Uomini e orsi in Trentino

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DI PIERO RIVOIRA

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Si muove, M49. Lentamente, con passo pesante, ma si muove. Ansima per la stanchezza e la fatica, e il suo fiato condensa in una nuvola nella notte fredda. È affamato, da giorni non mangia altro che formiche, l’unico cibo abbondante, da queste parti. Ha già ribaltato diverse grosse pietre ma niente da fare, neanche una di quelle bestiole che a volte trovano riparo lì sotto. Sono passati parecchi giorni dal suo ultimo pasto, ormai, da quando una mattina presto, prima dell’alba, seguendo il nastro grigio che si snoda tra gli alberi, piatto come una pietra levigata dall’acqua di un fiume, trovò un tasso morto sul ciglio.

Improvvisamente si blocca, ha sentito qualcosa. Un ululato lontano, attutito dalla nebbia e dalle foglie degli alberi, che, in questo autunno che si è fatto attendere così a lungo, ancora non sono cadute. Fiuta l’aria: forse i lupi hanno ucciso un capriolo o un cervo, e rimane qualche resto della preda da razziare. Non li teme, M49, anzi sono loro a temere lui. Il plantigrado è il re della foresta, non teme nessuno, neanche i suoi simili: sa come difendersi, ne incontrasse mai uno. Ma questo è l’ultimo dei suoi pensieri, adesso cerca solo qualcosa da mangiare.

È impaurito, si sente braccato: quegli strani animali a due zampe gli danno la caccia, da quando, dopo essere stato catturato e rinchiuso in un recinto elettrificato, è riuscito a fuggire. Sa che possono essere dotati di un lungo ferro che sputa la morte a distanza con il rombo del tuono e sono determinati a catturarlo.

Non può dimenticare il terrore che provò nel sentirsi rinchiuso, ma la sua disperazione, la sua voglia di libertà è più forte: lui appartiene alla foresta, è una bestia indomabile.

In montagna i mirtilli sono finiti da tempo così come i funghi nei boschi… dove sono le faggiole, le nocciole, le pere, le mele, il miele selvatico? Dove sono i grandi alberi morti, graffiando la corteccia dei quali si trovano, a volte, le larve di insetti che si nutrono di legno marcescente? Dove sono i laghetti e i torrenti dall’acqua limpida in cui sguazzano le trote?

L’aria frizzante del mattino annuncia che la stagione sta per cambiare: non c’è più molto tempo, ormai, prima che la neve ricopra i boschi e le valli con la sua coltre candida. M49 dovrà presto trovare un rifugio sicuro in cui passare l’inverno.

Questi boschi trentini, con i loro abeti svettanti, così alti che sembrano toccare il cielo, giganti fragili che l’uragano Vaia spazzò via a migliaia appena un anno fa come fossero fiammiferi, distese monotone di alberi coetanei, tutti della stessa specie, sono così diversi dalle foreste balcaniche in cui vivevano i suoi antenati.

Pecceta (bosco di abeti rossi) coetanea in Val di Fiemme.

M49, infatti, appartiene alla popolazione dinarica dell’orso bruno europeo, anche se il nome che gli umani gli hanno affibbiato sembrerebbe più adatto all’ultimo modello di mitra kalashnikov che ad una bestia pelosa di 150 kg.

Che ci fa un orso jugoslavo in Trentino? Teoricamente, non ci dovrebbe essere. Una breve ricerca sulla rete internet ed ecco la risposta:

«Nel 1999 per salvare il piccolo nucleo di orsi sopravvissuti da un’ormai inevitabile estinzione, il Parco Adamello Brenta con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica, usufruendo di un finanziamento dell’Unione Europea, ha dato avvio al progetto Life Ursus finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali tramite il rilascio di alcuni individui provenienti dalla Slovenia.»

Benché da decenni alcuni orsi sloveni (tutti maschi, purtroppo: le femmine sono più legate ai luoghi dove sono nate), incuranti dei confini tracciati dall’uomo scorrazzino liberamente di qua e di là della frontiera italo-slovena, spingendosi talvolta fino in Cadore, essi hanno scarse probabilità di raggiungere il Trentino. Il fondovalle dell’Adige è percorso dall’autostrada del Brennero, che è sprovvista di sovrappassi per consentirne l’attraversamento in sicurezza (a differenza dell’arteria che percorre la Croazia da Nord a Sud), e segue un tracciato sempre in superficie, almeno in provincia di Trento.

