Il male oscuro del nostro tempo, sospeso tra passato e futuro

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DI PIERO RIVOIRA

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Uomini, donne e bambini vengono uccisi, animali selvatici vengono uccisi (rimozione, abbattimento… iniziamo a chiamare le cose con il loro nome: uccisione), uomini che difendono animali selvatici o foreste vengono uccisi: sono 164 gli ambientalisti assassinati in tutto il mondo nel 2018.

Ma che cosa sta succedendo? Che cos’è che distingue la civiltà dalla barbarie se non il concetto della sacralità della vita, di ogni forma di vita?

Secondo la tradizione giudaico-cristiana, la vita umana è sacra, e solo quella, dal momento che l’uomo sarebbe il re del creato. E ciò lo autorizza a dominare su tutte le altre creature, a sfruttarle, a sterminarle, a distruggere il loro habitat minando la base stessa del loro sostentamento. Non è forse questa la più abominevole, crudele, infame, barbara forma di razzismo? Razzismo al cubo, razzismo elevato all’ennesima potenza. E, se questo non è razzismo, cos’è? Che altro è, infatti, il razzismo se non discriminazione, intolleranza per ciò che è diverso da noi?

Diverso, tuttavia, non significa necessariamente inferiore: quasi tutti i Vertebrati, per esempio, hanno almeno un organo di senso talmente sviluppato da farli assomigliare quasi a dei supereroi, come gli uccelli rapaci, la cui acuità visiva corrisponde a 60 decimi, oppure, come i pipistrelli, che si orientano nella totale oscurità emettendo ultrasuoni ed analizzandone le onde riflesse dagli ostacoli, hanno sensori di cui noi non disponiamo o sono in grado di correre, saltare, nuotare, scavare più agilmente e più velocemente di noi, per non parlare di quelli che volano. Le loro capacità intellettive sono diverse dalle nostre ma, come noi, gli animali gioiscono e soffrono.

E allora, cos’è che ci rende “umani”? La nostra straordinaria creatività, certo, la nostra capacità di astrazione ma anche la nostra malvagità: nessun’altra specie animale ha mai provocato, intenzionalmente, l’estinzione di un’altra forma di vita e non ci sono altri esempi, al di fuori di Homo sapiens, di specie animali che massacrino i propri simili. Senza di noi il mondo sarebbe un paradiso, come scrive Alan Weisman nel suo bellissimo saggio “Il Mondo Senza di Noi”.

Segregare, discriminare, classificare, dividere, noi e loro: ecco che cosa facciamo da millenni, da quando il mitico imperatore della Cina Shen Nung, circa 5000 anni fa, compilò la prima farmacopea nota, che includeva ben 365 medicamenti di origine minerale, vegetale ed animale.

Ma non si può dividere ciò che è unico: la vita è una sola, pur manifestandosi in una miriade di forme diverse, in milioni di specie, animali, vegetali e batteriche che popolano il nostro meraviglioso pianeta. L’unicità della sua origine è dimostrata dall’universalità del codice genetico; inoltre, a partire da circa 3,5 miliardi di anni fa, quando le prime forme di vita comparvero sul nostro pianeta (il cosiddetto LUCA, Last Universal Common Ancestor, rappresentato da batteri anaerobi), la catena della vita è arrivata fino a noi grazie ad una sequenza ininterrotta di divisioni cellulari.

L’evoluzione biologica è il processo attraverso il quale la materia inanimata diventa cosciente: benché il vostro cervello sia costituito da atomi non diversamente dallo smartphone sul quale state leggendo questo articolo, è estremamente improbabile che, anche aspettando miliardi di anni, tale oggetto diventi autocosciente. Eppure, per quanto possa sembrare assurdo, è proprio ciò che è effettivamente accaduto.

Quindi, come sottolinea il geniale e controverso fisico americano Frank Jennings Tipler, autore del meraviglioso libro “La fisica dell’immortalità”, la vita è potenzialmente immortale: «Affinché sia possibile la sopravvivenza della specie umana, anzi, di una parte qualsiasi della biosfera, alla fine essa dovrà lasciare la Terra e colonizzare lo spazio»; così, in un modo che definire inquietante è un eufemismo, inizia il secondo capitolo del libro.

