Giornalisti americani: intervista a Seymour Hersh

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YOUSSEF EL-GINGIHY
independent.co.uk

Mi accingo ad intervistare l’ottantunenne decano del giornalismo investigativo Seymour Hersh. Sy Hersh, com’è affettuosamente chiamato da quelli che gli sono vicini, è stato una volta descritto dal Financial Times come “l’ultimo grande reporter americano.” Hersh ha pubblicato le sue memorie, “Reporter”, che coprono tutta la carriera di uno dei più trasgressivi giornalisti del 20° secolo, l’uomo che ha fatto conoscere il massacro di MyLai in Vietnam e che successivamente ha portato all’attenzione del mondo le torture nella prigione di Abu Ghraib durante la guerra in Iraq.

Hersh è stato di recente a Londra per una conferenza al Centro per il Giornalismo investigativo della Goldsmiths University. Ha tenuto banco per due ore, parlando con la sua voce roca di tutto, dal Vietnam, alla guerra al terrore, dall’avvelenamento con il Novichok degli Skripal a Trump e al presunto hackeraggio russo delle elezioni americane. Quando poi ci eravamo sentiti al telefono, l’ottantenne Hersh aveva già fatto ritorno a Washington.

Stava già arando il suo campo ben prima che io nascessi. E’ difficile non essere impressionati da quest’uomo. Potreste dire che sono un po’ nervoso. L’atteggiamento da duro di Chicago mi fa capire che non sarà facile intervistarlo. Evidentemente sono fortunato, Hersh è di buon umore, è estremamente gioviale e passa la maggior parte dell’intervista ridacchiando e mi tranquillizza narrandomi alcuni episodi della sua celebre carriera.

Negli anni ‘70, Hersh aveva seguito il caso Watergate per il New York Times e aveva fatto conoscere i bombardamenti segreti della Cambogia. E, in quello che descrive come “il colpaccio,” aveva anche scoperto l’esistenza di un esteso programma della CIA di intercettazioni sul territorio nazionale nei confronti dei movimenti pacifisti e degli altri gruppi di dissidenti (in contrasto con lo statuto della CIA, che proibisce lo spionaggio dei cittadini americani). E’ sempre stato una spina nel fianco del sistema.

Insieme a Carl Bernstein e Bob Woodward, Hersh è forse il maggior responsabile dell’affascinante immagine che richiama alla mente il giornalista investigativo: sempre al telefono, con le maniche rimboccate, che chiama per l’ultimo scoop o per incontrarsi in qualche località segreta con le sue fonti anonime, in vista di qualche soffiata. La realtà è indubbiamente molto meno avventurosa ed è fatta quasi tutta di duro lavoro. Come Hersh ha scritto nelle sue memorie, l’etica della vita laboriosa l’aveva ereditata dal padre e non aveva mai conosciuto nessun’altra maniera di vivere.

La storia di come Hersh sia arrivato a scrivere le proprie memorie, quando aveva giurato che non avrebbe mai scritto nulla riguardo la sua famiglia, è tipica di Hersh. Stava lavorando ad un libro sul Vice-presidente di Bush, Dick Cheney, quando il giro di vite contro gli informatori aveva significato per lui non essere più in grado di proteggere le proprie fonti. Come risultato [della sua rinuncia a procedere con l’inchiesta su Cheney], si era offerto di vendere il suo pied-à-terre per poter rifondere il generoso anticipo ricevuto, ma Sonny Mehta, il capo-editore della Alfred Knopf, lo aveva convinto a scrivere [in alternativa] un testo autobiografico.

Reporter” è una specie di impollinazione incrociata fra Le avventure di Augie March, di Saul Bellow e Tutti gli uomini del Presidente. Hersh è cresciuto nei sobborghi di Chicago e, da ragazzo, era stato costretto ad occuparsi della lavanderia di famiglia, dopo che suo padre era morto per un tumore ai polmoni. A scuola non brillava e non era destinato ad una vita intellettuale e, apparentemente, a fare il giornalista c’era arrivato per puro caso.

Il fato aveva voluto che avesse risposto al telefono la mattina dopo una nottata passata a giocare a poker, dove aveva perso tutti i suoi soldi. La chiamata proveniva dal City News. Quella notte si era fermato per puro caso nel suo vecchio appartamento e si era dimenticato di notificare al suo futuro datore di lavoro il cambio di indirizzo. E così era infaustamente iniziata una delle più rimarchevoli carriere giornalistiche. Se non fosse stato per la propensione di Hersh alle nottate al tavolo del poker non avremmo probabilmete mai saputo nulla di tutte le malefatte del Deep-State.