Si pensò, quindi, di andare a prendere gli orsi direttamente nella ex-Jugoslavia, nelle riserve di caccia di Jelen-Sneznik e Medved-Kocevje, situate nel Sud della Slovenia al confine con la Croazia, dove la gestione dell’orso consiste nell’allestimento di carnai per attirare gli animali in siti in cui essi possano essere uccisi o catturati

I maschi Masun, Joze e Gasper e le femmine Kirka, Daniza, Irma, Jurka, Vida, Brenta e Maya, furono catturati e narcotizzati e, dopo un lungo viaggio in camion, rilasciati nelle valli del parco.

2001: l’orsa Jurka viene rilasciata in val di Tovel (foto Archivio Parco Naturale Adamello Brenta).
Paesaggio forestale e montano all’interno della Riserva Naturale di Biogradska Gora, in Montenegro, habitat tipico dell’orso bruno.

Il ripopolamento ebbe un certo successo, tanto che nel 2018 è stata stimata la presenza di una decina di cucciolate, per un totale di 21-23 cuccioli. Nonostante ciò, dal 2003 ad oggi sono morti almeno 34 orsi, di cui 10 per cause naturali (29%), 9 per motivi ignoti (27%) e ben 15 per cause antropiche (44%), di cui 4 a seguito di uccisioni illegali, 7 per incidenti e 4 per abbattimenti autorizzati: uno in Germania, due in Svizzera e uno in Trentino.

Nel 2018 è stata accertata la presenza di 39 orsi, di cui 36 in Trentino nessuno dei quali nella parte orientale della provincia. È il terzo anno consecutivo che non vengono rilevati segni di presenza della specie ad Est dell’autostrada del Brennero, che si conferma essere una barriera pressoché invalicabile per gli orsi.

Sovrappasso autostradale per gli animali selvatici nel Parco Nazionale Banff in Alberta (Canada).

Distribuzione geografica dell’orso bruno sulle Alpi orientali.

La femmina F6, i cui spostamenti furono seguiti applicando una tecnica detta radiotelemetria, fu investita da un’auto proprio mentre attraversava la A22: dopo essere stata curata, migrò in Alto Adige a 68 km a Nord-est del sito di rilascio, dove trascorse l’inverno; in primavera entrò in territorio austriaco, allontanandosi di altri 20 km in direzione Nord

La costruzione di ponti autostradali e ferroviari, ricoperti di vegetazione, avrebbe favorito la dispersione degli orsi erratici, che vagano in cerca di un nuovo territorio in cui vivere, assecondando, così, la naturale tendenza ad espandersi del piccolo nucleo di plantigradi che hanno scelto i boschi del Friuli come loro nuova casa. Di tali corridoi, che vengono allestiti in tutto il mondo, si sarebbero avvantaggiati anche altri animali ma, contro ogni buon senso, si è preferito fare scelte differenti, strappando «un pacifico animale vagabondo a montagne boscose, tranquille e poco popolate come quelle della Slovenia, catapultandolo all’improvviso nei territori ben più ampiamente antropizzati del Trentino, dove tra malghe e colture, attività turistiche e sportive, l’incontro con l’uomo è assai più frequente, (e) può creare non pochi conflitti» (Franco Tassi, Il Signore della Montagna, 2018 – OASIS, N° 225, pag. 56-69).

Tutto ciò è riconosciuto dagli stessi autori del ripopolamento, che nel citato articolo scrivono:

«It is hard to believe that brown bears will ever reach natural carrying capacity in Central European landscapes due to arising bear-human conflicts.», ossia è difficile credere che la popolazione dell’orso bruno raggiungerà mai la capacità portante (il numero di esemplari che l’ambiente può teoricamente supportare), a causa dei crescenti conflitti con l’uomo.

A mano a mano che la consistenza demografica del plantigrado aumenterà avvicinandosi alla capacità portante dell’ambiente si farà più serrata la competizione intraspecifica, ossia la concorrenza fra orsi per l’uso delle risorse; costretti dalla mancanza di spazio e di cibo, gli individui in fase di dispersione finiranno con l’attraversare zone densamente abitate e fortemente antropizzate, con il conseguente, inevitabile aumento dei danni ad allevatori ed apicoltori.

