Carta di Laura Canali – 2018.
Criminalizzare la Germania per aver mantenuto ferme le proprie coordinate economiche sconta la miopia con la quale ci si ostina a negare il fallimento dello Stato nazionale italiano e del progetto europeo. Lo Stivale sarà la cinquantunesima stella degli Usa?
Nel grande stress test dell’epidemia di coronavirus l’Unione Europea va in frantumi e il sentimento antitedesco è al diapason: vengono riportate frasi dei vari Klaus Regling e Peter Altmaier – presentati come mostri sadici anche da commentatori sobri e di alto profilo intellettuale – in base alle quali la Germania vorrebbe “Italia e Spagna in ginocchio”.
Indignazione, scatto di orgoglio nazionale. Fino alla telefonata inaudita di Mattarella, che protesta per la presunta “gaffe” della Lagarde, guidata ormai – come è opinione comune – dall’establishment tedesco. Di fronte a questo stato di cose si vorrebbe proporre un mutamento di prospettiva. Prendere atto non già che l’Ue è in crisi, o è (oggi) schiacciata dall’egoismo teutonico, ma che l’Unione Europea (chiamarla «Europa» è un equivoco esiziale) è un castello di cartapesta fin dal trattato di Maastricht del 1992, e comunque dalla nascita dell’euro.
Questo fantoccio ha sempre custodito nelle sue viscere un mosaico di forti fisionomie nazionali – o meglio di due fortissime fisionomie nazonali, francese e tedesca – con una cessione di sovranità solo parziale e sempre calcolata in funzione di un tornaconto privato. Dopo l’Ottantanove, la natura fittizia del progetto di Superstato europeo avrebbe dovuto apparire come il classico segreto di Pulcinella: la Germania, di nuovo in piedi, poteva ambire ormai a un rango di «potenza» che alterava in modo irreversibile gli equilibri europei.
Il primo ventennio del nuovo secolo ha infatti segnato – malgrado il basso “tasso di crescita”, divinità sopravvalutata dagli economisti – un graduale e inesorabile rafforzamento della Repubblica Federale, il cui baricentro si è intanto spostato verso est, fissando in Berlino una sorta di fulcro simbolico non tanto della Germania (di cui non è il centro) ma di uno spazio molto più ampio: l’area di influenza tedesca, già prefigurata in tempi non sospetti dallo strapotere del marco come spazio esteso da Helsinki a Belgrado, per non parlare di Bolzano, Zurigo, Vienna e degli stessi Paesi Bassi.
Lo spostamento a est dell’asse poltico-economico della nuova Germania poneva le basi per una cooperazione intensa con la nuova Russia post-eltsiniana, non più protettorato americano pro tempore: cooperazione sancita per esempio dal reclutamento di Gerhard Schröder ai vertici di Gazprom e dalla caparbia realizzazione del doppio gasdotto Nordstream, quasi un cordone ombelicale energetico sotto le acque del Mare del Nord. La prospettiva della simbiosi russo-tedesca – energia illimitata e straordinaria capacità di organizzazione industriale – ha abitato fin da subito come un incubo i sonni agitati dell’amministrazione americana diventando il «vitandum» per eccellenza della politica estera statunitense in Europa. Dalla guerra antiserba nei Balcani alla cosiddetta guerra civile ucraina, tutto si spiega con la decisione di Washington di interporre una zona cuscinetto militarizzata tra Mosca e Berlino allo scopo di stornare l’orrida simbiosi.
In questo quadro l’Unione Europea non c’è. Non per distrazione, ma perché nello scacchiere degli equiibri internazionali l’Unione Europea non esiste. È un caso, si potrebbe dire, di patologia ontologica: un non ente che, per varie ragioni, viene mantenuto in piedi come fantoccio, utile a mascherare – dietro vacue parole di fraternità erasmiana – la dura legge degli interessi nazionali e utilissimo, mai dimenticarlo, per nutrire le politiche di finanza speculativa che non appartengono però a nessun orizzonte “nazionale”.
La Francia continua imperterrita a mantenere le sue truppe nell’Africa sahariana e a far esplodere le sua atomiche a Mururoa, battendo il famoso colpo; gli inglesi, arrivati per ultimi e con un solo piede in Europa, perseguono irremovibili i propri disegni nazionali animando le varie “alleanze” antislamiche in Iraq e in Afghanistan; la Spagna, anch’essa non un paese fondatore, è troppo interessata alle ex colonie sudamericane per considerare davvero il proprio futuro in Europa.
