Di Flores TOVO
Comedonchisciotte
Credo che per uno storico non ci sia un argomento più difficile da affrontare di quello riguardante la storia russa nel suo insieme, a partire dalla sua nascita fino ad arrivare ai giorni nostri. Ancor più arduo è il compito di ricostruire sul piano spirituale le vicende del popolo russo durante il suo percorso. Se per spirito poi si intende, volendo usare il termine “Concetto” di Hegel (1), la storia romanzata della coscienza di un popolo, attraverso i suoi contasti, erramenti, scissioni, cioè la storia di un popolo che vive profondi dolori e infelicità, ebbene nessun popolo come quello russo rappresenta tale realtà drammatica. In generale la storia dello spirito di un popolo si occupa del suo movimento coscienziale nel tempo, in cui si possono osservare cambiamenti importanti delle forme spirituali, perché in ogni percorso storico ci sono persone d’eccezione, avvenimenti di rottura, guerre decisive che diventano epiche e che marcano in modo incancellabile il racconto del destino comunitario. A causa di queste “intensità” epocali i singoli individui si fanno gradualmente compartecipi del proprio sentire comune, passando così coscientemente dall’individuale generico all’universale concreto. Questo significa che un intero gruppo umano omogeneo quando si trova ad affrontare le medesime condizioni contingenti, deve necessariamente farsi una ragione dei medesimi problemi, permettendoci di capire il perché ogni popolo storico possa entrare in una cornice razionalmente comprensiva entro cui sta un quadro che lo unisce.
Ora, ribadiamo, le diverse forme dello spirito di uno stesso popolo assumono caratteri, come Hegel descriveva nella sua “Fenomenologia dello spirito”, talvolta contrastanti ed antitetici, seppur nella loro intrinseca unità, che, invero, non si ottiene mai “a buon mercato”. In tal guisa il popolo russo incarna, forse più di altri popoli, la drammaticità interna dei propri contrari contrastanti, non solo politici, ma anche sociali, letterari, religiosi e filosofici. Sicuramente solo il popolo tedesco negli ultimi mille anni ha vissuto nella propria interiorità spirituale tale drammaticità. Russi e Tedeschi sono, perciò, i popoli più dialettici della storia, come lo erano nel lontano passato i Greci antichi e i Romani nel Tardo Impero. Popoli che potremmo chiamare “Santi”, per le terribili vicissitudini che hanno subito e fatto subire.
Dopo questa breve, ma dovuta premessa, ritorniamo alla domanda che ci eravamo prefissi di esaminare, ossia su quale possa essere il destino futuro del popolo russo. E’ indispensabile perciò individuare quelle che sono state nel passato le “tappe” o figure fattuali simbolicamente decisive della storia russa.
Non è un azzardo affermare che questa storia inizia con la conversione dello stato dell’antica Rus’ al Cristianesimo ortodosso, che avvenne nel 988, quando in quell’anno Vladimir il Santo (oppure il Grande) ricevette il battesimo di fronte alla popolazione di Kiev. L’adesione alla chiesa di Costantinopoli segna il superamento di un paganesimo ancor primitivo. L’Ortodossia cristiana portava con sé il senso dell’impero romano, e quindi il senso della gerarchia e dell’universalità che andava oltre la stupefazione del culto della natura.
Si discute ancor oggi dell’importanza che hanno avuto i Normanni precedentemente alla conversione del cristianesimo. A parte il fatto che l’unico documento che racconta la “storia” dell’influenza scandinava è la “Cronaca di Nestore” è stato analizzato da numerosi specialisti che hanno individuato numerose carenze e aspetti leggendari. La stessa conquista di Kiev, attuale capitale ucraina sul fiume Dnepr ad opera di Oleg, in nome del figlio di Rjurik, Igor, fa parte del mito. Di fatto l’influenza normanna è stata poco rilevante, considerando anche che le parole normanne presenti nella lingua russa sono pochissime (neanche una decina). La stessa parola Rus’ è considerata di origine controversa. Resta il fatto che il Principato kievano ha lasciato un retaggio fondamentale per i Russi che si ripresero dopo il loro annientamento per opera dei Tatari mongoli (2). Tale retaggio comprenderà una religione uniforme, un linguaggio, un alfabeto, una letteratura comuni, assieme a manifestazioni artistiche. Anche l’eredità in campo economico e sociale sarà altrettanto ricca.