Lo zoologo svizzero Hans Roth, durante il Convegno Nazionale dell’Associazione Teriologica Italiana tenutosi a Perugia il 18-19 ottobre 1996, aveva sconsigliato di liberare in Trentino orsi evolutisi in un contesto ambientale in cui le interazioni uomo-orso sono meno frequenti: questi animali, infatti, avrebbero potuto provocare dei problemi essendo più “selvatici” e, quindi, potenzialmente aggressivi, dal momento che avendo meno occasioni di interagire con l’uomo non lo temono. Purtroppo parlò davanti ad una sala semi-deserta e i suoi avvertimenti furono ignorati.

Anche Sandro Lovari, docente di Biologia della Conservazione all’Università di Siena, avrebbe in seguito espresso forti riserve sull’opportunità di riportare l’orso in Trentino:

«Io sono stato contrario fin dall’inizio e come me diversi altri zoologi. Non è assolutamente realistico pensare di avere una popolazione di orsi, parliamo di 40-50 non due o tre, in un’area così fittamente abitata ed antropizzata come il Trentino. Non ci si deve meravigliare se poi i nodi che vengono al pettine sono grossi… Fin dall’inizio sembrò un’operazione un po’ superficiale, fatta più per l’apparenza, che per la sostanza conservazionistica ed ora si tratta di risolvere i problemi.»

Supponiamo che qualche sconsiderato spari ad un orso ferendolo e che quest’ultimo reagisca uccidendo il suo aggressore o anche solo che si verifichi un incidente mortale o gravemente invalidante per un essere umano: quali sarebbero le conseguenze? Esponenti politici di alcuni partiti chiederebbero l’eradicazione della specie dal territorio trentino: il danno d’immagine per la Provincia di Trento, che colpirebbe ampi settori dell’economia locale, a cominciare dal turismo, sarebbe inevitabile.

I problemi non tardarono ad arrivare, palesandosi con comportamenti “problematici” da parte di orsi particolarmente scontrosi. Dapprima l’orsa Daniza, deceduta nella notte tra il 10 e l’11 settembre 2014 per gli effetti del narcotico somministratole a distanza per catturarla, essendo rea di aver ferito il cercatore di funghi Daniele Maturi, in cui si era imbattuta il 15 agosto dello stesso anno, e di aver precedentemente predato alcuni animali domestici, e spaventato alcuni escursionisti.

L’orsa Daniza con i suoi cuccioli. Foto Ansa per gentile concessione Corpo forestale dello Stato

Il tutto con il parere positivo dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che, del resto, aveva già autorizzato il trasferimento in Trentino degli orsi sloveni.

Tra l’altro, quando fu uccisa Daniza aveva due cuccioli: che fine abbiano fatto non lo sa nessuno, anche se non è difficile immaginarlo.

Il mondo accademico è diviso fra l’approvazione acritica e la netta contrarietà al ripopolamento ursino.

Paolo Ciucci, per esempio, zoologo presso La Sapienza di Roma, parla di condivisione del processo decisionale (di assassinare una creatura innocente):

«L’ideale sarebbe, e qui torniamo a Daniza, che questo processo decisionale che chiamiamo gestione fosse socialmente condiviso e accettato, in quanto non è possibile rimettere sistematicamente tutto in discussione ogni volta che si presenta la necessità di intervenire», come se la vita o la morte di un essere vivente potesse dipendere da una scelta meramente “tecnica”.

Approccio freddo, spietato, che veicola un messaggio altamente diseducativo e scientificamente discutibile, come la sconcertante dichiarazione di Silvano Toso, ex direttore dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica:

«In linea teorica la rimozione di singoli orsi provatamente pericolosi per la sicurezza è funzionale alla conservazione della popolazione ursina in quanto riduce il conflitto con la popolazione umana ed il conseguente possibile bracconaggio».

Come dire “vi ammazziamo per il vostro bene”.

Come se bastasse lanciare il sasso nascondendo ipocritamente la mano dietro la foglia di fico lessicale del termine “rimozione” (i Nazisti non hanno “rimosso” sei milioni di ebrei, li hanno uccisi).

