Scott Ritter
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“Iniziare una guerra di aggressione non è solo un crimine internazionale; è il supremo crimine internazionale, che differisce dagli altri crimini di guerra solo in quanto contiene in sé la sommatoria del male nella sua interezza». – I Giudici del Tribunale Militare Internazionale al Processo di Norimberga.
Quando si tratta dell’uso legale della forza tra stati, è considerato un fatto inconfutabile che, in conformità con l’intento della Carta delle Nazioni Unite di vietare ogni conflitto, ci sono solo due eccezioni accettabili.
Una è un’azione di forza per mantenere la pace e la sicurezza internazionali, autorizzata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza approvata ai sensi del Capitolo VII della Carta, che consente l’uso della forza.
L’altra eccezione è il diritto inerente all’autodifesa individuale e collettiva, come sancito dall‘articolo 51 della Carta, che recita quanto segue:
“Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese dai Membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere ed il compito spettanti, secondo la presente Carta, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.»
La semplice lettura dell’articolo 51 chiarisce che il fattore scatenante, necessario per invocare il diritto all’autodifesa, è il verificarsi di un vero e proprio attacco armato: la nozione di una minaccia aperta alla sicurezza non è, di per sé, sufficiente.
Prima dell’adozione della Carta delle Nazioni Unite, l’interpretazione del diritto internazionale consuetudinario del ruolo dell’azione preventiva, applicata al principio dell’autodifesa, si doveva a Hugo Grotius (1), il giurista olandese del XVII secolo che, nel suo libro De Jure Belli Ac Pacis (“Sul diritto della guerra e della pace”) aveva dichiarato che “la guerra in difesa della vita è ammessa solo quando il pericolo è immediato e certo, non quando è solamente presunto”, aggiungendo che “il pericolo deve essere immediato e imminente”.
La dottrina di Grotius costituiva il nucleo dei cosiddetti “Criteri della Caroline” (2) del 1842, (dal nome di una nave statunitense che, nel 1837, era stata attaccata dalla Marina britannica per aver aiutato i ribelli canadesi) stilati dall’allora Segretario di Stato americano Daniel Webster. Essi sostenevano il diritto di autodifesa preventiva o anticipatoria solo in circostanze estreme ed entro confini chiaramente definiti.
“Indubbiamente“, aveva scritto Webster, “è giusto che, mentre si ammette l’esistenza di eccezioni che derivano dalla primitiva legge dell’autodifesa, tali eccezioni dovrebbero essere limitate ai casi in cui la ‘necessità di tale autodifesa sia immediato, travolgente, e che non offra scelta di mezzi e alcun tempo per la deliberazione.”
Fino all’adozione della Carta delle Nazioni Unite, nel 1945, i criteri di Webster, ampiamente presi in prestito da Grotius, erano diventati Black Letter Law (3) per quanto riguarda l’azione preventiva nel diritto internazionale. Tuttavia, dopo l’istituzione delle Nazioni Unite e il riconoscimento come fonte di diritto internazionale della Carta delle Nazioni Unite, il concetto di autodifesa preventiva o anticipatoria ha perso peso nel diritto internazionale consuetudinario.
George Ball, vice sottosegretario di Stato del presidente John F. Kennedy, aveva fatto la seguente, famosa osservazione sulla possibilità di un attacco degli Stati Uniti a Cuba in risposta al dispiegamento di missili nucleari sovietici sul territorio cubano nel 1962. Mentre il caso veniva discusso nella Situation Room della Casa Bianca, Ball aveva detto: “L’ipotesi di colpire senza preavviso è come Pearl Harbor… è… è il tipo di condotta che ci si potrebbe aspettare dall’Unione Sovietica. Non è una condotta che ci si aspetta dagli Stati Uniti».