Secondo Tipler, la tecnologia del futuro consentirà di compiere viaggi spaziali a velocità prossime a quella della luce ma non illudetevi: a causa delle siderali distanze che separano la Terra anche dagli esopianeti più vicini, non saranno i vostri pronipoti ad intraprendere tali avventurose crociere cosmiche ma robot di intelligenza forse pari a quella umana, in grado di replicare la vita decodificando il DNA umano e quello di altre specie, salvato nella loro memoria digitale sotto forma di bit (o di Qubit), in una sorta di avveniristica Arca di Noè (è quasi sbalorditivo notare che, rileggendo l’Antico Testamento e il Vangelo, sembra quasi che tutto vi sia già scritto, dalle origini del cosmo a partire dal nulla alla salvezza di tutte le creature dal Diluvio Universale fino alla promessa della vita eterna).

La vita si potrà così espandere all’intero universo, che verrà conquistato da milioni di esseri intelligenti di cui la specie umana è l’antenato comune: nuove specie che si evolveranno grazie all’isolamento fisico determinato dalle enormi distanze, che renderanno impossibile lo scambio di individui e, quindi, di geni, fra una colonia e l’altra.

Gli esobiologi si occupano della ricerca di vita evoluta naturalmente nell’Universo, soprattutto su esopianeti localizzati al di fuori del Sistema Solare (nella cosiddetta “zona abitabile” attorno alla loro stella), la cui lista, aggiornata al 10 ottobre 2019, supera ormai i 4000.

Da molto tempo, tuttavia, l’ipotesi affascinante secondo la quale la specie umana non sarebbe l’unica forma di vita intelligente nell’universo ha ispirato gli scrittori più visionari, tanto da dar vita ad un nuovo filone letterario, quello del romanzo di fantascienza, fondato da Isaac Asimov. In molti di questi romanzi e, soprattutto, delle opere cinematografiche, gli “alieni” sono esseri malvagi che provengono dallo spazio profondo e vogliono sterminare l’umanità per impossessarsi della Terra.

Ma proviamo ad invertire il nostro punto di vista: e se fossimo noi, quegli alieni malvagi? E se gli extraterrestri esistessero veramente e avessero davvero visitato il nostro pianeta ma se ne stessero alla larga, terrorizzati dalla nostra potenziale pericolosità nei loro confronti?

Secondo la moderna cosmologia, la realtà esiste quasi tutta nel futuro; quindi, noi umani viviamo in un remoto passato: siamo esseri primitivi, ignoranti e violenti, che si massacrano a vicenda, sprecano immani e preziose risorse per costruire armi di distruzione di massa, sterminano le altre forme di vita e, con il proprio comportamento dissennato, stanno addirittura mettendo a rischio le basi fisiche della vita stessa.

Tuttavia, una cosa sembra essere certa: la vita è un fenomeno talmente improbabile che non può che essere estremamente rara nell’universo o, addirittura, potrebbe anche essersi evoluta unicamente sul nostro pianeta. Come tale, dovrebbe essere accudita, tutelata, protetta.

«Sì, ma solo l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio», ci dicono le religioni monoteistiche. A prescindere dal fatto che bisognerebbe capire che cosa significhi “a immagine e somiglianza di Dio”, c’è un piccolo problema: la comparsa della nostra specie non è un fatto necessario ma puramente casuale, accidentale, frutto di una concatenazione fortuita, improbabile di eventi, e non si sarebbe verificata se 65 milioni di anni fa, tra la fine del Cretaceo e l’inizio del Paleocene, un gigantesco asteroide, entrando in collisione con la Terra, non avesse posto fine al mondo dominato dai grandi rettili, l’Era Mesozoica, e se, milioni di anni dopo, l’inaridimento del clima in Africa Orientale non avesse favorito alcune specie di ominidi arboricoli, che furono avvantaggiati avendo gradualmente assunto una stazione eretta e sviluppato un cervello più grande.