All’insensibilità di certi tecnici, si contrappongono le prese di posizione di giornalisti e uomini di cultura, come Vittorio Feltri:

«Gli orsi da noi non circolavano da secoli. Eravamo impreparati ad incontrarne uno a due passi dal paese. Poi siamo andati a comprarne all’estero alcuni esemplari, per dimostrare che teniamo molto al ripopolamento delle nostre aspre vallate, e ci siamo limitati ad ospitarli pensando che si sarebbero arrangiati per conto proprio a procurarsi il cibo e a garantirsi lo spazio necessario alla sopravvivenza. Errore.

Un orso ha bisogno di godere di un vasto territorio… A me piacciono assai i selvatici di ogni specie, compresi quelli burberi e scontrosi, pertanto sono contento siano rientrati sui monti. Ma suggerisco a coloro che li trasportano qui di rammentare agli abitanti delle zone nelle quali arrivano i giganti creati dalla natura che non si tratta di peluche, bensì animali che attaccano per difendersi, dai quali conviene girare alla larga onde evitare incidenti.»

Mauro Corona:

«Sapete una cosa? Non avete risolto un bel niente. Lo dico a voi, uomini che avete sparato all’orsa e lo dico a chi vi ha ordinato di farlo. Preparatevi pure a sparare ancora, armate i vostri fucili. Finché l’uomo attraverserà la strada di un’orsa con i cuccioli, finché quell’orsa avrà paura aggredirà per difenderli. Ogni madre, di qualsiasi specie sia, difende i propri piccoli. È l’uomo, non l’orsa, che non è al suo posto. Gli orsi se ne fregano di noi, non ci aggrediscono, ma se una femmina ha i cuccioli allora è meglio starle distante. Punto. L’orsa lì doveva essere e lì doveva continuare a stare.

Hanno ucciso Daniza e adesso anche KJ2. E ci hanno pure detto che Daniza è morta per eccesso di anestetico, che si era trattato di un errore. Certo, come no? Per KJ2 niente anestetico? No, per quest’orsa soltanto piombo. Scusate, ma per quanto tempo continuerete a sparare? Prima ripopolate le montagne con gli orsi spendendo un sacco di quattrini pubblici e poi li condannate a morte.»

e, infine, Vittorio Sgarbi:

«Ammazzare un orso è come abbattere un albero»

Nel 1997, durante un soggiorno di studio in Abruzzo, conobbi un pastore locale che mi disse:

«L’orso è come una persona». Poche, semplici parole che esprimevano un rispetto profondo, da parte di chi non conosceva la natura per averla studiata sui libri ma perché era da sempre la sua casa e il suo luogo di lavoro.

Tre anni dopo l’uccisione «accidentale» di Daniza fu la volta di KJ2, braccata e uccisa senza pietà per ordine della Provincia di Trento per aver aggredito Angelo Metlicovez, un idraulico settantenne, mentre stava facendo una passeggiata in Valle dei Laghi; ferito da un morso a un braccio, l’uomo si salvò gettandosi in un canalone.

Missione compiuta: dopo aver eseguito l’ordinanza di abbattimento dell’orsa kj2, i mezzi della Provincia ritornano alla base.

Come si è arrivati a questa situazione? Bisognava fare in fretta: nel 1995 la Giunta esecutiva del Parco Naturale Adamello Brenta stava per scadere e si rischiava di dover ricominciare da capo il lavoro di progettazione svolto con i precedenti amministratori.

Soldi, tanti soldi: 3 milioni e 600 mila euro. Un’occasione imperdibile, il sogno di una vita che sta per realizzarsi: risorse per fare ciò che per cui hai studiato, ciò che hai sempre sognato di fare. Sembrava tutto semplice: si prendono gli orsi in Slovenia e li si libera in Trentino dopo averli muniti di radiocollare… dopotutto lì una piccola popolazione del plantigrado era sopravvissuta fino a pochi anni prima, no? Sì, certo, bisogna fare lo studio di fattibilità ma tanto è già tutto stabilito, perché l’hanno deciso i politici, gli amministratori. I fondatori (gli orsi traslocati in Trentino per fondare una nuova popolazione) sono troppo pochi? Non importa, l’Amministrazione non vuole spendere troppo: massimo beneficio con il minimo sforzo, risultati evidenti nel giro di pochi anni, obiettivo raggiunto.