Infatti, aveva lottato per molti anni prima di trovare un posto sicuro. La storia di MyLai aveva cambiato tutto. Gli articoli di Hersh sono passati alla storia. Dalla madre di uno dei soldati che gli dice: “Gli ho dato un ragazzo buono e lo hanno fatto diventare un assassino.” O uno degli altri soldati che comincia il suo racconto dicendo semplicemente: “E’ stata una cosa da nazisti.

Il massacro di My Lai

 

Le descrizioni dei neonati gettati in aria e infilzati con le baionette o dei soldati appena arrivati per il loro primo turno di ferma che trovano le jeep con orecchie umane cucite sul cruscotto sono agghiaccianti. La storia di MyLai aveva riportato in patria la brutalità, la depravazione e la mostruosità della macchina da guerra americana, dando vigore ai movimenti pacifisti.

Ma, anche con un Premio Pulitzer in mano, non era riuscito a coronare il suo sogno professionale di un posto al New York Times. Probabilmente non lo aveva aiutato il suo carattere irascibile, visto che, per ben due volte, aveva sbattuto giù il telefono mentre parlava con il caporedattore Abe Rosenthal.

Hersh è abbastanza onesto da ammettere che oggi, probabilmente, non ce l’avrebbe fatta. Ha lavorato nei tempi d’oro del giornalismo americano, quando veniva rimborsato lautamente a piè di lista e quando gli organi di informazione avevano i mezzi finanziari per permettersi delle storie serie. Quando aveva seguito per The Times gli Accordi di Pace di Parigi, aveva alloggiato al famosissimo, pentastellato, Hotel de Crillon.

Non ci vuole molto prima che ci mettiamo a parlare degli eventi contemporanei, come il presunto hackeraggio russo delle elezioni presidenziali americane. Hersh mangia la foglia ed esprime la sua opinione sull’argomento in modo esuberante ma preciso. Dice che “c’è molta animosità nei confronti della Russia. Tutta questa storia della Russia che avrebbe hackerato le elezioni è ridicola.” Ha fatto ricerche sull’argomento, ma non è pronto per divulgarle al pubblico… ancora.

Hersh scherza sul fatto che l’ultima volta che ha udito l’establishment della difesa degli Stati Uniti affermare di essere praticamente sicuro di qualcosa, si trattava delle armi di distruzione di massa dell’Iraq. Sottolinea che l’NSA ha solo una “moderata certezza” dell’hackeraggio russo. E’ un’osservazione che è già stata fatta in precedenza; non esiste un unico rapporto nazionale che avrebbe dovuto essere firmato da tutte le 17 agenzie di intelligence americane. “Quando la comunità dell’intelligence vuole dire qualcosa, la dice… Alto grado di affidabilità, in pratica vuol dire che non sanno nulla.”

E’ anche agli atti che Hersh ha asserito che la versione ufficiale dell’avvelenamento degli Skripal non è ammissibile. Mi dice: “La storia dell’avvelenamento con novichok non regge. Skripal stava probabilmente parlando con i servizi di intelligence britannici della mafia russa.” La piega sfortunata presa dagli eventi, con la contaminazione di altri soggetti, secondo Hersh suggerisce l’opera di elementi del crimine organizzato, piuttosto che del controspionaggio, anche se questo contrasta con la versione dei fatti del governo britannico.

Hersh, modestamente, sottolinea che queste sono solo le sue opinioni. Opinioni o no, è sarcastico su Obama, “un rifinitore… articolato, ma… ben lontano dall’essere un radicale… un mediatore.” Durante la sua conferenza alla Goldsmith aveva ribadito che i liberali che criticano Trump lo sottovalutano, a loro rischio e pericolo.

Aveva terminato la conferenza alla Goldsmith con un aneddoto su un pranzo a cui aveva partecipato insieme alle sue fonti di informazione, subito dopo le ultime rivelazioni sull’11 settembre. Aveva espresso tutta la sua rabbia sul fatto che agenzie di intelligence non condividessero le informazioni. Uno dei suoi informatori della CIA gli aveva risposto: “Sy, dopo tutti questi anni ancora non hai capito. L’FBI i rapinatori di banche li prende, la CIA le banche le rapina.” Un aforisma delizioso, anche se enigmatico.