La dottrina Ball aveva guidato l’amministrazione del presidente Ronald Reagan quando, nel 1983, Israele aveva bombardato il reattore nucleare di Osirak in Iraq. Israele aveva affermato che “nel rimuovere questa terribile minaccia nucleare alla sua esistenza, Israele stava solo esercitando il suo legittimo diritto all’autodifesa, ai sensi di questo termine nel diritto internazionale così come sancito dalla Carta delle Nazioni Unite”.
L’amministrazione Reagan non era stata d’accordo, infatti l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, Jeane Kirkpatrick, aveva affermato: “il nostro giudizio che le azioni israeliane abbiano violato la Carta delle Nazioni Unite si basa sulla convinzione che Israele non abbia esplorato a fondo i mezzi pacifici per la risoluzione di questa controversia”. La Kirkpatrick, tuttavia, aveva osservato che, secondo il presidente Reagan, “Israele potrebbe aver creduto sinceramente che [la sua] fosse una mossa difensiva”.
L’argomentazione americana riguardava la legittimità dell’azione israeliana, ovvero il fatto che Israele non aveva sollevato il problema davanti al Consiglio di sicurezza, come previsto dall’articolo 51. A questo proposito, gli Stati Uniti si erano basati sul giudizio di Sir Humphrey Waldock, il capo della Corte Internazionale di Giustizia, che nel suo libro del 1952, The Regulation of the Use of Force by Individual States in International Law, aveva osservato:
“La Carta obbliga i Membri a sottoporre al Consiglio o all’Assemblea ogni controversia pericolosa per la pace che essi non riescono a risolvere. I Membri hanno quindi il dovere imperativo di invocare la giurisdizione delle Nazioni Unite ogni volta che si sviluppa una grave minaccia alla loro sicurezza che comporti la possibilità di un attacco armato”.
Dopo l’invasione irachena del Kuwait, nell’agosto 1990, gli Stati Uniti erano stati in grado di aggregare una coalizione internazionale diversificata citando non solo l’articolo 51, che forniva un argomento piuttosto debole per un intervento basato sull’autodifesa e sulla sicurezza collettiva, ma anche la risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza approvato ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Questa autorizzava l’uso della forza per espellere l’Iraq dal Kuwait.
A prescindere dalle posizioni nel merito di quel conflitto, il fatto è che, dal punto di vista del diritto internazionale, le basi legali dell’uso forza della parte della coalizione degli Stati Uniti erano solide come una roccia.
Le conseguenze dell’operazione Desert Storm, la campagna militare guidata dagli Stati Uniti per liberare il Kuwait, tuttavia, mancavano di tale chiarezza. Sebbene il Kuwait fosse stato liberato, il governo iracheno era ancora in carica. Poiché la risoluzione 678 non autorizzava un cambio di regime, l’esistenza stessa del governo del presidente iracheno Saddam Hussein rappresentava un problema politico per gli Stati Uniti, il cui presidente, George HW Bush, in un discorso dell’ottobre 1990, aveva paragonato Saddam Hussein, all’equivalente mediorientale di Adolf Hitler, meritevole di subire una punizione simile a quelle decretate dai processi di Norimberga.
Sull’uso improprio delle risoluzioni sul cessate il fuoco da parte degli USA
Il Consiglio di Sicurezza, sotto la pressione degli Stati Uniti, aveva approvato una risoluzione per il cessate il fuoco, la n. 687, ai sensi del Capitolo VII, che subordinava la revoca delle sanzioni economiche imposte all’Iraq per l’invasione del Kuwait al disarmo controllato delle armi di distruzione di massa (WMD) irachene sotto gli auspici degli ispettori delle Nazioni Unite.
Il processo di disarmo sotto l’egida delle Nazioni Unite era stato però turbato da due tendenze sotterranee.
La prima era la riluttanza del governo iracheno a partecipare al processo di disarmo, che aveva nascosto agli ispettori materiali, armi, documentazioni relative ai programmi missilistici, chimici, biologici e nucleari vietati.
Questa attività di occultamento costituiva, di fatto, una violazione materiale della risoluzione sul cessate il fuoco, creando un’evidenza “prima facie” per la ripresa dell’azione militare allo scopo di costringere l’Iraq a conformarsi.