Il progetto di ripopolamento era, dunque, motivato dal fatto che le foreste che ammantano questi monti avevano rappresentato l’ultimo fortilizio della specie sulle Alpi fino ai primi anni ‘90. Peccato che uno studio pubblicato cinque anni prima dell’inizio del ripopolamento segnalasse non solo che, alla fine degli anni ‘80, nella zona rimanevano meno di dieci orsi, ma anche che questo nucleo residuo non si differenziava geneticamente dalla popolazione dinarica e, quindi, non poteva rivestire un particolare interesse dal punto di vista della conservazione della biodiversità. Se differenze c’erano, riguardavano il comportamento degli animali, ossia il fatto che, essendo stati perseguitati e massacrati per secoli, fossero più timidi e timorosi dell’uomo rispetto ai loro cugini jugoslavi ma ciò non significa che tali differenze avessero una base genetica. Viceversa, nel caso in cui il residuo nucleo alpino fosse stato ben differenziato dal punto di vista genetico, gli orsi forestieri, provenienti dalla Slovenia, incrociandosi con quelli indigeni li avrebbero “imbastarditi”, facendo perdere loro quelle caratteristiche genetiche che li rendevano meritevoli di un così oneroso progetto di conservazione.

«Venite, cari turisti, nei boschi del Trentino è tornato l’orso bruno, indicatore di qualità ambientale…» tutto bene, dunque? No, niente affatto. In questi casi, un professionista serio non si piega a compromessi inaccettabili. E, invece, su questo progetto sono state costruite carriere, pubblicati articoli su riviste scientifiche, redatti rapporti in cui bisogna leggere decine di pagine prima di trovare la stima della consistenza demografica.

«Si è così soddisfatto il bisogno della Slovenia di “vendere” fauna, certo: e anche quello di accademici e tecnocrati di governare la situazione. Confidando troppo nelle moderne scienze, tecnologie e farmacologie (catture, trasporti, manipolazioni, radiocollari, microchips, trasmettitori, gps, sparasiringhe, dardi, sedazioni, anestesie, narcotici, tranquillanti, monitoraggi: e chi più ne ha, più ne metta).», scrive Tassi.

Gli orsi vanno bene come “ornamento” di un territorio da “vendere” ai turisti, a patto che sottostiano alle nostre regole, non sconfinino dalle aree che noi abbiamo riservato loro (anche se non in modo esclusivo) e dal repertorio comportamentale caratteristico dell’orso 2.0, che si adatta a sopravvivere in un ambiente antropizzato, alterato, impoverito, distrutto, che fugge alla vista dell’uomo, che è diventato pressoché vegetariano, che non devasta le arnie, che non attacca il bestiame domestico, che non aggredisce gli escursionisti, i cercatori di funghi, i cacciatori, insomma, che non è un orso. Tutto ciò assomiglia molto ad un’operazione di marketing, di promozione commerciale e molto poco ad una vera reintroduzione di una specie animale in un’area idonea alla sua sopravvivenza a lungo termine e dalla quale era stata estirpata in tempi storici, poiché le cause di quell’estinzione non sono state rimosse.

È stata creata una popolazione “artificiale”, funzionalmente isolata da quella principale, con la quale lo scambio di individui è minimo o inesistente. Con il trascorrere del tempo, questa sotto-popolazione andrà inevitabilmente incontro ad un crescente inbreeding e quindi sarà esposta agli effetti negativi della depressione da consanguineità, responsabili della recente estinzione del nucleo residuo di orsi delle Alpi (diminuzione della fertilità e della sopravvivenza, aumento delle anomalie genetiche ecc.). La sua grandezza effettiva, ossia il numero di riproduttori in una popolazione ideale che perde variabilità genetica per effetto del campionamento casuale dei geni alla stessa velocità della popolazione reale considerata, dovrebbe essere non meno di 50, ma per conservare una variabilità genetica sufficiente affinché una popolazione possa adattarsi a condizioni ambientali in continuo cambiamento, la grandezza effettiva minima dovrebbe essere intorno a 500!

