Tra le ultime spettatrici di “Parthenope” di Paolo Sorrentino, non posso astenermi dal dare un contributo alla lettura di quello che è senza dubbio un capolavoro. Dalla mia ho un vertice d’osservazione che dovrebbe rendere il mio intervento quantomeno curioso, la psicoanalisi odierna.
Del fatto che siamo di fronte a un’opera notevole è prova la sua ineffabilità, vale a l’irriducibilità ai meri codici del linguaggio e della ragione. Gran parte dei significati trasmessi è destinata a rimanere “lost in translation” per via dell’oggettiva intraducibilità delle immagini simboliche in parola. È inoltre inesauribile la mole di apporti, riflessioni, sollecitazioni pulsionali che offre. Tanto ricca da avvicinare la densità simbolica della pellicola a quella di un “mito contemporaneo”.
Come ogni buon romanzo di formazione, il film ci sfida a raggiungere una presa di posizione nuova, ironica o amara, disperata o arresa, di quel mistero che è “vivere nel tempo concesso”. Oppure, ci induce a pervenire a una revisione inedita e del tutto personale di come lo abbiamo usato, il nostro tempo, del senso che ha avuto. Proprio come accade all’anziana Parthenope, interpretata da Stefania Sandrelli nell’ultima scena del film. Dopo una disincantata presa di coscienza delle sconfitte di una vita, la protagonista sembra qui ritrovare la freschezza dello sguardo giovanile, questa volta goduta in maniera consapevole, e rifondare un potenziale progetto di sé per gli anni a venire. Ha negli occhi l’amore di sempre, la sua Napoli, e ha ritrovato il contatto con il suo Sé originario, quel dono che è unico e solo nostro, talmente segreto da essere semisconosciuto talvolta persino a noi stessi, da nascondersi e riapparire nelle alterne vicissitudini della vita. Forse, è qui che capisce che… il vero problema non era “trovare la risposta giusta alle domande”.
Sorrentino dà una chiave di lettura che ci porta abbastanza vicini a cogliere il senso dell’indagine: “Il film nasce dall’idea che l’avventura del passaggio del tempo nella vita di un individuo è qualcosa di epico, qualcosa di maestoso, di selvaggio, di doloroso e meraviglioso”.
L’estetismo, che risolve in eleganza l’antropofania spettacolare di personaggi barocchi, talora sordidi, sempre onirici e sublimi, ispessisce la “quarta parete” immaginaria che separa lo spettatore dal film. L’apparente freddezza dello sguardo rende ancora più potente l’impatto emotivo delle scene, che ci entrano dentro proprio perché il Bello ha abbassato le nostre difese. È un Bello da fare invidia. Uno dei moventi delle polemiche che ha suscitato il film non può infatti che essere la sindrome di Stendhal, che ci fa sentire piccoli piccoli al cospetto di qualcosa di tanto più grande di noi. Chi si sente piccolo a volte prova invidia, e altrettante volte deve distruggere.
Il senso del Bello, qui, è talmente maturo e originale da vincere il confronto con lo stereotipo, da integrare benevolmente l’olografia e superarla creando qualcosa di noto e di antichissimo, sì, ma assolutamente nuovo. Non a caso la produzione Saint Laurent, per la direzione creativa del belga di origini italiane Anthony Vaccarello, veste di abiti soltanto “liberamente ispirati” alla moda dai ’50 al 2024, dando in realtà vita a un universo vestimentario del tutto originale.
Antichissima e nuova è anche la neonata Parthenope, venuta al mondo tra le acque del mare, bacino immemoriale della vita sin dalla sua apparizione sulla terra. Il mare a Napoli è dappertutto, e come ogni nuovo nato, Parthenope che ne scaturisce è un piccolo “Messia”, un’occasione irripetibile di rinnovamento del mondo. Aspettative “magiche” di questo tipo vengono testimoniate dal bizzarro “compare d’anello”, il grasso armatore biancovestito che ha fatto fortuna in America e porta in dono, Re Magio arrivato su una nave, una fiabesca carrozza bianca e oro: i bambini che vi dormiranno dentro potranno sognare e guardare sempre avanti! Come ha saputo fare lui.