La seconda era la realtà che gli Stati Uniti, anziché utilizzare il processo di disarmo autorizzato dal Consiglio di sicurezza per liberare l’Iraq dalle armi di distruzione di massa, stavano invece utilizzando le sanzioni innescate dalla scarsa collaborazione irachena per creare nel paese le condizioni per rimuovere Saddam dal potere.
Il processo di ispezione delle armi serviva agli Stati Uniti per perseguire quell’obiettivo. Nell’autunno del 1998, le ispezioni erano diventate scomode per la politica statunitense in Iraq.
Con una mossa attentamente coordinata tra la squadra di ispezione delle Nazioni Unite e il governo degli Stati Uniti, era stato orchestrato uno scontro tra gli ispettori delle Nazioni Unite e il governo iracheno, utilizzato poi come pretesto per ritirare gli ispettori delle Nazioni Unite dall’Iraq. Il governo degli Stati Uniti, agitando la minaccia rappresentata dalla presenza di armi di distruzione di massa in assenza di ispezioni, aveva scatenato un bombardamento aereo di tre giorni sull’Iraq noto come Operazione Desert Fox (4).
Né gli Stati Uniti né il Regno Unito (le due nazioni coinvolte nell’operazione Desert Fox) avevano ricevuto l’autorità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima di intraprendere l’azione militare. Non esisteva nessuna autorità legale specifica che potesse autorizzare gli Stati Uniti o la Gran Bretagna ad agire in modo unilaterale riguardo all’applicazione di una risoluzione del Capitolo VII come la 687. Solo il Consiglio di Sicurezza sarebbe stato in grado di autorizzare la conformità obbligata (cioè l’uso della forza), mentre nessuna nazione o gruppo di nazioni possiede un’autorità esecutiva unilaterale, cosa che aveva reso l’operazione Desert Fox un atto di aggressione illegale ai sensi del diritto internazionale.
Gli Stati Uniti avevano cercato di aggirare questa norma elaborando un caso per un’azione militare in base al “diritto di rappresaglia”, utilizzando, come giustificazione per la rappresaglia, la violazione, da parte dell’Iraq, della risoluzione 687. Per sostenere quello che, secondo la maggior parte dei resoconti, era un caso assai poco consistente, tuttavia, la rappresaglia in questione avrebbe dovuto essere limitata ad obiettivi esclusivamente correlati ad armi di distruzione di massa (WMD).
Il fatto che gli Stati Uniti avessero colpito una serie di obbiettivi che non avevano alcuna correlazione con la produzione o lo stoccaggio di armi di distruzione di massa, minava la legittimità di qualsiasi giustificazione basata sulla rappresaglia, rendendo l’operazione Desert Fox un uso non autorizzato (cioè illegale) della forza militare.
Deterrenza
Una delle presunte motivazioni per giustificare un’azione nell’ambito del “diritto di rappresaglia” era la nozione di deterrenza, in base alla quale gli Stati Uniti e il Regno Unito si arrogavano il diritto di operare una rappresaglia limitata in risposta ad una violazione materiale documentata di una risoluzione del Capitolo VII per “dissuadere” Iraq da eventuali futuri atti di non conformità.
Uno degli aspetti chiave della deterrenza in difesa della legge, tuttavia, è la necessità che l’atto da cui deriva la deterrenza sia esso stesso legittimo. Dato che l’operazione Desert Fox era, prima facie, un atto illegale, il valore di deterrenza generato dall’azione era nullo.
L’incapacità di elaborare una valida politica di deterrenza aveva prodotto l’opposto di ciò che avrebbe dovuto fare: aveva incoraggiato l’Iraq a sfidare la volontà del Consiglio di Sicurezza in base all’errata conclusione che i suoi membri costituenti non potessero agire contro di esso.
Nel 2003 l’amministrazione del presidente George W. Bush aveva smentito gli Iracheni.
