DI ALCESTE
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È sempre esilarante la cronistoria dei titoloni del Moniteur sul ritorno di Napoleone dall’Elba. Prima lo dichiarano mostro, usurpatore, orco, tigre, poi, allorché il Corso avanza incontrastato, divengono cauti, neutri; quindi eccoli slittare verso il servilismo: Napoleone diviene Imperatore; poi lo sbraco definitivo: il giornalone si genuflette sino a Sua Maestà, Deità circonfusa di gloria e inondata da nostalgici petali di rosa.
Non preoccupiamoci dei buffoni, vanno e vengono, come la risacca delle fogne.
Qui non si vuole un duce né un despota illuminato né un conducator: occorre selezionare una minoranza che vada oltre. Oltre l’ignominia, lo sberleffo, i processi, la colpa. Gli uomini di tale minoranza dovranno essere disposti a perdere tutto, a dimenticare la propria vita. Italiani di tal fatta saranno insensibili ai richiami della carità pelosa, della democrazia plutocratica, del piagnisteo internazionalista. Essi accentreranno in loro le uniche virtù che fanno i vincitori: la rinuncia a sé in nome di un’idea; e la magnanimità. Nulla li smuoverà. La caparbietà ne farà dei testimoni della reazione, ovvero dei martiri. Essi dovranno tenere i piedi per terra – ben in terra! – per attingere al passato come un Anteo ribelle e accendersi di quel fanatismo quieto che miscela il disprezzo e la ridente fatalità.
“Le nazioni non moriranno perché i loro uomini di stato sono nullità, i loro governi troppo cupidi, troppo ubriachi o troppo pederasti … i loro ambasciatori troppo chiacchieroni o perché esse stesse … Son diventate troppo arroganti, soprassaturate di ricchezze, schiacciate dalla loro industria, troppo lussuose o troppo agricole, troppo sempliciotte o troppo complicate. Tutto questo è senza rilievo, bazzecole passeggere, semplice cronaca della storia … Una nazione si rialza … solo a una condizione, questa condizione assolutamente essenziale, mistica, quella di essere rimasta fedele attraverso vittorie e rovesci agli stessi gruppi, alla stessa etnia, allo stesso sangue …”
Il mercenario Senofonte combatte vittoriosamente a Cunassa (fra le attuali Bagdad e Falluja). Il re per cui mettono in gioco le vite, il persiano Ciro, cade, però, in battaglia. I Diecimila greci sono costretti a ripiegare verso il Mar Nero, a Trapezunte (Trebisonda). Egli stesso, un uomo qualunque (“Un tal Senofonte, ateniese“), visti decimati per il tradimento di Tissaferne i propri comandanti, s’improvviserà generale e guida. L’anabasi sarà dura, sanguinosa; sofferenze, defezioni, scoraggiamenti, agguati, malattie. Nevai, paludi, corsi d’acqua gonfiati dalle piogge, cime da scalare con le lance che piegano il braccio. Ma sarà liberazione. Un cittadino di Gymnia (di cui nulla sappiamo o sapremo mai) farà loro da ultima guida verso il mare (“Il mare! Il mare!“); poi, anche lui, come l’uomo qualunque Senofonte, uscirà dalla storia: “Mostra loro un villaggio dove potersi accampare, e la strada per raggiungere il territorio dei Macroni. Calata la sera, si accomiata e s’allontana, scomparendo nel buio“.
Non serve un Bonaparte o un Mussolini o un Giulio Cesare. Serve conoscere la via e percorrerla a ogni prezzo. La via la conosciamo, è solo un ritorno. Esistono diecimila italiani in grado di percorrerla? In grado di annullare la propria personalità per un’idea? Basterebbe questo.
I Diecimila sono “Tessali, Spartani, Peloponnesiaci, Achei, Arcadi, Traci, isolani, un pugno di Ateniesi, gruppi dell’Asia costiera“, eppure Greci. Meditare questi cataloghi di popoli è sempre un buon esercizio.
Senofonte conosce la via. Quella è la verità, non altro. Quella la liberazione. Egli la persegue con menzogne, esortazioni, tranelli logici, seduzioni, richiami all’ordine o alla ferocia. Ci si intende?
Non ci salveranno i grafici, le proposte economiche alternative, la cronaca parossistica della realtà geopolitica e simili manfrine. Non siete ancora estenuati da tale cicalío? La paccottiglia tecnica, le dissezioni estenuanti e infinitesimali di intenti o dissimulazioni (è un false flag o no?), le accorte ricostruzioni, i piagnistei antimondialisti non servono a nulla se non si è qualcosa e, proprio per essere qualcosa, ci si oppone naturalmente al nemico. Occorre dire no ed esclamarlo con la serenità di chi conosce. In Siria i ciabattoni dell’Isis sono in rotta: si sono trovati di fronte un popolo che non ha mai rinnegato sé stesso ed è stato fedele a ciò che è sempre stato; per uno degli scherzi della storia sono stati proprio i fondamentalisti a rinunciare a sé stessi facendosi telecomandare a distanza.
Ed eccoli lì, evacuati come l’ultimo ascaro vietnamita.
Le soluzioni tecniche, non dobbiamo preoccuparci, fioriranno spontaneamente sull’albero del nostro rifiuto più irriducibile.