Lo stato di Kiev aveva in sé una debolezza intrinseca che la portò al disastro dopo circa due secoli e mezzo: la questione degli appannaggi (udel). Era consuetudine che un sovrano dividesse il proprio principato tra i figli, creando così una proliferazione di appannaggi. Ad ogni suddivisione succedevano altre suddivisioni, e ciò indeboliva l’unità dello stato e provocava lotte a non finire fra fratelli soprattutto nel XII secolo. Un po’ come era successo nell’Italia centro-settentrionale col diritto longobardo, che portò alla frantumazione di uno stato unitario che i Longobardi agognavano. Invece nel Nord Europa col diritto franco, che prevedeva l’ereditarietà del feudo solo al figlio primogenito, si ponevano così le premesse della formazione di stati nazionali. Lo stato kievano, non riuscì, quindi, neanche nella sua fase di ascesa, a darsi una forma permanentemente solida, e questa fu la causa principale del proprio crollo. Una disgrazia sociale che fu deleteria per il suo destino, poiché dalle steppe asiatiche apparve d’improvviso nel 1223 un nemico potente e spietato: l’esercito a cavallo dei tatari mongoli, i quali scomparvero inaspettatamente dopo aver vinto vicino alla foce del Don la battaglia di Kalka, per poi riapparire più numerosi nel 1237 quando attaccarono più a nord le città di Rjazan, Suzdal e la sede del principe a Vladimir. Il capo dei Tatari mongoli era il nipote del Gran Khan Ogodai, Batu Khan, sebbene il genio militare che portò alla conquista di quasi tutta la Russia fu Subutai Khan, che era stato lo stratega di Gengis Khan (morto nel 1226). La Russia, che era abitata all’incirca da 7 milioni di individui, fu sopraffatta. Solo le città più a Nord, come Novgorod e Pskov, furono risparmiate grazie al disgelo primaverile che rendeva fanghiglia il terreno, impedendo così alla cavalleria leggera dei nomadi armati di archi e frecce di dispiegarsi in battaglia. Il 1238 fu comunque l’anno terribile per il Principato di Kiev: tutte le città che si opponevano all’invasione venivano bruciate e tutte le popolazioni sterminate. Per questo il nome dei Tatari cambiò in Tartari, ossia gente dell’inferno. La ferocia dei nomadi fu senza uguali nella storia. Essi aggredirono poi la Polonia, vincendo a Liegnitz nel 1241. Solo la morte di Ogodai Khan salvò l’Europa dalla distruzione: era infatti consuetudine che i capi militari tornassero nella capitale mongola di Karakorum (una città di tende) per eleggere il nuovo Gran Khan. Durante il ritorno alla loro capitale, i Balcani subirono orrende violenze per opera di Subutai Khan. Intanto l’antica Rus’ non esisteva più e non fu più uno stato indipendente, poiché dopo l’invasione fu soggetta ai regni di Lituania e poi di Polonia. Solo circa 4 secoli dopo passò sotto il controllo della Russia di Mosca.
I Tatari mongoli, sebbene non interferissero nella vita privata e religiosa dei Russi, mantennero su di essi un controllo politico e fiscale effettivo dal 1240 al 1380, per proseguire, seppur indebolito, fino al 1480. Il neonato impero russo moscovita riuscì col tempo ad allontanare verso l’Asia siberiana i Tatari nel 1552 con la conquista del khanato di Kazan’, nel 1556 di quello di Astrakhan’, e alla fine sconfisse quello di Crimea nel 1783 annettendolo all’Impero. Date storiche che ormai fanno parte dell’epopea del popolo russo, di cui accenneremo più avanti.
Se Kiev fu sconfitta definitivamente, non lo sarà invece Mosca, che da semplice villaggio sorto nel 1147, e che fu distrutta anch’essa dai Tatari, riuscì poi a diventare, soprattutto dopo la seconda metà del 1.300, la città davvero decisiva per i Russi. Essa si imporrà con Ivan III il Grande come capitale di un nuovo Impero, divenendo così nell’immaginario collettivo la cosiddetta terza Roma. Prima vi è comunque una data fondamentale che ha inciso profondamente nella storia dei Russi: il 1380. In quell’anno il principe Demetrio Donskoj riuscì a sbaragliare l’esercito tatari di 200.000 uomini guidati dal Khan dell’Orda d’Oro Mamai, che fra l’altro si era alleato con i Lituani. Lo scontro fatale avvenne l’8 settembre a Kulikovo, nel punto di confluenza fra i fiumi Nepradva e Don, in una zona collinosa ricca di corsi d’acqua. La cavalleria tatara fu disorientata dalla tortuosità del terreno e perciò Demetrio con un esercito inferiore riuscì a vincere. Questa battaglia segnò l’inizio del declino mongolo in Russia. Essa fa parte cardinale della memoria dei Russi, perché costoro da quel momento avvertirono la forza della loro unità di stato guerriero. Fra l’altro si racconta che, prima delle battaglia, Demetrio prese forza dalle benedizioni del monaco eremita Sergio di Radonez, colui che diventerà la guida spirituale della Russia. Si può affermare con certezza che nacque in quella data l’epica russa, come da lì a poco nascerà l’epica serba con un’altra grande battaglia, quella di Kossovo Polje nel 1389. Ma mentre i Russi vinceranno, i Serbi del principe Lazar saranno sconfitti. Due epiche diverse, quindi, ma che sentiranno emotivamente come nemico comune i Mongoli e i Turchi. Demetrio otterrà l’appellativo di “Donskoj” , cioè “del Don” e di fatto sarà colui che porrà le basi dell’impero moscovita, poiché non solo sconfisse i Tatari, ma anche le città vicine di Tver’ e Riazan’, oltre che i Lituani e i Bulgari del Volga. Inoltre fece erigere già nel 1367 le mura di pietra a difesa di Mosca. La sua morte prematura, nel 1389, non interruppe comunque l’irresistibile ascesa della città. Una città che beneficiò della sua posizione favorevole perché essa sorgeva nel cuore di territori abitati da popolazioni russe, comprese quelle che erano fuggite da Kiev dopo la sua distruzione.