Non essendo riusciti ad attuare una valida dottrina di deterrenza militare nell’affrontare l’inadempienza dell’Iraq nei confronti delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti avevano messo a punto un nuovo approccio per risolvere il problema iracheno una volta per tutte: la dottrina della prevenzione.
Questa dottrina è stata articolata per la prima volta dal presidente Bush nel suo discorso del giugno 2002 a West Point, dove aveva dichiarato che, anche se “in alcuni casi la deterrenza è ancora in vigore, nuove minacce richiedono nuove risposte … se aspettiamo che le minacce si concretizzino materialmente, vuol dire che abbiamo aspettato troppo.”
Il 26 agosto 2002, il vicepresidente Dick Cheney aveva applicato all’Iraq quell’embrione dottrinale di Bush della “guerra preventiva”, dichiarando, in un raduno dei Veterans of Foreign Wars, che:
“Quello che dobbiamo evitare, di fronte ad una minaccia mortale, è abbandonarsi al pensiero illusorio o alla cecità intenzionale… le armi di distruzione di massa nelle mani di una rete terroristica o di un dittatore assassino o di entrambi, in caso fossero alleati, rappresentano una minaccia di una gravità difficilmente immaginabile. I rischi dell’inazione sono di gran lunga maggiori dei rischi dell’azione”.
Prevenzione formalizzata
All’inizio di settembre 2002, l’amministrazione Bush aveva pubblicato la nuova National Security Strategy (NSS) (5), che sanciva il principio della prevenzione come politica ufficiale degli Stati Uniti. Vi si notava che le dottrine di contenimento e deterrenza dell’era della Guerra Fredda non funzionavano più di fronte alle minacce del dopo-9/11, che includevano una matrice di stati canaglia e organizzazioni terroristiche.
“Ci è voluto quasi un decennio per comprendere la vera natura di questa nuova minaccia”, affermava l’NSS.
“Dati gli obiettivi degli stati canaglia e dei gruppi terroristici, gli Stati Uniti non possono più fare affidamento esclusivamente su una posizione reattiva, come abbiamo fatto in passato. L’incapacità di scoraggiare un potenziale aggressore… e l’entità del potenziale danno che potrebbe essere causato dalle modalità di attacco dei nostri avversari non consente questa opzione. Non possiamo permettere che i nostri nemici colpiscano per primi”.
L’NSS proseguiva offrendo argomenti legali per questa nuova dottrina:
“Il diritto internazionale ha stabilito nei secoli passati che le nazioni possono agire legalmente, per difendersi da una minaccia militare, ben prima di subire un attacco. Spesso, esperti e giuristi internazionali hanno condizionato la legittimità dell’azione preventiva all’esistenza di una minaccia imminente, il più delle volte una mobilitazione bellica visibile, cioè manovre militari di forze marittime e aeree.”
Secondo l’NSS, il concetto di immediatezza, come pre-condizione per l’impiego dell’autodifesa preventiva, doveva essere adattato alle nuove minacce emergenti. “Maggiore è la minaccia”, aveva dichiarato l’NSS, “maggiore è il rischio correlato all’inazione – e più doverosa è l’adozione di azioni preventive, anche se l’ora e il luogo dell’attacco nemico non sono ancora conosciuti. Per scongiurare tali atti ostili, gli Stati Uniti, se necessario, agiranno preventivamente.”
La nuova Dottrina Bush sulla guerra preventiva non era stata accolta molto bene dagli studiosi di diritto e dagli specialisti in relazioni internazionali. William Galston, all’epoca professore di politiche pubbliche all’Università del Maryland, in un articolo pubblicato il 3 settembre 2002, aveva osservato che:
“Una strategia globale basata sulla nuova dottrina Bush sulla guerra preventiva significa la fine del sistema di istituzioni, leggi e norme internazionali in vigore da più di mezzo secolo. La posta in gioco non è altro che un cambiamento fondamentale della posizione dell’America nel mondo. Invece di continuare ad agire come “primus inter pares” (6) nel sistema internazionale del dopoguerra, gli Stati Uniti agirebbero come depositari della legge, creando nuove regole di carattere internazionale senza il consenso delle altre nazioni”.
