stati democratici alle policy delle corporation è nel contempo causa ed effetto.
E ancora, c’è dell’altro. Perché il fatto che le aziende digitali abbiano poteri così giganteschi nei confronti dei loro utenti in fondo non dispiace anche a pezzi degli Stati: quelli che sopportano con fatica sempre maggiore i diritti conquistati dai cittadininei secoli, dalla Rivoluzione francese in poi. E che quindi anziché opporsi alle norme autocratiche e tiranniche dei siti, le utilizzano: ad esempio, per ottenere informazioni.
Facebook, Google e Twitter gestiscono la quasi totalità dei canali attraverso i quali, nell’era del web, i nostri pensieri, le nostre opinioni e le storie che raccontiamo sono accessibili al mondo intero.
È fuor di dubbio che i giganti della Silicon Valley con i loro servizi ci abbiano sin qui offerto – e c’è da augurarci continuino a offrirci – una straordinaria opportunità di concreta attuazione della libertà di comunicazione. Ma è altrettanto evidente che, nel farlo – con la motivazione o la scusa che non ci chiedono neppure un euro – si riservano diritti e poteri che faremmo fatica a riconoscere a qualsivoglia governoe.
Tra l’altro, chiunque abbia esperienza di censure, espulsioni o “ban” temporanei sui social network sa che a volte questi provvedimenti sfiorano spesso il ridicolo. Si pensi solo all’ossessione puritana di Facebook, che arriva a rimuovere le fotografie di mamme che allattano i loro neonati, perché nelle policy c’è il divieto di mostrare il seno. Una proibizione che talvolta si estende alle opere d’arte con busti femminili nudi (alcune sì, altre no: è del tutto misterioso il criterio con cui il social network decide quali tette cancellare). E non si contano le pagine personali che in base a chissà quale segnalazione di abuso vengono azzerate, costringendo il titolare a una lunga trafila di mail e di contromail.
(Da Gilioli-Scorza, “Meglio se taci”, Baldini e Castoldi 2015)