In tempi di grande reset economico, ma soprattutto politico e culturale è utile ricercare e approfondire idee diverse e plurali che sfuggono alla narrazione dei poteri dominanti e porle al dibattito pubblico; quella che segue è una intervista che farà discutere, almeno è quello che speriamo.
La Redazione
Di Adam Bark
Il vecchio mondo basato su ben definite sistematizzazioni ideologiche è tramontato, esalando il suo ultimo respiro sotto le macerie del Muro di Berlino. Il crollo dell’Unione Sovietica ha segnato la fine dell’era delle ideologie moderniste e la vittoria definitiva del modello liberal-capitalista occidentale. Sistema totalitario quest’ultimo, che si aggrega il diritto di dogmatizzare la propria filosofia asservendone i principi di tutto e per tutto all’ interesse del capitale finanziario. In ultimo, da perfetta sovrastruttura della tirannia di mercato, il liberalismo evolutosi nell’ attuale forma post-ideologica annuncia di essere l’unico garante del panoramo politico.
Di conseguenza, l’evoluzione sostanziale del sistema in atto pone noi, “nemici della società aperta” di popperiana memoria, di fronte a un bivio. Possiamo continuare a percorrere vecchie strade già battute, riprendendo analisi, simbolismi e retoriche obsolete del secolo scorso, oppure cercare di evolvere le nostre dialettiche affinché siano in grado di combattere l’anonimità sradicante del globalismo post-moderno. In questa mia ricerca, ho avuto il piacere di conoscere Giovanni Amicarella, militante ed editore che dedica la sua gioventù alla ricerca e formulizzazione di una nuova, vitale e rivoluzionaria “Via italica al socialismo”, di cui parleremo nell’intervista.
Prima di inoltrarci, desidero aggiungere una breve nota personale. Sono un militante che lotta per il Territorio Libero di Trieste (di cui abbiamo trattato negli articoli TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE: IL SEGRETO CHE FA TREMARE WASHIGTON e GLI INTERESSI NATO PUNTANO SU TRIESTE E IL SUO PORTO FRANCO) , di etnia slovena e nativo autoctono di questa terra plurietnica di frontiera dalle profonde cicatrici derivanti dalle violenze nazionaliste del secolo scorso. Di conseguenza per formazione, storia famigliare e vedute politiche non posso dire di nutrire alcun romanticismo di stampo risorgimentale. Dall’ asburgica Trieste, Roma mi è sempre sembrata una città distante per storia e identità, la cui bellezza, peraltro, non ho mai visitato. Inoltre, l’entità statale che vi ha sede si è storicamente rivelata asservita agli interessi della classe dominante, che ha fatto del nazionalismo il proprio vessillo di oppressione.
Tuttavia, non identifico il pensiero di Amicarella con il nazionalismo “patriottardo” sopra citato. Al contrario, la patria assume la sua definizione autentica, quella di essere la terra dei padri e non un artificio di matrice borghese utilizzato per la sistematizzazione e assimilazione delle pluralità etno-linguistiche presenti su un territorio. Alla radice della sua concezione di socialismo italico vi è la consapevolezza dell’intrinseca unità tra l’amore per la terra in cui giacciono i nostri avi e la lotta emancipante dei popoli che la abitano. Un’idea di fondo che, pur partendo da un contesto storico e geografico differente, faccio pienamente mia.
- Definiamo il nemico: contro chi e/o cosa stiamo lottando?
Il nemico è il capitalismo, che se vogliamo può essere tranquillamente visto come un insieme di punti di contatto: ad oggi sicuramente quelli più visibili sono il capitale finanziario, l’usura e il sionismo, che esercitano una pressione sui ceti popolari sempre più tangibile. Ad esse si legano quegli ambienti politici con una visione del mondo completamente avversa alla coesistenza fra nazioni, al benessere del lavoratore e alla possibilità che ogni paese trovi la propria sintesi politica tenendo di conto delle proprie peculiarità, che in altro periodo storico si sarebbero definiti “reazionari”. Il nostro nemico insomma è uno, ma ha molte facce, e sottovalutare la portata anche solo di una ci porta ad essere incapaci di combatterlo.