Infatti essa aveva la fortuna di situarsi nei pressi delle sorgenti di 4 grandi fiumi, l’Oka, il Volga, il Don e il Dnepr e sull’apertura a distese pianeggianti, simili ad oceani d’acqua. La pianura sterminata è il simbolo più intimo dello spirito russo. Un’altra fortuna fu che tutti principi e poi gli zar dopo Ivan III ebbero figli maschi, fino al periodo del “Torbidi” che caratterizzò gli inizi del 1600. Dopo, dal 1613, ci sarà il dominio di un’unica casata, quella del Romanov, che durò fino al 1917.
Ivan III, che regnò dal 1462 al 1505, sarà il primo imperatore, quando nel 1480 decise la fine del pagamento dei tributi all’Orda d’Oro, dichiarando il granducato di Mosca indipendente, per poi dichiararsi “gosudar”, cioè zar, nel 1493. Ivan III, nel frattempo, fece costruire il Cremlino, e riuscì a quadruplicare il territorio moscovita incorporando via via tutte le città confinanti, comprese Novgorod, Pskov, Smolensk, Perm a ridosso degli Urali e sconfiggendo il re di Lituania. Successivamente con Ivan IV (1533-1584) il Terribile, Mosca conquistò tutto il bacino del Volga, occupando i Khanati di Kazan’, Saraj ed Astrakhan’. La Russia divenne perciò un impero estesissimo, per quanto poco popolato, per mezzo di guerre continue contro nemici ferocissimi ed implacabili. Il suo popolo fu “costretto” così a formarsi un’anima guerriera, che i suoi nemici moderni come Napoleone e Hitler completamente sottovaluteranno. Ciò fu riconosciuto persino dallo stesso Hitler a colloquio con il generale finnico Mannerheim nel 1943 dopo la sconfitta di Stalingrado.
Ecco che si capisce come gli scontri e le sfide durissime che nessun paese ha dovuto affrontare, hanno reso il popolo russo temprato duramente, sebbene nell’apparenza quotidiana sembri gioviale, dedito nei momenti di festa a memorabili bevute e a danze frenetiche. Aver combattuto per secoli contro i Mongoli e i Turchi, gli hanno “donato ” un’epica e quindi una grande memoria di sé, che lo porta ad amare profondamente il suo destino, sia passato che futuro.
Si noti inoltre che l’influsso tartarico fu del tutto negativo, poiché il livello culturale dei nomadi era primitivo: sono, invero, rimaste nel vocabolario russo molte parole mongole. Di sicuro l’unica influenza ragguardevole che esso ha avuto è stata di tipo indiretto. I principi e poi gli zar russi furono costretti ad organizzare una struttura politica fortemente centralizzata e dispotica, perché solo così potevano vincere. Ivan III e soprattutto Ivan IV distrussero il sistema frazionistico degli appannaggi di kievana formazione, creando uno stato di fatto autocratico di tipo orientale. Lo zar divenne così l’Autocrate di tutte le Russie; non un dio in terra come l’Imperatore celeste cinese, ma di fatto il padrone della vita e della morte di tutti i suoi sudditi. Un potere che è si è palesato tale fino ai tempi recenti.
Pertanto fino alla nomina dello zar Pietro il Grande, verso fine Seicento, la Russia ben poco aveva di che spartire con l’occidente europeo.
Anche il Cristianesimo ortodosso importato da Kiev, manifestava caratteri più orientali che europei. Già gli Ortodossi di Costantinopoli avevano rotto i rapporti con la chiesa cattolica dal 1054 con Michele Cerulario che aveva condannato la teoria del “filioque”. Con tale teoria si affermava che lo Spirito Santo proveniva congiuntamente dal Padre e dal Figlio: teoria dogmatica fatta propria dal papato romano, mentre per la chiesa ortodossa lo Spirito Santo proveniva direttamente dal Padre (monopatrismo). Questa disputa, che ai giorni nostri può sembrare astratta ed astrusa, era ed è per i credenti di importanza fondamentale, poiché per gli Ortodossi il Padre era rappresentato in terra dall’imperatore, per cui non poteva esserci la superiorità del papa sul potere temporale, che era completamente scisso da quello spirituale. Per tal motivo nei paesi ortodossi non ci saranno mai vere e proprie guerre fra patriarchi ed imperatori, a differenza dell’Europa cristiana cattolica che durarono circa 3 secoli, dal 1.000 al 1.300. La frattura fra chiesa ortodossa russa e chiesa romana fu ancora più acuta quando nel 1439, nel concilio di Firenze, il clero ortodosso greco, terrorizzato dai Turchi alle porte, firmò un accordo che riconosceva la supremazia del papa, sperando in un suo aiuto (che non ci fu). Il metropolita russo, ma di origine greca, Isidoro, che aveva firmato l’accordo, fu subito arrestato a Mosca e rinchiuso in un monastero. Nel 1443 il concilio ortodosso di Mosca condannò l’accordo ed elesse metropolita il vescovo Giona. Da allora fino ad oggi nessun accordo portò una conciliazione fra i due cristianesimi. Nel 1589 Mosca ottenne il Patriarcato. Le tensioni fra patriarca e zar si acuirono quando un grande riformatore, il patriarca Nikon (1652-1667), dopo aver disciplinato il clero ed anche la ritualità religiosa con l’appoggio sia dello zar Alessio che del patriarca di Costantinopoli, entrò successivamente in contrasto sia con i Vecchi Credenti guidati da Avvakum e sia con lo zar stesso. Le sue aspirazioni al potere supremo furono condannate come eresia, sebbene molte sue riforme fossero approvate nel 1667, nonostante la sua destituzione. Ci sarà poi uno scisma (raskol) tra i Vecchi Credenti di Avvakum (autore di un libro straordinario per la letteratura e lingua russa), che volevano ripristinare le vecchie consuetudini, che, nonostante le presenza di varie sette, sarà l’unico scisma di un certo rilievo della storia russa.
