Giorni felici

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DI TONGUESSY

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Più di cinquant’anni fa Samuel Beckett aveva descritto minuziosamente il lockdown attuale a seguito del Covid-19. “Giorni felici” tratta la miseria di una condizione davvero compromessa ma tenuta in altissima considerazione da Winnie, sepolta fino al seno. Non è il dramma del dialogo borghese poi ripreso, tra gli altri, da uno stratosferico Bunuel. E’ piuttosto la descrizione del disfacimento del Logos, ed il luogo dove si consuma la tragedia non è il teatro, ma il non-luogo. Ovvero tutti i luoghi. Proprio quello che sta succedendo oggi con la supposta-pandemia.

Capolavoro del Teatro dell’Assurdo, Giorni Felici racconta la sfacciata ambivalenza di sapersi estraniati dal flusso della vita ma volersi contemporaneamente inseriti a pieno titolo in esso. Non c’è un crescendo di ansia e tensione, è tutto giocato sul filo della piatta e prevedibile normalità. Quella stessa normalità dei telecomunicati del capo del governo a reti unificate e dei bollettini della Protezione Civile ad orari fissi:“non passa quasi giorno, senza un arricchimento del proprio sapere, per quanto minimo, l’arricchimento voglio dire”. [1-i corsivi fanno riferimento al testo di Beckett].
La normalità dell’obbedienza agli ordini e la normalità dei droni, dei poliziotti, dei divieti. La normalità di sapersi reclusi quale esito della situazione umana verso cui non c’è rimedio: “C’è così poco che si possa fare. (Pausa). Che lo si fa tutto. (Pausa). Tutto quel che si può. (Pausa). E umano. (Pausa). La natura umana.”
Tutto quello che si può. E si può gran poco. E’ la normalità. Non è una questione politica legata a valutazioni scientifiche specifiche. E’ la vita. Alti e bassi, diciamo. Va come va, e proprio perché è così non serve lamentarsi, anzi bisogna avere coraggio di andare avanti come. Celafaremo. Iorestoacasa.
“non posso lamentarmi… (cercagli occhiali) … no no… (raccatta gli occhiali) … non devo lamentarmi… (solleva gli occhiali, guarda attraverso una lente) … quante cose di cui ringraziare… (guarda attraverso l’altra lente) … nessun dolore… (si mette gli occhiali) … o quasi… (cerca lo spazzolino da denti) … è già una gran cosa… “

Questa normalità che oscilla tra consapevolezza del disagio e ottimismo obbligatorio ogni tanto causa dei dolori. Serve qualcosa che riporti tutto nel consueto binomio: malessere ed ottimismo. Serve qualcosa che ci faccia ritornare come prima, normale come sempre, assuefatti dalle ambivalenze e asserviti alle antinomie. C’è un vaccino che concede un ritorno alla normalità:
“Depressione… debolezza… inappetenza… bambini… adolescenti… adulti… sei cucchiai colmi… al giorno… (alza la testa, sorride) … il vecchio stile!…(il sorriso cade, abbassa la testa, legge) … al giorno… prima e dopo… i pasti… miglioramento… (guarda più da vicino) … istantaneo.”

La normalità è oggi più che mai una necessità. Oggi è obbligatorio essere normali se non si vogliono incontrare problemi. Il problema è adeguarsi al malessere ed ottimismo della normalità dato che il concetto stesso cambia a seconda delle necessità. L’idea stessa di essere normali è in primis soggetta all’imprimatur governativo. Oggi il runner è un fuorilegge ma domani sarà salutato come vigoroso salutista. E tutto ciò è normale. Abbiamo bisogno di chiarificazioni a reti unificate per aggiornare la definizione di normalità. La museruola respiratoria è normale. Ieri chi la portava per strada era pazzo, oggi è pazzo chi non la porta. Tutto normale.

Godot è lì, e noi lo stiamo aspettando. Da domani si chiamerà Fase2, poi ci sarà Fase3 e come i vettori di un razzo destinato a raggiungere lo spazio ci proietterà verso un futuro radioso, denso di altre e meravigliose normalità. Basta sapere aspettare, basta sapere cogliere il buono che anche oggi si presenta sotto i nostri occhi: la bandiera italiana, la scritta sul poggiolo, i canti dal terrazzino, gli hashtags, le band che suonano via web.

“Oh, anche questo sarà un altro giorno felice!”

Alle volte mancano addirittura le parole per descrivere quanto di buono sta accadendo dentro e attorno a noi, perché la normalità è una variabile che richiede quei continui aggiustamenti che la semantica ha difficoltà a seguire. E’ la vendetta dell’universo indeterministico, costretto da troppe logiche lineari a rimanere compresso entro limiti che non gli sono propri. Viene a mancare così la struttura logica della comunicazione, sospesa tra necessità fattuali e volontà liturgiche, in un rincorrersi di eventi incontrollabili e bisogni di una normalità impossibile da verbalizzare:
“Non è vero, Willie, che perfino le parole mancano, a volte? (Pausa. Si volta verso la sala) E che cosa si deve fare,allora, aspettando che tornino?”