- Per combattere questo nemico abbiamo bisogno di una concettualizzazione che formi gli animi alla lotta. Ha senso riprendere vecchi modelli ideologici? O abbiamo bisogno di una nuova teoria politica?
L’approccio dovrebbe essere mediano. In realtà, analizzando storicamente lo sviluppo delle concezioni politiche che raggruppiamo nel termine ideologie, non si ha mai un’ideologia ex novo, ma sempre uno sviluppo che a tratti riprende anche il concetto di sintesi hegeliana fra elementi critici e filosofici precedenti, così è stato per tutte le correnti di socialismo che valga la pena analizzare ad oggi. Serve insomma una nuova idea che abbia radici ben piantate e si può dire che sia così che nasce la concezione di “socialismo italico”.
Seppur non sia nuovo il voler affrontare la questione nazionale di pari passo con quella di classe, basti vedere le analisi dei paesi con cui siamo in contatto come Vietnam, Corea popolare, Venezuela e Cuba, è del tutto nuovo per il contesto occidentale l’approccio che noi ed altri ne stiamo avendo, ed è uno sviluppo ideologico che lentamente si vede emergere in più parti dell’Occidente. La lettura assolutamente comune è delineare il sistema etno-culturale, valorizzarlo e prenderlo a riferimento come substrato su cui costruire il socialismo. Sia chiaro: ciò non vuol dire, come in esempi tragicomici già visti o in via di decadenza, scimmiottare il patriottismo con istanze scioviniste o usarlo come scusa per annacquare la questione di classe. Allo stesso modo è inaccettabile l’antipatriottismo, distante dalla classe lavoratrice e stantio nella retorica.
Per quanto l’analisi marxista sia in molti punti ancora attuale, viene da vedere con una certa diffidenza di chi crede di poter applicare religiosamente scritti nati per essere tutto tranne che religiosi, da qui la necessità di aggiornare ed adattare alle condizioni. Un esempio della stupidità “ortodossa” lo si è visto con le proteste degli agricoltori, tema caldo su cui gran parte del movimento comunista si è schierato contro chi protestava nonostante dall’altra parte ci fosse l’istituzione borghese per eccellenza. Ci sono stati poi dei ravvedimenti, con formazioni che hanno fatto sparire le critiche e le hanno rese elogi, ma ormai il danno era stato fatto. Secondo i detrattori, erano proteste borghesi. Il problema è che gran parte degli agricoltori ad oggi hanno terreni in affitto o sono contoterzisti, cioè proprietari del mezzo ma non del terreno che vengono chiamati a lavorare. Ciò fa intuire quanto certe incrostazioni a livello ideologico finiscano a pesare sulla pratica, noi a quelle manifestazioni c’eravamo e dalla parte giusta.
L’altra necessità di rinnovare viene dal contesto politico, da inizio 2023 ad oggi sono nate almeno quattro o cinque formazioni che hanno per perno l’ unità comunista”, dicono le stesse cose e hanno le stesse posizioni. Cosa cambia? Chi ha in mano la dirigenza. Non serve a niente fare unioni posticce sul feticismo del simbolo e dell’etichetta, andiamo alla sostanza.
- Il patriottismo è quindi, come lo è stato ad esempio in Jugoslavia e Vietnam, una scintilla che accende la lotta popolare?
Esattamente. Il contesto italiano non è del tutto coloniale, è più propriamente un contesto sotto imperialista, o imperialismo sottone se vogliamo essere sarcastici. Ci rendiamo partecipi, seppur con maggioranza popolare contraria, ai vari scenari di guerra e forniamo supporto attivo nel sostegno diplomatico a chi li porta avanti. Una condizione di limbo per cui non siamo imperialisti di prima classe ma neanche un paese propriamente occupato colonialmente, seppur trattato alla stregua di tale. Si tratta di un’importante distinzione da fare per evitare di cadere in retoriche che potrebbero rischiare di abbagliarci.