Questi fatti ci permettono di capire come la chiesa ortodossa, pur potente e ricca, non si sia mai seriamente contrapposta al potere politico, ma anzi divenne spesse volte il suo supporto morale e spirituale. L’autocrazia, pertanto, non ha mai conosciuto grossi ostacoli da parte del potere religioso.
Dopo il periodo del “Torbidi” (1598-1613) dominato da personaggi come lo zar Boris Gudonov, i due falsi Demetri, e il re di Polonia Sigismondo III che, pur cattolico, pretendeva di diventare zar, ci sarà la rinascita dello stato. Sigismondo aggredì Mosca, assieme agli Svedesi che avevano occupato Novgorod, ma ciò causò la rivolta di tutto il popolo che cacciò gli invasori: ci fu finalmente l’elezione di Michele Romanov come zar. Anche in questo caso lo stato moscovita riuscì a superare la situazione disastrosa in cui era precipitato, uscendone rafforzato grazie all’apporto decisivo della piccola nobiltà e di tutti i ceti popolari e della Chiesa ortodossa. Tali drammi rivelarono la grandezza militare e morale del popolo russo, poiché, dopo i Mongoli, aveva schiacciato tutti i suoi nemici storici occidentali (che ancor oggi sono sentiti come tali) salvando la propria fede e il paese stesso.
Da queste immani tribolazioni si consolidò ancor più il fortissimo sentimento nazionale dei Russi, che sempre vive, a volte in modo nascosto, a volte in modo palese.
Durante il 1600 la Russia poi si espanse per 5.000 km. nei territori siberiani, grazie ai cosacchi e alla loro capacità di navigare sui grandi fiumi quali l’Ob-Irthys, il Lena, lo Jenissei e l’Amur fino ad arrivare al Pacifico. I commerci di pellicce e di legname portarono ad realizzare affari d’oro per i pionieri, i quali comunque non oppressero violentemente le popolazioni siberiane delle terre occupate, come avvenne in America. Anzi andarono spesso d’accordo con loro, tanto che se i singoli indigeni si facevano ortodossi, erano considerati giuridicamente alle stregua dei Russi. Nel 1741 la Russia con l’esploratore danese Bering addirittura arrivò in Alaska.
Il trattato di Nercinsk nel 1689 segnò poi la nascita della diplomazia fra Cina e Russia. Un trattato che fu rivisto parzialmente dai trattati di Aigun e Pechino a favore della Russia nel 1858 e nel 1860, coi quali la Cina, in profondissima crisi, cedette la riva sinistra del fiume Amur e la regione del fiume Ussuri. I due imperi tuttavia mai si fecero un guerra vera e propria, sia perchè non avevano particolari mire espansionistiche riguardanti i territori da essi controllati, sia per il reciproco timore e rispetto. Da allora, sino ai giorni nostri, Cina e Russia, non hanno mai combattuto fra loro guerre devastanti: i contrasti ci furono nel Novecento soprattutto nei primi anni del Novecento per la Manciuria e alla fine dei Sessanta per il fiume Ussuri e per questioni ideologiche fra Mao e Krusciov. In realtà i grandi conflitti cominciarono ad accadere con l’Occidente europeo, quando la Russia con Pietro il grande (1782-1725) rivolse le proprie attenzioni verso l’Europa. Prima di lui l’interesse dei Russi verso occidente era solo di tipo pratico, che concerneva particolarmente il commercio di armi, pellicce, legname. Pietro, che aveva trascorso l’esistenza giovanile nel quartiere straniero che si trovava alla periferia di Mosca, aveva compreso che senza riforme militari e culturali la Russia non avrebbe mai contato nulla sul piano internazionale. Egli, come si sa, spostò la capitale a San Pietroburgo sulla Neva nel 1703, aprendo così la porta sul Baltico e sull’Europa. Sconfisse gli Svedesi di Carlo XII nel 1709 a Poltava, e riuscì a conquistare Azov sul rispettivo mare. Rimodernò l’esercito e la marina, istituì la cultura con l’Accademia delle scienze, obbligò i nobili agli studi. Fece poi molti interventi sui costumi ed usi dei Russi (famigerata era l’imposizione del taglio della barba) che lo resero in verità impopolare. La via verso l’occidente era comunque aperta. Con le zarine Elisabetta (nemica di Federico II di Prussia) e Caterina II, che conquistò il Khanato di Crimea nel 1783 e partecipò alla spartizione della Polonia con Austria e Prussia, la Russia entrò a far parte delle principali potenze europee. Sotto il regno di quest’ultima ci fu la diffusione della cultura illuministica per opera di Voltaire, sebbene Caterina II abbia impedito la riforma della servitù della gleba, a causa della rivolta di Pugaciov. Con lo scoppio della rivoluzione francese la Russia fu sempre più coinvolta, soprattutto per le pressioni inglesi, a spedire eserciti contro i Francesi. Alla fine fu essa stessa invasa dalla Grande Armata organizzata da Napoleone (oltre 600.000 mila soldati), che però lo zar Alessandro I sconfisse. Dopo due secoli dalla vicenda dei “Torbidi”, la Russia era stata sfidata da un temibilissimo nemico che ne mise a repentaglio, come agli inizi del 1600, la sopravvivenza. Si dice sempre che i Russi sono favoriti dal “Generale Inverno”: in realtà se è vero che il clima continentale freddo li favorisce, è ancor più vero che contro la Grande Armata il loro esercito fu comandato da due grandissimi strateghi militari, come Suvarov e Kutuzov, e che lo stesso Alessandro era un militarista fanatico che non tralasciava nulla pur di imporre una ferrea disciplina al suo esercito. La vittoria sulla Beresina diventerà un altro ricordo indelebile per lo spirito russo.