Gli ho chiesto come mai la guerra in Siria è stata un motivo di scontro per la sinistra. Hersh ha scritto numerosi lunghi e controversi articoli per il London Review of Books, dove fa capire che il governo di Assad potrebbe non essere il responsabile degli attacchi con le armi chimiche. Aveva scritto per molti anni per il New Yorker, che si era rifiutato di pubblicare questi articoli, e la cosa aveva portato alla rottura del loro rapporto di collaborazione.

In “The Red Line and the Rat Line” [La linea rossa e la via del contrabbando], Hersh ha sostenuto che entrambe le parti disponevano di armi chimiche. Ed è andato anche oltre, ipotizzando che i ribelli, o magari il governo turco di Erdogan, potessero aver portato a termine attacchi false-flag per forzare la mano ad Obama ed ottenere da lui un coinvolgimento degli Stati Uniti, dal momento che un’azione del genere sarebbe andata ben oltre la linea rossa che [Obama] si era auto-imposto.

Hersh aveva anche scoperto che un canale per il contrabbando di armi era stato aperto fra la Libia e la Siria dalla CIA e dal MI6, usando società di facciata. Questo per di rifornire i ribelli siriani, compresi i gruppi jihadisti, durante il loro sforzo per abbattere Assad, una rivelazione stupefacente, considerando che gli Stati Uniti sono comunque impegnati nella guerra al terrore e intendono neutralizzare lo Stato Islamico.

Hersh liquida le critiche al regime di Assad una per una. Mi dice bruscamente: “Se Assad dovesse perdere, finirebbe appeso ad un lampione insieme alla moglie e ai suoi figli.” Dice che “in guerra succedono cose atroci” e racconta dei bombardamenti incendiari degli Alleati sulle città del Giappone e della Germania e dello sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale. Secondo lui, tutti possono commettere crimini di guerra.

Infatti, mi dice che anche gli Stati Uniti hanno utilizzato le barrel-bombs. Si potrebbe ovviamente allungare ancora questo elenco aggiungendoci sia l’uso dell’Agente Arancio e delle altre pestilenze chimiche in Vietnam che quello del fosforo bianco e dell’uranio impoverito in Iraq. “Dov’è la corrispondenza morale?” Si chiede Hersh. Tutto questo mi fa tornare alla mente l’ignobile dichiarazione di quell’esaltato generale degli Stati Uniti di nome Curtis LeMay, “se avessi perso la Seconda Guerra Mondiale, sarei stato processato per crimini di guerra.”

Hersh mi dice che questa è “praticamente una guerra giusta,” perché Assad combatte per impedire che gli Islamisti prendano il sopravvento e istituiscano la legge della Sharia. I critici potrebbero obbiettare che questa è un’analisi della situazione troppo riduttiva, considerando che in campo ci sono anche forze moderate. E, naturalmente, possono forse esserci dei dubbi sul fatto che il regime baathista di Assad non sia una feroce dittatura? Hersh allude casualmente al fatto che aveva incontrato Assad cinque o sei volte prima della guerra, un ricordo dell’incredibile vita che lo aveva portato ad incontrare i buoni, i brutti e i cattivi.

Continuiamo a parlare dei finanziamenti segreti e delle armi che arrivano agli Islamisti, andando a ritroso fino ai Mujahideen della guerra sovietica in Afghanistan. Il tutto realizzato con la supervisione sia delle agenzie di intelligence occidentali che di quelle saudite e pakistane. Hersh racconta di come l’Assistente per la Sicurezza Nazionale di Jimmy Carter, il feroce anticomunista Zbigniew Brzezinski, avesse pianificato di attirare i Russi nel loro proprio Vietnam, un pantano che avrebbe innescato la caduta dell’Unione Sovietica.

Durante la conferenza alla Goldsmith, Hersh aveva vagamente alluso ad un programma di finanziamenti che aveva scoperto per caso, ma di cui non aveva fornito altri particolari. La maggior parte delle persone bene informate conosce le origini di questa storia. Pochi però sanno che si tratta di un programma segreto, su scala mondiale, che, al giorno d’oggi, interessa sia le nazioni dell’ex-Unione Sovietica che il Medio Oriente e l’Africa. La sua funzione è quella di facilitare determinati cambiamenti politici, presumibilmente sulla base che il fine giustifica i mezzi. Gli parlo dei documenti dell’intelligence britannica degli anni ‘50, dove l’obbiettivo dichiarato era la neutralizzazione del socialismo e del nazionalismo arabo. “L’imperialismo è l’imperialismo,” replica Hersh.