Il fenomeno noto come «collo di bottiglia» o «effetto del fondatore»: in una popolazione numerosa, ogni gene presenta tante varianti diverse (rappresentate dalle palline colorate); se la consistenza demografica si riduce eccessivamente, il numero delle varianti geniche diminuisce (perdita di variabilità genetica) poiché gli individui che ne sono portatori non sono sopravvissuti e, quindi, non potranno trasmettere i propri geni ai discendenti. Questi ultimi, anche se nel frattempo la popolazione si sarà ripresa dal punto di vista numerico, saranno più omogenei tra loro, assomigliando geneticamente ai propri antenati, ossia agli esemplari che sono riusciti ad attraversare il collo di bottiglia (i fondatori della nuova popolazione).

Bene, volete sapere quale sia la grandezza effettiva della popolazione trentina di orso bruno20.

Gli orsi sono intrappolati nel Trentino occidentale: l’unica possibilità che hanno di incontrare dei conspecifici non imparentati con loro sarebbe di migrare verso Est, ma per farlo dovrebbero attraversare il fondovalle dell’Adige zizzagando tra le auto sulla A22; se si disperdono verso Ovest o verso Nord non solo non trovano altri orsi con cui accoppiarsi, ma come mettono una zampa in Svizzera o in Germania rischiano di essere presi a fucilate, mentre a Sud c’è la Pianura Padana. Quindi, non potendo trovare partners sessuali nelle regioni limitrofe, saranno costretti ad accoppiarsi fra loro in modo sempre più incestuoso.

Niente male per un progetto costato quasi quattro milioni di euro, più altre decine di migliaia spese ogni anno per il monitoraggio, le catture ecc.

Forse quelle risorse si sarebbero potute utilizzare meglio, come ce lo dice Franco Tassi:

«Forse pochi sanno che da tempo era iniziato un ritorno spontaneo di orsi dalla Slovenia, lento ma progressivo, e un individuo era stato persino filmato presso il Parco dello Stelvio! I plantigradi ormai abbondanti ad Est avrebbero cercato nuovi territori in Italia, trovando da soli gli ambienti più remoti e meno disturbati, e sarebbe stato fondamentale coadiuvarli in questa “espansione spontanea”. Si sarebbe formata una popolazione vitale, senza grandi spese e problemi, assecondando le leggi della Natura. Inutilmente, il Gruppo Orso aveva tentato di spiegare che sarebbe stato assai meglio favorire questo graduale ritorno del grande mammifero vagabondo, creando un “corridoio ecologico” di ambienti naturali non contaminati da veleni, e ricchi di frutta, bacche e insetti, sostenuto anche dagli stessi produttori di mele. Una larga “fascia biologica” di “mele con il baco” avrebbe comportato sì qualche piccolo sacrificio ai non certo indigenti produttori di frutta, ma avrebbe garantito prestigio ecologico e altissima visibilità.»

Perché, allora, si è seguita un’altra strada? Mah, forse perché piantando alberi da frutta “a perdere” (meli, ma anche peri e ciliegi selvatici, noccioli, castagni), reintroducendo le api selvatiche, lasciando invecchiare i boschi, vietando l’accesso alle aree più frequentate dai nuclei famigliari e costruendo sovrappassi autostradali è più difficile ma, soprattutto, ci vuole molto più tempo per raccogliere una quantità di dati sufficiente a pubblicare un articolo in una rivista scientifica: si aiuta la Natura ma non la propria carriera accademica e professionale.

AGGIORNAMENTO (10 novembre 2019): M49 continua a gironzolare per i boschi e ha trovato cibo in abbondanza; intanto è arrivata la prima neve…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PIERO RIVOIRA

Insegnante di Produzioni Animali (Istituto Tecnico Agrario di Asti) dal 2001, mi interesso di questioni ambientali fin dai tempi del liceo e dell’università quando, come attivista del WWF, raccoglievo fondi per salvare le foreste o tappezzavo ogni spazio disponibile nella mia provincia di Cuneo di locandine contro la caccia e i pesticidi, durante la campagna referendaria del 1990. Spinto da un’innata curiosità, non mi accontento di spiegazioni semplici a fenomeni complessi ma cerco di indagarne e comprenderne le cause remote cercando legami, interrelazioni fra fatti solo apparentemente non legati fra loro.

Fonte: https://comedonchisciotte.org

 

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