E smettiamola, una volta per tutte, di dire che l’Europa ha radici cristiane, come se prima dell’avvento del cristianesimo fosse una landa disabitata. Ma allora chi sarebbero i nostri antenati? Mai sentito parlare di popoli Italici, degli Etruschi, dei Liguri, dei Celti, dei Lusitani, dei Germani, degli Slavi, dei Magiari, dei Finnici, degli Illiri e dei Traci? Sono i popoli indigeni dell’Europa pre-romana, nel cui mondo spirituale ci si può immergere leggendo lo splendido libro di Michel Pastoureau, intitolato “L’Orso. Storia di un re decaduto”.

Questi antichi popoli non solo avevano sviluppato una ricca cultura materiale ma erano anche profondamente religiosi, come dimostrano i riti legati all’orso e le feste invernali, ancora celebrate in diverse vallate alpine. Questi culti, che affondavano le loro origini nella notte dei tempi, furono spazzati via e condannati all’oblio dalle campagne di conversione forzata al cristianesimo delle popolazioni europee condotte nell’Alto Medioevo, come le deportazioni e le violenze nei confronti dei Sassoni che nell’VIII secolo non si volevano sottomettere all’autorità imperiale di Carlo Magno, anche attraverso il pianificato e sistematico sterminio degli orsi, animali che, fino ad allora, erano sempre stati rispettati tanto da essere quasi oggetto di venerazione in tutto l’emisfero boreale (l’orso era l’unico animale al quale gli antichi Lakota attribuissero il rango di “guerriero”).

Tutti questi popoli, ad eccezione degli Ungheresi e dei Finnici, appartenevano alla famiglia linguistica indo-europea ed i loro antenati si diffusero in tutta l’Europa migrando dalla Russia meridionale all’inizio del Neolitico (7000 – 8000 anni fa), mescolandosi con altri popoli ancora più antichi, bande di cacciatori-raccoglitori che avevano colonizzato il nostro continente fin dal Paleolitico Superiore (30000 anni fa). Anche questi nomadi, diretti antenati dei Baschi e, forse, dei Sardi, erano tutt’altro che dei trogloditi, come dimostrano le meravigliose pitture rupestri rinvenute su di una parete rocciosa all’interno della grotta Chauvet, in Ardeche (Francia sud-orientale). Scoperta il 18 dicembre 1994 dagli speleologi Eliette Brunel Deschamps, Jean-Marie Chauvet e Christian Hillaire, questa grotta è decorata da circa 300 dipinti che risalgono a 30.000 anni fa (Paleolitico Superiore – complesso Aurignaziano) e rappresentano, perciò, una delle espressioni di arte figurativa più antiche al mondo.

Grotta Chauvet, in Ardeche (Francia sud-orientale)

E che dire dell’influenza esercitata dall’antica mitologia germanica sulla musica di Wagner? (Adesso direte che sono un nazista: non importa, se pensate che io sia un nazista siete voi ad avere un problema, non io).

Fin da ragazzo ho letto molti libri sui Nativi Americani: la loro cultura, la loro profonda spiritualità, il loro atavico legame con la Terra, con la famiglia, con gli Antenati e con tutte le creature viventi hanno rappresentato, per me, un’autentica rivelazione. Ho compreso quanto sia importante conoscere la propria storia, «Un popolo senza storia è come il vento sull’erba…» (proverbio Lakhota); «Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente» (Indro Montanelli), la propria identità, sapere chi siamo e chi fossero i nostri antenati.

Ho scoperto, così, che i miei antenati erano tribù di Liguri e di Celti che vivevano nel Piemonte meridionale e che hanno lasciato varie testimonianze della loro cultura e del loro stile di vita sia nella toponomastica sia sotto forma di reperti archeologici sparsi sul territorio. E anche attraverso la lingua dei miei genitori e dei miei nonni (il Piemontese), che, purtroppo, uso assai poco, sono stati tramandati moltissimi termini di origine pre-latina. Ho, così, maturato la convinzione che quasi tutti i conflitti fra paesi diversi, con il loro corollario di lutti e distruzioni, siano provocati dal mancato rispetto di un principio molto semplice: «Ogni popolo, a cominciare dai Baschi, dai Palestinesi, dai Curdi, dai Tibetani, passando attraverso i Nativi Americani, gli Indios Sudamericani e gli Aborigeni Australiani per arrivare ai vari popoli tribali dell’Africa e dell’Asia, deve poter vivere liberamente nella terra dei propri antenati, sulla quale deve poter rivendicare un diritto di sovranit esclusiva», e di una sola regola: «Ogni angolo della Terra è sacro, ogni forma di vita è sacra; non si va a casa d’altri (nel territorio di un altro popolo) senza essere stati invitati».