“È femmina, lo sapevo!”, dice con rapita speranza, come se avesse atteso da sempre qualcuno che avrebbe dato corpo e voce all’ideale assoluto di una femminilità che sconvolgerà il mondo. E la piccola Parthenope sarà, davvero, una bellissima incantatrice.
Per un verso verrà irretita in questa “missione” di bellezza di cui è investita, sedurre il mondo. Per un altro, verrà catturata da una sotterranea passione che perseguirà con tenacia, come fosse un invisibile tèlos verso l’autorealizzazione. È così per tutti i giovani abbastanza robusti da concedersi di sperimentare: c’è una specie di tensione costante, di daimon, un “demone del talento personale” che li chiama all’ avventura, alla sperimentazione di sé alla ricerca del vero tesoro interiore da valorizzare. Lei crede che la missione sia trovare “la risposta giusta”. In realtà, quanto cercherà sarà soltanto “la risposta”, scoprendo che “quella giusta” non le interessa, quella “vera” sì.
La folle domanda è: perché sono stata chiamata a questo, con queste aspettative d’altri, con una missione di cui non so? Perché in parte recito questo copione mai scritto, soltanto innescato da genitori belli e inaccessibili, uno depresso e fragile, l’altra anaffettiva e presa da sé stessa? Che senso ha la misteriosa teoria di posti e facce, sceneggiate e amori futili che trovo in questa città? Perché la bellezza di Napoli può incantare, ma a volte avvelena il cuore?
Sarà più presa dalla necessità di rispondere a sé stessa che da quella di amare. Apparentemente sfida l’amore con tenacia, divertimento, sofferenza; nella realtà lo scarta quasi subito: non ci crede abbastanza.
Nel mentre cerca conferme, gioca con sé stessa e con il maschile all’antico e appagante gioco della seduzione, il cui ritroviamo un sapere femminino oggi prossimo a scomparire. Miracolo della natura, l’ammaliatrice è colei che sa valorizzare la bellezza investendola prima di tutto della sua fede, del suo desiderio, della convinzione incrollabile d’esser “degna di tutto”.
Esercita una seduzione maliziosa, che come tale dev’esser sempre “promessa mai mantenuta”. Chi ambisse ad averci a che fare, a possedere o domare la portatrice di quel dono divino dovrà faticare non poco… Pazienterà, soffrirà, attenderà corrodendosi nel desiderio.
È nello spazio dell’assenza che il desiderio (in questo caso maschile) si nutre delle immagini, delle ipotesi, delle teorie su quello sconosciuto che è l’Altro.
Le ragazze di oggi spesso dimenticano la sapienza sul desiderio,
anche a causa di una malintesa cultura d’importazione che impone di mortificare il trionfo della vitalità maschile e femminile.
Lo stesso Sorrentino s’è espresso al riguardo in un’intervista su Vanity Fair: “A me pesa tantissimo questa nuova ideologia, la deriva del politically correct. Per me è diventato molto difficile scrivere, non solo per la censura che c’è oggi ma peggio per l’atteggiamento censorio che scatta con me stesso. Lo riscontro anche in tanti miei colleghi… Oggi molte persone che aderiscono alla nuova ideologia lo fanno con molta più paura, perché qualsiasi cosa può risultare un’offesa. E poi c’è il problema del punto di vista. Venendo al film Parthenope, per esempio, il fatto che io sia maschio, bianco e che decida di raccontare una donna a modo mio, per alcuni è un problema. Dieci anni fa non lo era. Questo film se fosse stato fatto da una donna probabilmente avrebbe suscitato reazioni diverse. E probabilmente sarebbe stato fatto diversamente e anche meglio, devo essere onesto. Ma non è questo il punto: oggi esiste un sospetto sulla libertà artistica».