E’ la pausa imbarazzata di Conte a reti unificate che interrompe la lista di atteggiamenti che oggi devono essere osservati per garantirci un benessere di difficile comprensione, è il mordersi il labbro in attesa che ritornino le parole che spiegano come oggi vada interpretata la normalità, è l’enfasi forzata e posticcia con cui quelle parole, una volta tornate, vengono pronunciate. “Serve uno sforzo straordinario”, dice. Mi torna in mente Nixon davanti alle telecamere del Watergate: la stessa spaventata rassegnazione davanti all’ineluttabilità, lo stesso terrore di conoscere una verità indicibile.
Godot sta per arrivare, manca davvero poco. Ormai ci siamo. Ma ci vuole cautela, molta cautela. Basta un passo falso e siamo fregati. Quindi andiamo avanti con calma, passo del gambero, un passo avanti e due passi indietro:
“Si continua a dilazionare… il momento dell’azione… per paura di passare all’azione…troppo presto… e il giorno passa… passa e va…nella più completa… inazione.”

E così Conte ci informa che secondo gli esperti che lo circondano oggi la maggior causa di contagio è rappresentata dai rapporti famigliari.[2] Ci dice questo dopo averci obbligato a rimanere per due mesi in famiglia. Due mesi di completa inazione per paura di passare all’azione. Sembra uno sketch di “Scherzi a parte” con le famiglie italiane oggetto di scherno da parte del governo. E invece non è uno scherzo:
“Non c’è miglior modo per glorificare l’Onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi scherzetti, specialmente quelli meno riusciti.”

Si, possiamo dire che non è uno scherzo riuscito bene, questo. Però ci siamo cascati lo stesso. Ci siamo lasciati convincere che gli ordini non si discutono, che lì ai piani alti ci vogliono davvero bene, che senza di loro non ce la faremmo mai. Dinamite pura per la nostra autostima:
“non ti sto chiedendo se mi amavi, su questo punto sappiamo tutto, ti chiedo se mi trovavi amabile… a un certo punto.”

Davvero un popolo che si trasforma nel giro di pochissimo tempo in uno sterminato esercito di obbedienti kapò può sperare di dimostrare di volersi bene? Odiando il prossimo? No, le cose funzionano diversamente: si odia l’altro perché ha avuto coraggio di sfidare la normalità ed ognuno deve sentire l’obbligo sacro di riportarlo alla normalità. E’ sempre stato così: i normali come Winnie da una parte, semisepolti nelle proprie dubbiose certezze ed i briganti, i banditen, gli hippies, quelli che non guardano la tv….dall’altra.

Tutto deve rientrare nella normalità. Senza normalità sparisce il concetto stesso di tempo e spazio. Senza normalità ci ritroveremmo sepolti fino alle spalle come Winnie. Anzi, con o senza sarebbe proprio lo stesso con questa umanità malandata. In questa antinomia muore il Logos, il sacro, ridotto a macerie dal potere. Beckett non ne fa cenno esplicito, ma le cose sono chiare: le parole non hanno più potere evocativo, vanno ascritte ad un uso normale della normalità stessa, veicoli abbandonati a sé stessi, navicelle fluttuanti nel gelido spazio comunicativo senza più meta né significato. Il sacro è sparito per dare spazio alla normalità, anche se questa parola ormai non significa più nulla.
“L’unico modo per convivere con il virus è non ammalarci” dice Conte, sfoderando una tautologia da record.[2] L’importante è non dire più niente, rincorrere parole mitologiche, tentare di elaborare concetti evanescenti mettendo in campo la capacità di emettere fonemi indecifrabili, non permettendo ad alcuno di librarsi dal trampolino semantico mostrando significative evoluzioni aeree in forza della convinzione che non c’è più niente di sensato da dire. E’ la sterilizzazione obbligatoria della comunicazione, passata anche lei attraverso una tempesta virale che ne ha scombinato il DNA, rendendola una mostro cyberontologico:
“più niente da dire, più niente da fare, che i giorni passano, certi giorni passano, passano e vanno, senza che si sia detto niente, o quasi, senza che si sia fatto niente, o quasi.”
Godot arriverà, e sarà un gran giorno. Bisogna avere pazienza ed essere grati per quanto sta succedendo. E per quanto succederà.
Il potere ci ha mostrato uno dei suoi molti volti; Giano multifronte ha dissezionato, amputandolo, l’intero cosmo comunicativo, regalandoci lo spettacolo della demolizione controllata di ogni significato. La gravità delle parole è venuta meno ed ora l’intero Logos fluttua nel vuoto antigravitazionale. Le parole non hanno più alcun peso. Oggi crediamo davvero di essere Winnie. Oggi più di ieri dobbiamo essere Winnie. Per rendere tutto normale.

“Oh. questo è davvero un giorno felice! Questo sarà stato un altro giorno felice!”

 

Tonguessy

Fonte: www.comedonchiosciotte.org

4.05.2020

 

NOTE

[1]http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/BECKETT%20Samuel__Giorni%20felici__null__U(1)-D(1)__Dramma__2a.pdf

[2]https://www.rete7.cloud/coronavirus-giuseppe-conte-conferenza-stampa-26-4-2020/

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