- Il contesto italico è etno-culturalmente molto vario. Come si esprime questo “nazionalismo emancipante” dal punto di vista dell’identità?
È una visione che ne tiene conto. Uso “socialismo italico” e non “italiano” per racchiudere la questione dell’identità all’interno della nazione. L’Italia non è un unicum: ha rappresentato per diversi periodi storici un qualcosa di innalzante e non un qualcosa di limitante. Ci sono però stati casi in cui si è cercato di sopprimere queste differenze, spinta tipicamente sabauda. Le nostre differenze etno-culturali interne vanno esaltate e preservate, non devono diventare motivo di divisione, ma ulteriore motivo di orgoglio.
- Faresti la similitudine con un modello federale, magari alla Jugoslavia?
Relativamente. Lo dico con estrema schiettezza: bisogna arrivare alla condizione dei partiti e a una rappresentanza diretta dei lavoratori per aggirare quelle che sarebbero altrimenti ennesime istanze di burocratizzazione del potere politico. Mi rifaccio al sindacalismo rivoluzionario per questo, una concezione in cui il lavoratore è un rappresentante in sé stesso, e da qui bisogna riprendere anche la concezione nazionale di una partecipazione collettiva. Potrebbe essere un modello federale, ma non analogamente; qualcosa di più organico, un “centralismo decentralizzato” se si vuole fare i sofisti. Sono modelli di cui l’espressione esatta va ancora sviluppata, ma la cui riorganizzazione sociale è già delineabile da analisi già realizzate nel merito.
- Come andrebbe riorganizzata l’economia tenendo conto di classe e patria?
Risposte immediate non ci sono, e chi si professa con risposte pronte in tasca tende a tralasciare il cambiamento delle condizioni in atto. L’obiettivo principale e concreto è la creazione di un sistema sociale socialista nella sua essenza, che metta al centro il lavoro e il lavoratore. L’organo principale decisionale deve essere un’unione di lavoratori; pertanto, l’organizzazione sociale della patria segue quella dell’economia e viceversa. Ci si ritrova in un sistema dove non c’è necessità di partitocrazie, bensì una serie di organi formati da lavoratori che prendono decisioni reali, non come nelle democrazie borghesi. Lo stato viene riorganizzato, e l’economia e la politica girano intorno a chi effettivamente lavora. Nell’attuale sistema, il politico è un burocrate; ma in un contesto socialista, è un componente organica della società che assume il proprio ruolo grazie alle sue competenze, se vogliamo usare un termine ad oggi molto storpiato, per pura meritocrazia.
- Quali sono le figure d’ispirazione storiche su cui dovrebbe fondarsi la “via italica al socialismo”?
La Carta del Carnaro applicata a Fiume dal sindacalista Alceste de Ambris fu un’esperienza molto avanzata per l’epoca, sia per le libertà civili e sociali garantite in un contesto storico dove ancora si sparava sulle folle che scioperavano, sia per il modello di societa’ che si voleva portare avanti. Un altro spunto è il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che parlava dello sciopero come un mezzo e non un fine in sé stesso, a differenza della concezione sindacale moderna. Accanto a Sorel aggiungerei anche la figura di Filippo Corridoni, molto vessata a causa della sua amicizia con Mussolini seppur prima della sua svolta fascista. Scrisse il testo “Sindacalismo e Repubblica”, dove sottolinea che bisognasse cambiare la società senza necessariamente scadere nell’ottica anti-patriottica, ma anzi ponendola al centro della questione politica. Tra gli illustri anche il nome, poco noto nel contesto europeo, di De Leon, che riuscì a unire la prassi leninista a quella sindacalista. Secondo De Leon, bisognava avere un partito sindacalista accanto ai sindacati, una doppia lotta: avere un partito che rappresentasse i bisogni di classe e un sindacato che rivendicasse quei bisogni con l’azione diretta.