A Parthenope è facile rimandare capricciosamente gli inviti del milionario con l’elicottero e illudere il giovane giardiniere con una improvvisa “calata” di reggiseno.
Le sue avventure con la seduzione, tra il serio e il faceto, sfiorano sempre la tragedia: ne va di lei, dell’uso che saprà fare del mondo o dell’uso che un mondo a volte impietoso, a volte vuoto, a volte avido e immorale può fare di lei.
Così, il primo fidanzato “alternativo” è un’”anima persa”, talmente fragile da non costituire un pericolo, tuttavia tanto dedito alle droghe da non poter dare a lei alcuna attenzione, regalandole uno specchio vuoto che non può renderla felice.
Il quarantenne milionario “sedotto e deluso” tenterà di ferirla a causa della sua invidia e del suo livore.
Lo scrittore ubriaco, improponibile per via dell’età matura, della fisicità sfatta e delle sbronze colossali, non può amarla perché “non ho ancora capito se mi piacciono gli uomini o le donne”.
È il maschile più poetico che incontra, perso nei suoi dilemmi teorici e nell’ amore impossibile per una vita che non può comprendere né abitare. Parthenope ne amerà la disperazione, per via del fatto che si identifica con lui.
Le spiagge conosciute ma insidiose del terrazzo di casa, che lei tarda ad abbandonare, non portano bene: sono abitate da una pseudoincestuosità morbosa e difficile, venata di sofferenza nel triangolo con il fratello e l’amico di sempre.
È un gioco pericoloso, ma pur sempre un’esperienza di cui per via della coazione a ripetere non può fare a meno. Ha infatti subito la seduzione, poi i continui abbandoni dell’unica persona capace d’interesse affettuoso per lei: un padre fragile, distratto da una depressione che lo pone sempre a un passo dalla follia.
La condotta vicina all’isteria che Parthenope assume è dunque dovuta a una profonda sfiducia e da un reale terrore di una vicinanza affettiva. Seduce, ma non può amare.
Nel mentre raccoglie piaceri narcisistici, briciole a sostegno di un Sé in bilico. È la miseria di una società futile che compensa i suoi figli con piccole glorie inutili, mentre li depriva nel profondo.
Per via di un incidente, la danza sull’abisso si fa trauma: il suicidio del fratello, fragile come il padre, devierà per sempre la sua ricerca d’identità, poiché sarà la conferma allucinata della tesi inconscia che le fa pensare che nei meandri dell’amore si nascondono pericoli inauditi.
La carrozza bianca della nascita, portatrice di ogni speranza di rinnovamento, viene qui sostituita da quella nera di un lutto, in cui file di cavalli trainano una bara nella dignità di una cerimonia “bella, poiché umana”. Fino a che il corteo funebre viene bloccato nel procedere da un mostro meccanico dai mille tentacoli, che emette fumi e rumori impensabili: “è arrivato il colera!”
In realtà, questo simbolo criptico sembra alludere alla fine dell’umano, al trionfo dell’incomprensibile nella vita personale e anche nel percorso della civiltà dell’epoca. Era giunto il momento in cui la meccanizzazione delle procedure, che sfocerà nel trionfo della tecnica e del mondo rigidamente istituzionalizzato e compartimentato cui darà vita, allontanando per sempre l’uomo da sé stesso, dall’appartenenza a una comunità vividamente sentita… dunque, da una qualche felicità possibile.
Nonostante tutto, la nostra eroina porta avanti la sua ricerca intellettuale, e in essa incontra la prima figura di adulto che le restituisca attenzione e autentica stima: è il professore di antropologia. La collusione tra i due nasce dal condividere la “difesa sana” della passione intellettuale che frappongono tra sé e la realtà. Protetti dall’elocubrazione teorica, i due potranno liberamente amare l’umanità studiandola, senza troppo “sporcarcisi le mani”.