In un altro articolo, “Military to Military” [da militare a militare], Hersh aveva reso di pubblico dominio alcune comunicazioni riservate di alto livello fra le potenze militari impegnate nel teatro siriano. Quando il Capo di Stato Maggiore Congiunto degli Stati Uniti aveva bypassato Obama per fornire [ai Siriani] informazioni importanti ai fini della lotta contro lo Stato Islamico, una persona vicina ad  Assad  aveva risposto che, per dimostrare la loro buona fede, avrebbero dovuto portargli la testa di Bandar. Il Principe Bandar bin Sultan era l’ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti, nonché  direttore generale dell’agenzia di intelligence saudita GID. Secondo quanto scritto dal Wall Street Journal, era l’uomo-chiave per le forniture di armi agli Jihadisti che combattevano Assad. Bandar è sempre stato vicino al clan dei Bush. Non c’è da sorprendersi se gli Americani non avevano preso in considerazione la richiesta.

Gli chiedo del ruolo di Bandar in alcuni avvenimenti più o meno oscuri; se, per esempio, avesse fatto da mediatore nella fornitura di armi della CIA ai Mujahideen in Afghanistan, nel contratto per armamenti BAE-Al/Yamamah, noto per le sue enormi tangenti e bustarelle, e nell’affare Iran-Contra. Il suo nome appare più volte anche nel rapporto che riguarda l’11 settembre, insieme alle somme di denaro che, dal conto bancario di sua moglie, la Principessa Haifa, erano stati versate ad una persona che era in contatto con due dei dirottatori. Hersh non si sofferma su questo, ma crede che il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman possa rivelarsi ancora peggiore di Bandar.

Rendendomi conto che Hersh, avendo dovuto abbandonare il suo libro su Cheney, è ancora interessato all’era Bush, gli chiedo di un articolo che aveva scritto nel 2007 intitolato “The Redirection” [Il riorientamento]. Mi dice che è “incredibile quante volte sia stato ristampato quel pezzo.” Gli chiedo di parlarmi della sua teoria, che la politica degli Stati Uniti avesse come scopo quello di neutralizzare la sfera sciita, che si estende dall’Iran, alla Siria, fino agli Hezbollah in Libano, per poi ridisegnare, per il 21° secolo, i confini del Trattato Sykes-Picot.

Continua dicendo che Bush e Cheney “ce l’avevano con l’Iran”, anche se nega l’idea che l’Iran fosse pesantemente coinvolto in Iraq: “Fornivano informazioni e raccoglievano informazioni… Gli Stati Uniti avevano effettuato molte azioni di commando oltre il confine per dare la caccia a questi operatori, con molti più atti di aggressione verso l’Iran.”

Crede che l’amministrazione Trump non ricordi questo approccio. Sono però sicuro che il complesso militare-industriale ha una memoria molto più lunga. Alcuni anni fa, Hersh partecipava ad una riunione in Giordania quando gli era stato detto che “voialtri non avete idea di quello che state iniziando,” in riferimento al sanguinoso settarismo che stava per scatenarsi in Iraq.

Gli chiedo poi parlarmi dei rapporti del RAND e dello Stratfor, compreso quello firmato da Cheney e da Paul Wolfowitz, in cui si ipotizzava la spartizione dell’Iraq lungo le linee di demarcazione etnico-confessionali. Hersh, mestamente, dice che: “Il giorno dopo l’11 settembre avremmo dovuto rivolgerci ai Russi. Abbiamo [invece] fatto l’unica cosa che Geroge Kennan ci aveva chiesto di non fare mai: espandere troppo la NATO.”

Finiamo con il parlare dell’11 settembre, forse perché è un’altra narrativa che si presta ad essere smantellata da parte degli scettici. I sondaggi mostrano che una porzione significativa del pubblico americano crede che ci siano ancora molte cose da rivelare. Questi dubbi sono stati rafforzati dalla declassificazione, l’anno scorso, di 28 pagine censurate del rapporto della commissione per l’11 settembre, che mettono in dubbio la versione ufficiale, secondo cui sarebbe stati alcuni terroristi che, agendo in maniera indipendente, erano riusciti a portare a termine gli attacchi. L’implicazione è che potrebbero essere stati sponsorizzati da uno stato estero, con il possibile coinvolgimento dei Sauditi.