Alle parole di Galston aveva fatto eco l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, il quale, poco dopo la pubblicazione dell’NSS, aveva dichiarato che la nozione di autodifesa preventiva avrebbe portato ad un crollo dell’ordine internazionale. Secondo Annan, affinché qualsiasi azione militare contro l’Iraq avesse legittimità ai sensi della Carta delle Nazioni Unite doveva esserci una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzasse una specifica risposta militare.
Gli Stati Uniti e il Regno Unito, infatti, avevano cercato di ottenere una soluzione del genere all’inizio del 2003, ma avevano fallito. In quanto tale, l’invasione dell’Iraq, guidata dagli Stati Uniti e lanciata nel marzo 2003 sotto l’esclusiva autorità della dottrina statunitense della guerra preventiva, “non era conforme alla Carta delle Nazioni Unite”, secondo Annan, che aveva aggiunto: “Dal nostro punto di vista, e dal punto di vista della Carta, ciò era illegale.”
Come primo test de facto della nuova dottrina americana, gli Stati Uniti avrebbero dovuto trarre vantaggio dall’aver identificato correttamente quelle minacce che giustificavano la necessità di agire in fretta. La storia ha poi dimostrato che quelle minacce, ossia le armi di distruzione di massa irachene, erano fondamentalmente false, essendo state confezionate sulla base di informazioni inventate.
Allo stesso modo, il cosiddetto nesso tra le armi di distruzione di massa irachene e i terroristi di al Qaeda, che si presumeva avessero perpetrato gli attacchi terroristici dell’11 settembre, si era rivelato altrettanto illusorio. La dottrina della guerra preventiva implicava la necessità di dimostrare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio; riguardo all’Iraq, questo standard non è stato minimamente rispettato, rendendo l’invasione dell’Iraq nel 2003 illegale persino secondo l’interpretazione più generosa della dottrina.
Ucraina
Il 24 febbraio scorso si sono concretizzati i timori che qualsiasi tentativo di ritagliare una dottrina di azione preventiva dai quattro pilastri del diritto internazionale definiti dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite si tradurrebbe nella creazione di nuove regole di ingaggio internazionale, e che ciò comporterebbe il crollo dell’ordine internazionale.
Quello è stato il giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin, citando l’autorità dell’articolo 51, ha ordinato quella che ha definito una “operazione militare speciale” contro l’Ucraina, con lo scopo apparente di eliminare le formazioni militari neonaziste accusate di aver compiuto atti di genocidio contro le popolazioni russofone del Donbass e per smantellare l’esercito ucraino, considerato dalla Russia come un agente de facto della NATO.
Putin lo ha presentato come un caso di azione preventiva, descrivendo in dettaglio la minaccia che l’espansione verso est della NATO rappresentava per la Russia, così come le operazioni militari dell’Ucraina contro il popolo di lingua russa del Donbass.
“La resa dei conti tra la Russia e queste forze”, ha detto Putin, “non può più essere evitata. È solo questione di tempo. Si stanno preparando e aspettano il momento giusto. Inoltre, sono arrivati a manifestare l’intenzione di acquisire armi nucleari. Non permetteremo che ciò accada”.
La Nato e l’Ucraina, ha dichiarato Putin,
“non ci hanno lasciato nessun’altra opzione per difendere la Russia e il nostro popolo, che quella che siamo costretti a scegliere oggi. In queste circostanze, dobbiamo agire con coraggio e immediatezza. Le repubbliche popolari del Donbass hanno chiesto aiuto alla Russia. In tale contesto, ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, con l’autorizzazione del Consiglio della Federazione russa e in esecuzione dei trattati di amicizia e assistenza reciproca con la Repubblica popolare di Donetsk e la Repubblica popolare di Lugansk, ratificati dall’Assemblea federale lo scorso 22 febbraio, ho deciso di effettuare un’operazione militare speciale”.