Tutto l’Ottocento fu animato dalla scontro culturale fra occidentalisti e slavofili. L’Europa guardò sempre la Russia con diffidenza e disprezzo, talvolta con odio per la rozzezza e la trivialità dei Russi. La Russia invece nutriva verso l’Europa fino alla metà dell’Ottocento un senso di inferiorità dovuto alla sua povertà artistica, letteraria e tecnica. Ma proprio in quel secolo cominciò a manifestarsi l’apparire di grandissimi scrittori, come Puskin, Turgenev, Gogol’, Gonciarov, Dostoevkij, Tolstoi, Cechov, e tanti altri di straordinario spessore, che hanno creato una letteratura che è una delle più grandi se non la più grande di tutti i tempi. Essi contribuirono in modo significativo a estinguere il sentimento di inferiorità verso gli europei. Ora è inutile in questa sede fare un elenco di coloro che ammiravano l’Europa o di coloro che la disprezzavano come sentina di ogni corruzione (3). Sicuramente l’anima più profonda che seppe rappresentare il vero spirito russo fu Dostoevskij, il quale formulò gli elementi ideali che ne rappresentavano la sintesi. Questi elementi indicavano il superamento della cultura europea ormai indirizzata verso l’individualismo e la secolarizzazione. Egli propugnava un ritorno universale alle radici cristiane ortodosse, e pensava che l’espansione russa in Asia facesse sì che la Russia divenisse l’intermediaria fra Europa ed Asia stessa. Dostoevskij aveva inoltre il presentimento che la cultura europea approdasse col suo scientismo universalistico al nichilismo assoluto. Egli vedeva, in questo, il tramonto del bello, del vero, del buono, come anticipò, da puro veggente, nel suo romanzo “I demoni”. Nietzsche ne sarà poi il “seguace”, diventando il più grande interprete del nichilismo stesso.
La guerra di Crimea (1853-56) fu l’evento storico che segnò uno spartiacque profondo fra vecchia e nuova Russia. La sconfitta fu avvertita come una vera e propria disfatta che spinse il nuovo zar Alessandro II a promulgare una serie di radicali riforme liberali della società (l’abolizione della servitù della gleba nel 1861), dello stato (riforme delle province e della scuola) e dell’esercito (riduzione drastica temporale del servizio militare). Certamente questo zar fu il più grande riformista della storia russa, sebbene non avesse emanato la riforma decisiva: quella politica. Infatti non istituì un parlamento che avesse poteri legislativi. Questa grave mancanza sarà foriera di gravi tensioni sociali, poiché la classe degli intellettuali, la cosiddetta “intelligencija”, si sentì emarginata. Questo fu un errore epocale, come scrisse lo storico R. Pipes nel suo libro “Il regime bolscevico”, poichè questa classe si sentiva l’unica di rappresentare i “veri” interessi del popolo russo. Essa indicò il governo zarista come il nemico, nonostante fra i loro rappresentanti ci fossero divergenze ideologiche notevoli, come fra slavofili e occidentalisti, fra conservatori e rivoluzionari, anarchici e socialisti e così via. Eppure essi trovarono la coscienza della loro unione nell’odiare il potere zarista. Espressione massima di questo odio fu attuata con l’attentato, riuscito, contro lo zar Alessandro II nel marzo del 1881 da parte di terroristi detti “Narodniki”. La figura dello zar come padre di tutte le Russie fu sminuita ancor più con la sconfitta sulle acque di Tushima nel 1904 per opera dell’ammiraglio giapponese Tojo, e con la rivolta nel 1905 guidata dal pope Gapon.
La scellerata decisione di Nicola II di entrare in guerra nel 1914 contro il più potente degli eserciti, quello tedesco, che era sì meno numeroso, ma di gran lunga meglio armato, segnò il definitivo declino degli zar. A fine guerra la famiglia Romanov sarà sterminata, a quanto pare su ordine di Lenin, nella notte fra il 16 e 17 luglio del 1918. Senza l’intervento militare i comunisti bolscevichi non avrebbero mai vinto. Quindici milioni di soldati, per lo più contadini, erano stati mandati allo sbaraglio, talvolta senza armi, da ufficiali senza scrupoli e pietà. Ciò generò un odio profondissimo contro la classe dirigente russa e soprattutto contro i nobili. L’errore madornale e criminale del social-rivoluzionario Kerenskij (in realtà un socialdemocratico) nel 1917 fu quello di voler proseguire a tutti i costi la guerra. E questo gli sarà fatale sia a lui che al suo partito. Il popolo russo voleva a tutti i costi la pace per non subire più un inutile massacro per una guerra mai avvertita come necessaria. Con un doppio colpo di stato, prima nell’ottobre ortodosso del 1917 e poi nel gennaio del 1918 i bolscevichi di Lenin presero il potere in modo violento. Essi vinsero sui propri nemici con tre parole d’ordine: pace, terra e soviet, anche se il 18 gennaio, quando sciolsero l’Assemblea costituente votata nel novembre del 1917, erano ancora in netta minoranza. Appellandosi alla volontà generale (la volontà unanime teorizzata da Rousseau) Lenin giustificò l’atto sovversivo affermando che il popolo era stato deviato nelle opinioni, ma che nella realtà voleva solo la pace. Pace che venne stipulata con la Germania col trattato incredibilmente negativo per la Russia nel marzo del 1918 a Brest-Litovsk; un trattato firmato dal ministro degli esteri, l’ebreo chazaro Trockij.