- Passando al contesto geopolitico, il mondo multipolare e il BRICS: è un’opportunità o semplicemente un riordino del modello capitalistico? O magari un po’ di entrambe?
All’interno del BRICS ci sono opportunità e criticità. Gli stati membri, talvolta per nulla socialisti, sono potenze che cercano di staccarsi dal sistema occidentale, chiaramente assumendo un ruolo di decolonizzazione e di conseguenza progressista. Non sono però né una “manna dal cielo” né l’internazionale proletaria. Si sta anche creando un nuovo ordine sociale e geopolitico, non sempre strettamente all’interno del BRICS: ci sono delle sfere di paesi in Africa, nel sud-est asiatico e in Sud America che stanno facendo accordi sempre più stretti tra di loro. Deve essere chiaro che i BRICS sono solamente un passaggio; sono i paesi che si uniscono su basi sovranazionali il futuro scacchiere politico su cui si decideranno i successivi sviluppi internazionali.
- Si potrebbe nel nostro caso parlare di eurasiatismo come modello geopolitico alternativo all’atlantismo?
Non ho niente in contrario alla visione originaria dell’eurasiatismo, ovvero l’unione dei popoli russofoni in un’unica sfera che si concluda alla frontiera della Bielorussia e dell’Ucraina. Per quanto riguarda però la nostra sfera, quella Mediterranea, la situazione è diversa. Il Mediterraneo ha una varietà enorme di contesti socio-culturali diversi e peculiarità economiche che lo rendono distinto dalla tellurocrazia russa. Siamo una civiltà di mare, o talassocratica, che si sviluppa in un contesto molto diverso dalle società con terre vastissime. C’è una comunanza tra chi si affaccia sul Mediterraneo, che potrebbe in futuro diventare un’alleanza sovranazionale simile a ciò che sta nascendo in altre parti del mondo. Come disse anche un’insospettabile Gheddafi in merito, bisogna recuperare il “Mare Nostrum” come uno spazio di equilibrio. L’Europa, d’altro canto, è secondo me uno dei più grandi costrutti etno-sociali del secolo scorso. Basta pensare che fino a poco fa, la penisola iberica, quella italica, quella ellenica e tutti i Balcani non erano considerati neanche europei. Non vedo perché dovremmo avere comunanze con paesi a cui siamo sempre stati subordinati o che ci hanno sempre percepito come tali. Un’unione Mediterranea funzionerebbe come difesa delle identità, dell’indipendenza e dei centri economici che fanno molta gola alle potenze europee e all’America.
- Ultima domanda: la linfa delle rivoluzioni sono i giovani. Che messaggio lanceresti per il loro auspicabile risveglio dal nichilismo?
Ci tengo a precisare una questione legata al termine nichilismo, perché è vitale per la risposta. Esiste il nichilismo passivo, quello di accettare con passività, e il nichilismo attivo, che è la volontà di potenza nietzschiana. La situazione oggi è critica: c’è un collasso economico in arrivo, una terza guerra mondiale, pare, alle porte e tanti giovani lo hanno capito. Il problema sta nel rifugiarsi in espressioni ideologiche che hanno fallito nel passato, quando ciò che bisognerebbe fare è unirsi dietro a un’idea comune che sia innovativa senza perdersi in sofismi e miraggi. Affinché questa concettualizzazione nasca e si sviluppi del tutto, serve una minoranza formata, ovvero un’avanguardia. Ciò non vuol dire perdersi in vani teorismi e pubblicazioni cartacee autoreferenziali; è essenziale che il militante vada in piazza. Coltiviamo le idee che abbiamo senza chiuderci in noi stessi, ma teniamo conto che finché non sorgeranno le effettive condizioni che svegliano il popolo, è difficile che avvengano le rivoluzioni. Sta a noi porne le basi, o subirne le conseguenze.
Di Adam Bark
23.07.2024