La tesi di Putin riguardo l’invasione dell’Ucraina, ovviamente, è stata respinta con decisione dall’Occidente. “L’invasione russa dell’Ucraina”, ha dichiarato Amnesty International, “è una palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e un atto di aggressione, che è un crimine ai sensi del diritto internazionale. La Russia viola chiaramente i suoi obblighi internazionali. Le sue azioni sono palesemente contrarie alle regole e ai principi su cui sono state fondate le Nazioni Unite”.
John B. Bellinger III, un avvocato americano che aveva servito come consulente legale per il Dipartimento di Stato americano e il Consiglio di sicurezza nazionale durante l’amministrazione di George W. Bush, ha affermato che il chiamare in causa dell’articolo 51 da parte di Putin “non ha alcun supporto legale”.
Se da un lato Bellinger osserva che l’art. 51 “non pregiudica il diritto intrinseco all’autodifesa individuale o collettiva se si verifica un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”, dall’altro si affretta a notare che l’Ucraina non ha effettuato né minacciato di effettuare un attacco armato contro la Russia.
Bellinger è sprezzante nei confronti delle contro-argomentazioni della Russia, osservando che “Anche se la Russia potesse dimostrare che l’Ucraina ha commesso o pianificato di commettere attacchi contro le popolazioni di lingua russa di Donetsk e Luhansk, l’articolo 51 non consentirebbe un’azione di autodifesa collettiva, perché Donetsk e Luhansk non sono membri delle Nazioni Unite.”
Sebbene possa sembrare ipocrita l’idea che un avvocato in servizio presso un’amministrazione americana che ha elaborato un’originale dottrina per giustificare l’invasione dell’Iraq possa ora argomentare contro l’applicazione di quella stessa dottrina da parte di un altro stato, l’ipocrisia da sola non invalida le argomentazioni di fondo di Bellinger contro la Russia, o le affermazioni fatte dal suo presidente.
Sfortunatamente per Bellinger, e per coloro che condividono la sua visione, una precedente amministrazione statunitense, quella di William Jefferson Clinton, aveva precedentemente elaborato una nuova teoria legale basata sul diritto all’autodifesa collettiva preventiva ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
L’amministrazione Clinton aveva affermato che questo diritto era stato esercitato correttamente ai sensi della “normativa che consente azioni di autodifesa collettiva preventiva da parte di organizzazioni di sicurezza regionale o di autodifesa, in cui l’organizzazione non è interamente dominata da un singolo membro”.
Chiaramente la NATO aveva rivendicato tale status, ignorando l’ovvia realtà di essere, di fatto, dominata dagli Stati Uniti.
La credibilità dell’affermazione della NATO sulla “autodifesa collettiva anticipata” era crollata quando era emerso che la sua rappresentazione della crisi del Kosovo come un disastro umanitario intriso di elementi di genocidio (che avevano fornito non solo una giustificazione etica ma anche una necessità morale per l’intervento) si era rivelata nient’altro che una provocazione della CIA, al solo scopo di creare le condizioni per un intervento militare della NATO.
Si potrebbe anche discutere sulla legalità della tesi della Russia, secondo cui la sua operazione congiunta con le repubbliche riconosciute di Lugansk e Donetsk costituisce una “operazione regionale di sicurezza o autodifesa” nell’ambito delle “azioni di autodifesa collettiva preventiva” ai sensi dell’articolo 51, ma non vi può essere alcun dubbio sulla legittimità della tesi russa secondo cui la popolazione di lingua russa del Donbass sia stata sottoposta a otto anni di brutali bombardamenti che hanno causato la morte di migliaia di persone.
Inoltre, la Russia afferma di avere prove documentali che l’esercito ucraino si stava preparando per una massiccia incursione militare nel Donbass, che è stata semplicemente anticipata dalla “operazione militare speciale”. [I dati dell’OSCE mostrano un incremento dei bombardamenti da parte del governo ucraino nell’area nei giorni precedenti l’intervento della Russia.]