La vittoria dei bolscevichi comunisti nella guerra civile che ne seguì, si concluse nell’estate del 1920 dopo la morte di più di 10 milioni di Russi: una tragedia immensa per il numero delle vittime e per la ferocia profusa fra Bianchi zaristi e Rossi comunisti. Lenin sapeva bene, avendo studiato Marx, che il comunismo da questi previsto comportava necessariamente un alto grado di sviluppo delle forze produttive: realtà socio-economica che in Russia non c’era. Infatti i presupposti concreti e reali (alto grado di sviluppo tecnologico, proletarizzazione diffusa, grandi industrie, ecc.) di cui parlava il filosofo di Treviri non esistevano se non in sparute conclave cittadine. Il 90% della popolazione viveva nelle campagne. Le rivoluzione russa fu fatta dai contadini poveri, guidati da un partito messianico di professionisti con a capo un genio politico di tipo infero (infero per la sua spietatezza di tipo tartarico). L’anarchico russo Bakunin (che considerava i contadini rovinati dal capitalismo la vera classe rivoluzionaria) ebbe nella teoria ragione contro le idee del comunista Marx, ma il partito che vinse fu quello bolscevico-comunista. Tantissimi storici e filosofi si sono chiesti sul perché la rivoluzione comunista sia avvenuta in un paese arretrato. La risposta è semplice: in Russia ci sono sempre stati elementi culturali ed economici di ordine collettivistico. Il “Mir” è stato fra questi elementi sicuramente il più importante. Esso era un organo decisionale di origine antica, propria dei popoli slavi, che regolava la distribuzione delle terre delle comunità rurali (obscine). Il terreno che i contadini lavoravano erano di appartenenza di un grande proprietario, ma una parte di esso era coltivato in usufrutto dalla servitù delle gleba per il proprio sostentamento. Il Mir regolava i rapporti umani in modo che ciascun individuo si sentisse socialmente ed economicamente un membro di una personalità collettiva. Al Mir spettava la riscossione delle tasse, la ripartizione dei salari e il reclutamento delle forze armate. Esso fu abolito nel 1906. Il primo ministro Stolypin (1906-1911) fece ben tre riforme agrarie che rendevano libera la compravendita dei beni immobili: lo scopo fu quello di creare dei piccoli e medi proprietari agricoli, che i bolscevichi definirono con spregio Kulaki (Kulak=pugno, simbolo dell’avidità). La riforma tecnicamente ebbe successo se si pensa che alla vigilia della rivoluzione i contadini detenevano come proprietari, o affittuari, quasi il 90% delle terre arabili alla vigilia della rivoluzione. Eppure essi non rispettavano la proprietà privata, perché intendevano ancora la terra come un possesso della comunità. L’imposizione delle collettivizzazione forzata delle campagne durante il primo piano quinquennale (1928-1933) operata da Stalin che istituì i Kolchoz e i Sovchoz, si rifaceva evidentemente al vecchio Mir. La distruzione della proprietà privata dei Kulaki, con la loro connessa eliminazione fisica durante il periodo dell’Holodomor (fame), era in fondo la conseguenza di una mentalità contadina maggioritaria che era ancora socialisteggiante. La contemporanea industrializzazione forzata ad opera dello stato, prevedeva la creazione di grandi industrie pesanti (primarie) che dovevano modernizzare rapidamente la Russia: “soviet più elettrificazione” amava dire Lenin. I ceti medi furono annientati e con essi la piccola e media industria. Stalin, che aveva vinto già nel 1925 lo scontro con Trockij, impose poi la politica del “socialismo in un paese solo”, richiamandosi inevitabilmente al mai sopito nazionalismo russo. Egli poi negli anni Trenta, vantandosi dei successi innegabili dei piani quinquennali nello sviluppo dell’industria pesante, fece diffondere con maestria il culto della personalità: i suoi ritratti divennero le nuove icone in tutte le case dei sovietici. Anche in questo caso nulla di nuovo. Stalin, ancor più di Lenin, di cui fu il fedelissimo discepolo, non era altro che la raffigurazione moderna dell’’autocrate del 1500. Una reincarnazione, diciamo così, di Ivan IV il Terribile, soprattutto quello della seconda fase del suo dominio, in cui sterminò i boiari, mentre egli eliminò su vasta scala tutti i suoi oppositori sia interni che esterni. La Ceka, che poi si chiamò in successione Nkvd, Ghepeù ed infine Kgb, altro non era che l’imitazione moderna della milizia segreta dello zar Ivan IV, ossia l’opricnina, composta da gendarmi nerovestiti e su cavalli neri, armati di scuri. L’autocrazia era rinata con Stalin nella sua forma più violenta. Con l’appoggio dei servizi segreti comandati dai terribili Yagoda, Ezov (soprannominato il nano maledetto) e Berja (un effettivo criminale seriale), egli distrusse ogni forma di dissenso: ciononostante egli era anche un avveduto politico. Infatti l’URSS (nata nel 1922) era riuscita sotto la sua guida a sviluppare in quegli anni una potente industria di base e una ragguardevole industria militare. Quando nel giugno del 1941 l’esercito hitleriano la invase, Stalin abbandonò nell’estate di quell’anno, a causa delle disfatte subite, il linguaggio del comunista, per far proprio quello del convinto nazionalista: dai “compagni” si passò ai “fratelli”. Persino la chiesa ortodossa, che aveva subito il più grande martirio di tutta la storia cristiana durante l’epoca di Lenin, fu riammessa nella comunità nazionale, per combattere il più fanatico dei nemici. E ancora una volta, nel massimo del pericolo, lo spirito russo seppe prevalere: le battaglie di Stalingrado e di Kursk sono altri nuovi cardini immaginifici della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che viene celebrata entusiasticamente il 9 maggio di ogni anno.