Solo così, infatti, si può instaurare un legame duraturo fra l’uomo e la Terra; quest’ultima non gli appartiene ma è l’uomo ad appartenerle. Tale legame farà si che ogni comunità locale ami, custodisca e protegga il proprio Paese, senza sfruttarne troppo le risorse. Queste infatti, e non il denaro, sono la vera ricchezza dei popoli e delle nazioni: gli alberi, le erbe, gli arbusti, gli animali, i corsi d’acqua, i boschi, le montagne, le spiagge, il mare, non i soldi. Il denaro non si può né bere né mangiare né respirare. I soldi, se mancano, si stampano, sempre che un Paese non abbia perso la sovranità monetaria, come il nostro.

Ma questa ricchezza è stata dilapidata e distrutta affinché, per mezzo del lavoro, venisse convertita in denaro. Adesso il denaro viene utilizzato per produrre altro denaro, senza che ciò rappresenti la retribuzione del lavoro svolto. La massa del denaro circolante è aumentata, così, a dismisura, in modo esponenziale, tanto che, se dovesse essere convertita tutta in beni materiali, si scoprirebbe che sull’intero pianeta non ci sono abbastanza beni da acquistare, da cambiare con il denaro. E allora, per creare nuovi beni, si continuano a costruire sempre nuove case, a tagliare alberi, a estrarre metalli rari, idrocarburi, a coltivare o convertire a pascolo superfici sempre più vaste. E tutto ciò viene giustificato dall’esigenza di creare nuovi posti di lavoro.

Massimo Fini parla di “mito del lavoro”, evidenziando come il lavoro sia diventato il centro della nostra vita, il valore supremo. Tuttavia non è sempre stato così e, anche oggi, non è così in tutte le culture: per secoli, i membri dell’aristocrazia godettero del privilegio di non dover lavorare, disponendo di rendite fondiarie, e poterono così dedicarsi alla guerra, alla politica, alle battute di caccia ma anche coltivare i propri interessi letterari, artistici o scientifici: tali arti “nobili” erano, infatti, appannaggio di chi poteva disporre liberamente del proprio tempo.

Risalendo ancora più indietro nel tempo, le ricerche archeologiche indicano che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori non lavoravano, almeno se per “lavoro” si intende l’esecuzione di un compito monotono, ripetitivo, eseguito meccanicamente. Un giorno andavano a caccia e macellavano gli animali uccisi, il giorno dopo ne conciavano le pelli, quello dopo ancora andavano a pesca o in cerca di molluschi, crostacei, bacche, funghi o erbe commestibili oppure costruivano lance, coltelli, archi e frecce lavorando la pietra prima e l’osso ed i metalli poi. Tutti sapevano fare tutto.

Il vero valore era il tempo, appunto, che si trascorreva con i propri figli, con i genitori anziani, con i parenti, con gli amici. Paradossalmente, fu il miglioramento climatico, ponendo fine all’ultima era glaciale e facendo scomparire le grandi steppe erbose, insieme all’eccessivo prelievo venatorio reso necessario dall’aumento della popolazione umana, a provocare l’estinzione della megafauna pleistocenica, ossia la fine di specie come il mammut, il rinoceronte lanoso, il bisonte della steppa, i cervi e le alci gigantesche che, per decine di migliaia di anni, avevano fornito tutto ciò che era necessario per sopravvivere: non solo carne e grasso, ma anche pelli, tendini, corna, ossa, palchi, tutti materiali utilizzati per confezionare vestiti e calzature, per fabbricare armi e costruire abitazioni.