Potenza non militare e senza alcuna ambizione di riarmo, un punto essenziale che sfugge alla maggior parte degli analisti, la Germania diventa in compenso una potenza “geoeconomica” di primo livello. Sottraendo di fatto al Giappone quel ruolo di competitore globale che Tokyo aveva svolto fino allo scigurato terremoto di Kobe del 1995. Ciò di cui la maggior parte dei commentatori e dei politologi italiani sembra non rendersi conto – ma che non sfugge all’amministrazione Usa, così come agli analisti più avveduti a Parigi e Londra – è che le dimensioni reali della nuova Germania superano ampiamente quelle in fondo modeste della sua estensione geografica.
Nel “Grande Gioco” del XXI secolo l’Ue non c’è.
In questo scacchiere è assente anche l’Italia. Perché anche l’Italia – protettorato americano dal 1945, riconfermata tale dopo il 1994 malgrado le bizze dell’outsider di Segrate – non esiste come paese sovrano. La sua vocazione di grande portaerei a stelle e strisce prevale su qualsiasi ambizione nazionale e si nasconde, pudica o meglio ipocrita, sotto le insegne fittizie di Bruxelles e Strasburgo, capitali inesistenti di un parlamento elettivo che non conta nulla, di una Commissione che è di fatto un comitato d’affari delle grandi aziende e del mosntrum della Bce: banca di un paese inesistente, camera di compensazione finanziaria di interessi nazionali e di megainteressi finanziari e speculativi.
Criminalizzare la Germania perché ha tenuto il timone fermo sulle proprie coordinate economiche, sfruttando le opportunità gentilmente offerte dal fantoccio europeista e da una moneta imposta da Mitterrand, significa non avere capito i reali rapporti di forza, la reale geografia economico-politico-culturale della nuova Europa. Continente fra l’altro niente affatto definito, con estensioni a est (Israele, forse la Turchia) e a ovest (il Nordamerica è in parte europeo).
Il problema non è la Germania, che si trova oggi in condizione di definire meglio le proprie effettive dimensioni e ambizioni, ma l’Italia: esperimento politico fallito sul piano dell’unità nazionale, eternamente spezzata in aree non omogenee. “Nazione culturale”, “donna delle genti”. Questa sì di primo livello.
Il fallimento dell’Italia come Stato nazionale continua a essere negato con ostinata miopia e nell’interesse del sistema finanziario, la famosa galassia del Nord, tra Torino, Milano e Trieste. Ma è un fallimento drammatico, dal quale originano tutte le politiche continentali ai danni di Roma, a cominciare da quella tedesca. La miopia che si rifiuta di ammettere il fallimento politico dell’Italia come Stato nazionale ha in realtà una sua ratio: ribadire una fittizia unità nazionale in termini di protettorato e presidio militare americano (e in parte britannico), da Aviano a Sigonella. Non è più un mistero per nessuno che le vicende politiche degli anni Settanta, Ottanta e Novanta siano state determinate da questo status subalterno, a cui possiamo ormai attribuire con certezza i famosi “anni di piombo” e la stessa Mani Pulite.
I recenti furori antitedeschi nascono insomma da un duplice errore di prospettiva: attribuire una parvenza di realtà a un’Ue che non esiste e agitarsi contro le legittime aspirazioni della nuova Germania, quasi su delega del padrone americano. È interessante notare come la pretesa vocazione antiliberista di molte proteste antitedesche porti in realtà acqua abbondante al mulino del vero neoliberismo, che non è quello teutonico ma quello angloamericano. Le proteste contro la Germania serviranno a far cadere il fantoccio, ma l’esito sarà, come da copione, la promozione dello Stivale a cinquantunesimo Stato dell’Unione. E’ troppo tardi, ormai, per raddrizzare la baracca e riportarla nel solco di una collaborazione italo-tedesca fondata sulla complementarità che per la strategia americana rappresenterebbe un incubo forse appena inferiore a quello della temuta simbiosi russo-tedesca.
È troppo tardi, ma è meglio saperlo.
Flavio Cuniberto