Dopo la guerra il regime staliniano ristabilirà la sua durezza totalitaria, e solo con Krusciov e il XX congresso del PCUS nel 1956 la dittatura attenuò la sua presa con la liberazione di centinaia di migliaia di persone dai Gulag. Gli anni successivi furono caratterizzati dalla cosiddetta “coesistenza pacifica” e “dal disgelo”: non mancarono comunque tensioni fortissime con la Cina nel 1960 e in particolare con gli USA nel 1962 che condussero il mondo sul baratro di un conflitto termonucleare a causa dei missili sovietici che dovevano essere installati a Cuba. Dopo la deposizione di Krusciov nel 1964 ci fu la normalizzazione di Breznev, in cui ci fu un netto miglioramento dei livelli di vita soprattutto nel settore agricolo ed energetico. Breznev morì nel 1982, ma intanto si stava verificando il notevole calo dello sviluppo economico. D’altro lato crescevano le tensioni fra Occidente e URSS anche a causa dell’intervento militare sovietico in Afghanistan nel 1979, a cui seguì il dispiegamento dei missili SS20 sovietici e dei missili Pershing in 5 paesi europei, fra cui l’Italia. Dopo questi avvenimenti cominciò la grande crisi.
Si può affermare a più di 30 anni di distanza che la crisi dell’URSS e del suo crollo nel 31 dicembre del 1991 fu dovuta alla superiorità tecnologica americana, grazie all’applicazione di nuove tecnologie nelle armi cinetiche e nei calcolatori veloci. La rivoluzione elettronica e la minaccia di costruire uno scudo spaziale da parte del presidente USA Ronald Reagan furono determinanti. L’URSS non sarebbe stata più in grado di sostenere economicamente una nuova corsa delle armi, né di affrontare una qualsiasi guerra convenzionale, poiché il divario tecnologico in quegli anni si stava ampliando sempre più. Gorbaciov, che era diventato il segretario generale nel marzo del 1985 propose una ristrutturazione generale dell’economia e della burocrazia (la “perestrojka”), poiché l’apparato produttivo era ormai vetusto, poiché le infrastrutture erano inadeguate, i servizi mediocri e l’industria pesante era ormai affetta da un gigantismo incapace di usare le nuove tecnologie. Per non parlare dell’industria leggera da sempre punita da una pianificazione economica di puro tipo quantitativo. Ci fu poi l’introduzione della “glasnost” (trasparenza) e la nomina della commissione d’inchiesta Yakovlev sullo stalinismo degli anni ’30 e ’40 e una conseguente apertura democratica della società sovietica. Ormai il dado era tratto. Il crollo del muro di Berlino, l’instaurazione di regimi liberal-democratici nei paesi del blocco socialista, e l’unione tedesca segnarono la fine della guerra fredda e il trionfo del liberalismo politico e del liberismo economico perpetrato negli anni ’80 dalla Thatcher e da Reagan. Iniziò la fase storica del capitalismo assoluto.