Infine, alcuni millenni più tardi, la progressiva rarefazione di uri, cervi, caprioli, cinghiali, camosci e stambecchi condannò definitivamente l’uomo al duro lavoro dei campi o delle botteghe artigiane. Già, perché, esaurite le risorse naturali, adesso il cibo bisognava produrlo, dissodando e arando la terra, per poi seminare, diserbare, (nel caso di coltivazioni arboree) potare, irrigare e, infine, raccogliere il prodotto di tanta fatica.

Inevitabilmente, nacque la divisione del lavoro e, con essa, emersero le prime differenze sociali. La società si strutturò in classi: contadini, artigiani, soldati, aristocratici.

Infine, con la Rivoluzione industriale si affermò, continua Fini, un radicale cambiamento di paradigma: «Il lavoro diventa centrale. Per Marx è “l’essenza del valore” (non a caso Stachanov, in realtà uno ‘schiavo di Stato’, è un eroe dell’Unione Sovietica), per i liberisti è il fattore che combinandosi col capitale dà il famoso ‘plusvalore’.».

Ma fu soprattutto la specializzazione del lavoro ad accentuarsi sempre più, fino ai giorni nostri, cosicché noi, ormai, abbiamo perso conoscenze che hanno richiesto decine di migliaia di anni di evoluzione per essere acquisite.

Io, per esempio, non sarei in grado di sopravvivere in natura per più di pochi giorni, non essendo capace ad accendere un fuoco (anche se sto imparando a farlo con un pezzo di ferro ed una pietra e mi riprometto di insegnarlo ai miei studenti) o ad uccidere un animale, pur sapendone macellare uno già morto, magari travolto da una valanga (evento piuttosto improbabile), ma solo perché ho studiato veterinaria, e conoscendo poco i funghi, le erbe commestibili e quelle officinali, un po’ come il protagonista del film “Into the wild”, che muore avvelenato per aver confuso un’erba commestibile con un’altra simile ma velenosa.

Non solo, ma ci siamo indeboliti fisicamente, non facciamo più neanche il servizio militare, non siamo più in grado non dico di usare un’arma ma anche soltanto di affrontare una situazione di emergenza; assistiamo passivamente al massacro di un nostro amico, senza neanche provare ad aiutarlo, per paura, per vigliaccheria. Deboli, codardi, smidollati: così siamo diventati. Ecco perché i terroristi islamici ci spaventano tanto: forse inconsciamente, ci rendiamo conto che sono più forti, più determinati, più valorosi di noi, dal momento che sono disposti anche a morire per affermare i loro folli ideali, i loro valori criminali.

Per tutti questi motivi, non posso che ammirare, con un pizzico di invidia, l’eroismo, il coraggio, lo spirito di sacrificio con cui le milizie curde e, in particolare, i reparti femminili Yekîneyên Parastina Jin‎, YPJ,  dopo essersi battuti con successo contro i tagliagole dell’ISIS stanno ora affrontando il potente esercito turco: combattono per la libertà, per difendere il proprio paese, per i valori del laicismo. Vi ricorda qualcosa, tutto ciò? Sì, sono i nostri valori, quelli che noi abbiamo perso, accecati, come siamo, dalla rincorsa al successo e al denaro, dall’edonismo e dal materialismo.

Questo, per me, è il male oscuro del nostro tempo.

 

Piero Rivoira

Insegnante di Produzioni Animali (Istituto Tecnico Agrario di Asti) dal 2001, mi interesso di questioni ambientali fin dai tempi del liceo e dell’università quando, come attivista del WWF, raccoglievo fondi per salvare le foreste o tappezzavo ogni spazio disponibile nella mia provincia di Cuneo di locandine contro la caccia e i pesticidi, durante la campagna referendaria del 1990. Spinto da un’innata curiosità, non mi accontento di spiegazioni semplici a fenomeni complessi ma cerco di indagarne e comprenderne le cause remote cercando legami, interrelazioni fra fatti solo apparentemente non legati fra loro.

Fonte: https://comedonchisciotte.org

23/10/2019

 

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