Chi non si commuove a fronte di quelle citazioni (Bagdad, Falluja, Trebisonda) non potrà mai far parte dei Diecimila. Se ne vada ai giardinetti, di notte, a sfogare le voglie più ecumeniche.
L’italiano cialtrone dei Gassman e dei Sordi è una degenerazione, certamente, ma la degenerazione di qualcosa di profondamente nostro. Quanti secoli ci son voluti per plasmare la gaglioffaggine degli Arlecchino, dei Tersilli o dei Bruno Cortona? E, poi, siamo sicuri che lo sia? L’italiano improvvisatore, campanilista, attaccabrighe, buono per i sotterfugi e il veneficio, formalista e causidico, problematico, sminuzzato in mille roccaforti, ognuno col suo piatto tradizionale e le proprie mura, cos’è se non un attore consumato ed eterno, che ha già vissuto battaglie, stragi, disincanti e resurrezioni?
I nostri ultimi cinquant’anni sono stati, quelli sì, una degenerazione.
Abbiamo vissuto non le nostre vite, ma quelle di altri, impersonali, alienanti, anonime.
Ci siamo abbigliati di abiti meteci, obbedendo alle regole di un postribolo etico. Le nuove generazioni sentono questo come naturale anche se, nel profondo dell’animo (che non è mai individuale), si ritrovano disperati. Chi, invece, ricorda cosa siamo stati non si lascia ingannare, pur se passivo e renitente all’azione. “Si stava meglio quando si stava peggio” è il mantra timoroso della plebaglia italiota. S’intuisce, oscuramente, una felicità perduta. Come spesso accade la reazione è basica, fascista. La comprendo, è umano salvare sé stessi. Ciò che i soloni di sinistra non hanno mai compreso è questo: non esiste il fascismo, bensì pulsioni ancestrali e di sopravvivenza, antiche come la vita, a cui, solo nel nostro secolo, si è dato il nome di fascismo. Ciò su cui biascica stizzita la Boldrini (“Fascisti! Razzisti! Alcesti!“) e il gallinaio mondialista e terzomondista alla sua Corte, è, invece, un movimento naturale dell’anima, immediato, involontario e inevitabile come la difesa del viso o dei coglioni, irrazionale, ma non irragionevole, anzi sensatissimo. Se la Boldrini comprendesse qualcosa dell’Italia si attiverebbe per spegnere il fuoco di tale sorgivo risentimento invece di ciangottare di immaginari revanscismi.
Il fascismo (come il socialismo e il populismo), lo ripeto, non esiste. È solo una comoda metafora per etichettare l’insorgenza naturale d’una pulsione primeva originata da precise condizioni storiche; sempre le stesse, pur nell’ingannevole mutare dei variopinti costumi e della caleidoscopica permutazione delle parole, queste battone del pensiero.
Si può fare il processo a un sentimento? No. Il processo lo si dovrebbe istruire contro chi ha creato le condizioni per l’inveramento d’esso. Chissà che non ci si arrivi.
C’è più discernimento storico in Checco Zalone che nei farfugliamenti di Saviano o degli accademici da strapazzo delle nostre università da strapazzo.
Quo vado è un filmetto, ma ci squaderna davanti un’Italia cialtrona e vitale, l’unica possibile oggi. La storiella del terrone mammone, avvitacchiato al posto fisso da statale, e fedele ai propri vizî contro l’incivilimento PolCor, è cinematograficamente mediocre, ma sociologicamente centrata.
Quando l’italianuzzo cerca di “incivilirsi”, sembra dire il pugliese, perde la propria identità. Il protagonista, infatti, trapiantato a forza nel Nord Europa, diviene ossequioso alle regole, accetta la famiglia multirazziale, raccoglie i fazzoletti per strada, tollera con larghezza di vedute le scappatelle foriere di (eventuali) corna (la donna dev’essere libera!), sopporta uno straziante e interminabile concerto per l’Olocausto: diviene un vero figlio dei fiori (si lascia crescere un pizzetto tinto di biondo, così come Manfredi in Pane e cioccolata si tingeva nello sforzo di de-italianizzarsi): un omuncolo leccato e innocuo, insomma, l’europeo castrato degli ultimi tempi, come piace alle Lagarde di ogni risma.
Ma si può vivere a comando di un’etica imposta a colpi di terrore ideologico? Educati, puliti, inebetiti, appiattiti, omologati alle smancerie di un totalitarismo buonista? No. E infatti il Nostro si ribella, incitato da una lacrimosa nostalgia. Nostalgia di tutto: degli improperi stradali, del clientelismo, di Albano e Romina, della pasta ben cucinata, delle ciliegie. Si commuove persino alla vista di una macchina in doppia fila. C’è tanta Italia anche lì!
Si possono dire le cose in tanti modi. 4/3 equivale 52/39, per quanto possa sembrare incredibile a prima vista. Le pulsioni son sempre quelle, la storia gira eternamente attorno a esse. Zalone è 4/3; Maurice Barrès, che dedica un libro ai Francesi déracinés, resi stranieri in casa propria, lo stesso Barrés che esclama: “Rivestiamoci dei pregiudizî, essi ci tengono caldo“, è 52/39.
Far sentire gli Italiani stranieri a casa propria è stato un capolavoro, lo riconosco.
Farli vergognare d’essere stati ciò che sempre sono stati, anche.
È ora di tornare a casa.