Infine, la Russia ha espressamente sottolineato le intenzioni dell’Ucraina in merito alle armi nucleari, in particolare i suoi tentativi di realizzare una cosiddetta “bomba sporca”, tesi che deve ancora essere provata o smentita. [Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva fatto riferimento all’ipotesi di sviluppo di un’arma nucleare lo scorso febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.]
La conclusione è che la Russia ha presentato un caso di applicazione della dottrina dell’autodifesa collettiva preventiva, ideata originariamente dagli Stati Uniti e dalla NATO, che rende applicabile l’articolo 51, basato però sui fatti piuttosto che sulla finzione.
Anche se potrebbe essere accettabile, per persone, organizzazioni e governi in Occidente, la conclusione istintiva che l’intervento militare della Russia costituisce una violazione arbitraria della Carta delle Nazioni Unite, e che, come tale, esso costituisce una guerra di aggressione illegale, l’inconfessabile verità è che la giustificazione della Russia per invadere l’Ucraina poggia su solide basi legali, al di là di tutte le affermazioni fatte in merito alla legalità dell’azione preventiva ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Scott Ritter
Prossimamente nella seconda parte: Russia, Ucraina e il diritto bellico: guerre e crimini di guerra.
NOTE
1 – Huig de Groot, latinizzato in Hugo Grotius, da cui l’italiano Ugone Grozio o, secondo la lezione più recente, Ugo Grozio) (Delft, 10 aprile 1583 – Rostock, 28 agosto 1645) è stato un giurista, filosofo, teologo, umanista, storico, poeta, filologo, nonché politico, di nazionalità olandese. Considerato il fondatore della «scuola del diritto naturale», col suo De iure belli ac pacis (1625) contribuì, durante i travagliati anni delle guerre di religione europee, alla formulazione del diritto internazionale moderno.
2 – I Criteri di Caroline sono una formulazione del 19° secolo del diritto internazionale consuetudinario, riaffermata dal Tribunale di Norimberga dopo la Seconda Guerra Mondiale. Prendono il nome dall’affare Caroline (noto anche come caso Caroline), una crisi diplomatica iniziata nel 1837 che aveva coinvolto gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il movimento indipendentista canadese.
3 – Black letter laws – letteralmente “Leggi a lettere nere”, sono regole legali consolidate che non sono più soggette a ragionevole controversia.
4 – L’Operazione Desert Fox fu un’operazione militare attuata da Stati Uniti e Regno Unito tra il 16 e il 19 dicembre 1998 in Iraq, giustificata come risposta all’inadempienza irachena riguardo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dell’interferenza con gli ispettori dell’UNSCOM.
5 – La National Security Strategy (NSS, Strategia di Sicurezza Nazionale) è un documento stilato periodicamente dal ramo esecutivo del governo degli Stati Uniti, che indica, in modo volutamente astratto, la politica di sicurezza nazionale del Paese.
6 – Primus inter pares è un’espressione latina (letteralmente “primo tra i pari”) con la quale si identifica una persona rappresentativa in un gruppo di persone che sono al suo stesso livello e con pari dignità; la funzione del primus inter pares è di guida e di coordinamento e i suoi poteri sono vincolati dalla condizione stessa di essere a capo di persone sue pari.
Foto di copertina:
Processi di Norimberga. 1a fila: Hermann Göring, Rudolf Heß, Joachim von Ribbentrop, Wilhelm Keitel. 2a fila: Karl Dönitz, Erich Raeder, Baldur von Schirach, Fritz Sauckel. (Office of the US Chief of Counsel for the Prosecution of Axis Criminality/Still Picture Records LICON, Special Media Archives Services Division (NWCS-S)
Fonte: consortiumnews.com
Link: https://consortiumnews.com/2022/03/29/russia-ukraine-the-law-of-war-crime-of-aggression/
29.03.2022
Tradotto da Papaconscio per comedonchisciotte.org