Eltsin, dopo aver sventato l’ultimo tentativo dei comunisti di fermare nell’agosto del 1991 l’ascesa del liberalismo, divenne il numero uno della Federazione Russa che prese il posto della defunta URSS. Durante gli anni del suo comando, che di democratico aveva comunque ben poco, visto che fece bombardare il Parlamento di Mosca nell’ottobre del 1993, furono consolidate riforme liberiste radicali che ebbero effetti devastanti sull’intera Russia e sui paesi vicini che erano appartenuti all’URSS. Poco prima della sua caduta Gorbaciov nel luglio del 1991 fece varare una legge sulla privatizzazione delle industrie pubbliche. La nomenclatura del partito comunista più occidentalizzata e i giovani del “komsomol” compresero l’incredibile occasione di diventare ricchissimi con pochi soldi. Infatti fu introdotta, sempre da Gorbaciov, la legge dei “voucher”. Essi erano certificati azionari che teoreticamente dovevano favorire i lavoratori, che ne possedevano una parte. Ma l’inganno stava in agguato: i voucher non erano certificati nominativi e quindi potevano essere venduti o scambiati facilmente. Ciò acconsentì agli spietati manager dei kolchoz e sovchoz e delle grandi industrie di stato ( i cosiddetti oligarchi) di fare man bassa dell’enorme bottino. Poche bottiglie di vodka permisero agli accaparratori e profittatori di impadronirsi con pochi rubli di ricchissime proprietà. Famoso il caso di Mikhail Khodorskovsky che con 300.000 dollari si impadronì dell’industria petrolifera Yukos, che pochi anni dopo valeva 50 miliardi di dollari. Dopo la sua incarcerazione nel 2003, divenne in Occidente, non a caso, un eroe per la libertà. Negli anni ’90 la Russia, guidata dal primo ministro Gajdar e dal ministro dell’economia Chubais, vide il PIL crollare del 50%, l’aspettativa di vita scendere di circa 4 anni e una dura povertà colpire il 2/3 della popolazione. Un milione di persone circa morirono di fame. Il liberismo trionfò sulle macerie del comunismo, peggiorandone assai il tenore di vita. Tuttavia bisogna riconoscere che il popolo russo potè almeno accedere alle nuove tecnologie informatiche e a godere di una maggiore libertà d’espressione, sebbene di fronte al disastro sociale nessuna persona si compiaceva di tali benefici. La svolta, come si sa, si ebbe quando Eltsin, ormai stremato fisicamente dai suoi vizi, decise nell’agosto del 1999 di nominare Putin come primo ministro, che poi divenne l’anno successivo Presidente della Federazione russa, ottenendo in pratica pieni poteri, poichè lo stato russo era, e in parte è, uno stato fortemente presidenziale. Su Putin è ormai superfluo scrivere, in quanto sappiamo tutto su di lui. Il PIL nei suoi anni è cresciuto di 5 volte, la sicurezza per le strade è ritornata, il potere degli oligarchi è stato alquanto ridotto. Il suo consenso a livello popolare oscilla dal 60% all’80%, a seconda delle situazioni. Nessun politico al mondo gode di tale prestigio. C’è tuttavia un fatto da sottolineare che è dominante rispetto a tutti gli altri: ossia il rimodernamento militare. A partire dal 2012, sotto la direzione del ministro della difesa Sergej Sojgu, tutte le specialità dell’esercito si sono dotate di un arsenale militare invincibile, in particolare nella missilistica ipersonica. Un solo missile IBCM come il Sarmat la Russia può distruggere l’intera Francia o un siluro atomico Poseidon può annichilire la vita dell’intero Nord-est americano. I tentativi, tuttora in corso, di accerchiare la Russia con la Nato, sono ormai inutili. Essa, ancora una volta, si è dimostrata irriducibile ad ogni minaccia.
La nuova costituzione, promulgata il 3 luglio del 2020 dopo il referendum del 1 luglio in cui la volontà del popolo si è espressa a favore con oltre il 77% dei voti in presenza di un 68% di votanti, segna la nascita del nuovo stato russo. Se la si studia attentamente si nota che essa è una costituzione di tipo liberal-conservatore, che si rifà più al modello francese che a quello americano. Non c’è traccia di autocrazia, nè tantomeno di teocrazia, perchè lo stato si definisce laico (art. 14), e in quanto non esiste nessuna obbligatorietà di seguire una religione. Con semplice chiarezza vi è sancita poi la protezione della maternità, dell’infanzia e della famiglia (art. 38) e il dovere di difendere la patria una ed indivisibile (art. 59), il che la rende una costituzione conservatrice dell’ordine naturale. Tuttavia sono bastati questi pochi articoli per considerare la Russia, da parte della Commissione europea, nemica. Un’ Europa che è ormai in balia delle logiche LGTB, del multirazzialismo e dell’ordine unico mondiale.
La vittoria sul comunismo sovietico ha reso l’Occidente cieco. L’orgasmo del suo trionfo la condurrà, come ben insegna il grande storico Arnold Toynbee, al suo inevitabile crollo. Inimicarsi la Russia in modo così dissennato è stato il primo atto della sua fine. La Russia, infatti, si alleerà sempre più con una Cina economicamente vincente, e l’Europa sarà preda di un declino inarrestabile, a cui seguirà quello americano. L’Europa debosciata si è dimenticata che lo spirito della Russia è quello uscito dalle fucine delle battaglie di Kulikovo, di Mosca, di Poltava, della Beresina, di Stalingrado e Kursk. Il suo popolo, come si é scritto, ha subito violenze che nessun altro può immaginare: credere di poterla soggiogare è stato ed è l’errore più grande che l’attuale classe dirigente europea potesse commettere.
Note:
- Il “Concetto” è per Hegel la rivelazione della verità nel suo attuarsi storico. Esso rappresenta la comprensione autocosciente di tutto ciò che accaduto, ossia di come il reale s’è fatto razionale e viceversa.
- I nomadi provenienti dalla Mongolia erano in realtà composti da tante tribù sparse che andavano dal lago Bajkal al fiume Amur: essi comprendevano Mongoli, Keraiti, Merkiti, Tatari, Turchi, Uiguri, ecc.
- Si veda a tal proposito, D. TSCHIZEWSKIJ, Storia dello spirito russo, ed. Sansoni, Firenze 1965.
Flores TOVO
Rovigo 4 novembre 2020
Fonte: comedonchisciotte.org