Hersh mi dice: “Non mi sento obbligato a credere alla storia che Bin Laden sia stato il responsabile dell’11 settembre. Non sappiamo realmente come sia andata quella storia. Io conosco gente nella comunità dell’intelligence. Non sappiamo nulla di concreto su chi lo abbia fatto.” Continua poi: “Quell’uomo viveva in una caverna. Non parlava neanche bene l’inglese. Era molto intelligente e odiava  gli Stati Uniti. Noi abbiamo risposto attaccando i Talebani. Diciotto anni dopo… Come va ragazzi?”

Il concetto di guerra perpetua non è che sia proprio accidentale. La dottrina Truman si basava su questo. Il suo successore, Eisenhower, aveva coniato il termine “complesso militare-industriale.” Nel 2015, l’Amministratore Delegato di una delle più grosse industrie della difesa, la Lockeed Martin, aveva dichiarato che più c’era instabilità Nell’Asia Pacifica, meglio era per i loro margini di profitto. In altre parole, la guerra è un bene per gli affari.

Parliamo anche del suo ultimo lavoro sulla presunta mitologia che circonda la morte di Bin Laden, il libro “The Killing of Osama Bin Laden” [L’uccisione di Osama Bin Laden]. Hersh mi dice: “Era fuggito a Tora Bora. Secondo me i servizi segreti pakistani lo avevano evacuato molto presto. E’ probabile che sia rimaso ad Abbottabad [la città, sede di guarnigione militare, dove è stato alla fine ucciso] per cinque o sei anni, secondo alcuni disertori dell’ISI [il servizio segreto pakistano].” Allo stesso tempo, afferma che gli Americani non ne erano al corrente. “Non lo sapeva nessuno…Poi è arrivato qualcuno e ce lo ha comunicato,” dice, riferendosi al disertore pakistano, che si era aggiudicato una grossa fetta della taglia di 25 milioni di dollari.

Negli ultimi anni, Hersh ha ricevuto numerose critiche per i suoi articoli sulla Siria e su Bin Laden. E’ stato accusato di essere un difensore di Assad e dei Russi, anche se lui ribadisce di cercare solo la verità.

I suoi critici hanno anche asserito che Hersh è un teorico della cospirazione, anche se nella sua biografia di John F. Kennedy, “The Dark Side of Camelot” [Il lato oscuro di Camelot], scrive che, Oswald era il probabile assassino solitario. Alcuni anni fa avevo torchiato Hersh su questo argomento e lui mi aveva risposto che, mentre si documentava per il libro, non era riuscito a trovare nulla di più su Oswald. Sembra che questa posizione sia comune ad altri esponenti della sinistra, come Noam Chomsky, che ritiene JFK  un falco guerrafondaio liberale, piuttosto che una minaccia per l’establishment.

Devo dire che sono come minimo perplesso che un uomo che ha passato tutta la sua carriera ad occuparsi di spie e di azioni sotto copertura abbocchi alla versione ufficiale ed inghiotta amo, lenza e galleggiante. In “Reporter” ricorda con affetto i suoi rapporti, negli anni ‘80, con il regista di Hollywood Oliver Stone. Però, quando parla di Stone, che aveva iniziato a lavorare all’ipotesi che Kennedy fosse stato assassinato da un complotto della CIA, ipotesi che poi avrebbe costituito il nocciolo della sua opera più importante, “JFK,” Hersh si fa sprezzante e afferma che l’idea di Stone è ridicola (al che, Stone aveva replicato di aver sempre saputo che Hersh era un agente della CIA e che considerava chiuso l’argomento).

Hersh non dà segni di rallentamento. Ha chiaramente un sacco di lavoro per le mani, vista l’allettante prospettiva di fare una serie di articoli sul presunto hacheraggio del Comitato Nazionale Democratico e delle elezioni americane. E chi lo sa? Magari potrebbe anche alla fine vedere la luce il libro su Cheney. Sembra che, dopo tutto, ci siano ancora un paio di capitoli da aggiungere alle sue memorie.

Youssef El-Gingihy

Fonte: independent.co.uk
Link: https://www.independent.co.uk/news/long_reads/seymour-hersh-interview-novichok-russian-hacking-9-11-nerve-agent-attack-a8459596.html
01.08.2018
Tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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