Verrà momentaneamente distratta da una ricerca parallela, quella che vuol portare alle estreme conseguenze l’uso della bellezza per trionfare nel mondo. “Tu sì ‘na diva!”, le dicono tutti: dunque Parthenope prova a fare l’attrice, cercando di capire se, visto che non le dà l’amore, la bellezza potrà portarle la fama.
Gli incontri in cui incappa la convinceranno che quella dote non può essere che difficilmente monetizzata attraverso l’abilità. I personaggi che incontra hanno fatto scelte estreme: la ferita profonda della grande attrice, un’umiliante alopecia che nasconde con una rigogliosa parrucca rossa, rivela lo iato tra l’”Io protesi” inflazionato inventato dalla stessa per fingersi eccelsa e la segreta coscienza di una menomazione fatale.
Analoga sorte colpisce l’ex attrice sfigurata nel tentativo di fingersi giovane attraverso un lifting: è ridotta a mendicare sesso ricattando la giovane allieva.
Un brulichio di personaggi schiavi della loro meschinità e delle loro ferite narcisistiche la convince a “scendere”, novella Siddharta, nei bassi napoletani per conoscere un popolo forse misero, ma sincero. Anche qui troverà gioie e dolori, tra cui una spietata “scena primaria” collettiva il cui una giovane coppia di rampolli di due cosche mafiose si unisce in un amplesso pubblico volto a garantire alla comunità un bambino, garante di un “nuovo inizio”. Anche così è la città, talmente avida da trasformare i suoi figli migliori in vittime sacrificali di una fame ancestrale.
L’incidente di un aborto, risolto come ogni altra cosa in solitudine, verrà sepolto nella memoria puntando alla scelta di vita della ricerca universitaria. La tesi, concordata con il professore, non sarà, “per il bene di entrambi”, sulle radici antropologiche del suicidio, ma su quelle del miracolo.
A questo punto la nostra potrà adottare, rispetto alla “vita vissuta”, quell’atteggiamento di cinico, divertito distacco che le consente l’avventura senza farsi troppo male: “in fondo”, le dice il cardinale che presiede al miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro, “nella vita resta solo l’ironia”. O forse no?
I due si lanciano in una seduzione sordida, divertita, furfantesca all’insegna di un’amicizia che, garantendo a lei lo statuto trionfale “di Santa” o di “Dea per finta”, regala loro il piacere dello sberleffo alle cose sacre della vita (sberleffo a ciò che considerano emblema o feticcio). Ma nel mentre, il miracolo avviene davvero… Ed è come se il loro amore finto fosse un incontro vero.
Quando al momento di andare in pensione Parthenope dovrà fare un bilancio, scoprirà di non aver realizzato le premesse della sua venuta su questa terra: ha accuratamente schivato i compiti della femminilità che pure, nel sogno di tutti, era stata chiamata a incarnare. Non conosce l’amore per un uomo né l’esperienza di madre. Ha preferito fare un passo a lato: solo Stefano, l’enorme neonato figlio anormale del suo professore, ha il dono di una risata pura, libera dalle ambiguità della vita che tutti noi incontriamo con l’Edipo. A lei quello status d’innocenza è impossibile, tuttavia trova una soluzione creativa nella scelta di crescere come studiosa, non come donna.
“La vita vera, che “promessa mai mantenuta!”, sembra dire tra sé e sé, scoprendo questa verità come per la prima volta.
Ha disertato persino l’amata città delle sue ricerche, fonte di stupore sempre rinnovato, preferendole Trento.
Tuttavia, l’ironia beffarda che non l’ha mai abbandonata fa sì che possa recuperare per sé stessa, così come per l’umanità dolente della sua Napoli, una pìetas profonda. La tolleranza per le nefandezze degli umani l’aveva sempre accompagnata, poiché si tratta di un lascito culturale della città. Tuttavia, le era estranea questa nuova pietas, era qualcosa come un perdono.
Adesso sorride.
E torna alla terra d’origine, godendo dello spettacolo della sua umanità e probabilmente immaginandovi un nuovo futuro.