Le chiocciole e le lumache

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DI GIUSEPPE ANTONELLI

minimaetmoralia.it

Mia figlia piange. Piange piano, ma ha solo due anni, quindi noi genitori viviamo sempre con l’orecchio teso. Sentiamo il suo pianto sommesso mescolato alle voci di mamma e papà Pig e – all’unisono, senza dirci niente – ci fiondiamo in salotto, provenienti da stanze diverse. Lei è lì che tasta la faccia di Peppa e piange. Ha appena scoperto che la nostra tv non è touch screen e non ha retto alla delusione. Io mi tolgo i guanti da forno e la prendo in braccio. Mia moglie le allunga lo smartphone su cui stava scrivendo un messaggio di lavoro. Il minuscolo indice di Maddalena scorre sullo schermo, seleziona l’icona desiderata, ingrandisce una sua foto, il suo sguardo si specchia in quel ritratto. È di nuovo serena.

Ecco: io ho capito davvero cosa significa nativo digitale solo grazie a mia figlia. Quando le ho raccontato che al tempo in cui noi eravamo bambini il computer non esisteva, lei ha sgranato gli occhi e mi ha detto: «allora giocavate con l’ipèd?».
D’altronde, c’è tutta una letteratura umoristica su questo. Ci sono battute, video, vignette. Per esempio: «Ciao bimbo, quanti anni hai?». «Cinque». «Hai scritto la letterina a Babbo Natale?». «No, ho creato una whishlist sul mio iPad e gliel’ho sharata tramite Dropbox». E le cose, in effetti, stanno così: c’è poco da fare.

Da una parte ci siamo noi, quelli nati e cresciuti quando il computer non c’era – e non c’era il telefonino, non c’erano i tablet e soprattutto non c’era Internet –: quelli che quando sentono chiocciola pensano ancora alle lumache. Dall’altra ci sono loro, che considerano tutto questo non solo ovvio e normale, ma assolutamente essenziale per la sopravvivenza di ogni essere umano. Anche i miei studenti, per dire, sono nativi digitali. E il loro modo di stare all’università è da nativi digitali.

Bene, il fatto è questo: noi scrivevamo, loro digitano. Sia chiaro, ormai a penna non ci scrivo quasi più neanch’io. Ho praticamente disimparato, tanto che sempre più spesso – quando mi capita di prendere un appunto a mano – poi non riesco a decifrarlo. Però ho ancora un piccolo callo nella parte interna della prima falange del dito medio della mano destra. Era dove poggiava la penna. Il crampo dello scrivano ormai non ce l’ha più nessuno. «Chi non legge la sua scrittura è un asino di natura», dicevano le nostre maestre. Ma già da quest’anno nelle scuole elementari finlandesi i programmi prevedono che si impari a scrivere sulle tastiere prima che a mano. La scrittura tradizionale, quella a penna o a matita, non è più una materia obbligatoria.

Secondo alcuni tutto questo renderebbe più stupidi. In inglese, per definire meglio il fenomeno, hanno coniato anche una nuova parola: smupid. Ovvero smart (figo, elegante, brillante: come appunto gli smartphone) + stupid (stupido, appunto). Siamo già tutti smupidi? Stiamo per diventarlo? I nostri figli e i nostri studenti sono destinati inesorabilmente a esserlo? Non credo, sinceramente, che questo sia il futuro che ci aspetta.

È una vecchia storia, d’altronde. Ogni cambiamento nelle tecnologie della comunicazione mette in crisi un paradigma culturale. Già nell’antica Grecia c’era chi, come Platone, se la prendeva con la scrittura perché stava sostituendo la cultura orale, basata sulla dialettica. E nel Rinascimento furono in tanti a demonizzare l’invenzione della stampa, considerata una pericolosa innovazione rispetto alla scrittura a mano.

L’atteggiamento apocalittico è quasi automatico in chi ha paura del nuovo, perché il nuovo costringe a uno sforzo di comprensione e di adattamento. Ci obbliga a rimettere in discussione le nostre convinzioni e le nostre abitudini: e questo è sempre faticoso. Molto più facile riiutare in blocco le novità e chiudersi nella rassicurante gabbia delle nostre certezze. Alimentando la rancorosa mitologia per cui il nuovo corrompe: corrompe la morale, corrompe il pensiero, corrompe – eccoci qua – la lingua.

La gente sembra diventare sempre più stupida. Voglio dire: abbiamo un’avanzatissima tecnologia. […] Internet doveva renderci liberi, democratizzarci, ma il risultato è che ha dato solo libero accesso alle invasioni barbariche, per non parlare della pornografia infantile. Oltretutto, la gente non scrive più: tiene blog. Invece di parlare, invia SMS: niente punteggiatura, niente grammatica, TVTB, IMHO, ROTFL. Mi sembrano un branco di imbecilli che pseudo-comunicano con un branco di altri imbecilli in un protolinguaggio che assomiglia più a quello dei cavernicoli che alla nostra madrelingua.

A parlare è l’attore David Duchovny nei panni di Hank Moody, il protagonista della serie tv americana Californication (la puntata è del 2007). I due sono davanti a un microfono in uno studio radiofonico. Alla ine di questa invettiva, l’intervistatore fa notare ad Hank: «sì, ma tu fai parte del problema, in fondo stai comunicando attraverso un blog». Lui se lo guarda beffardo, tira una sorsata dalla sua fiaschetta di whisky, e poi risponde: «di qui, infatti, il disgusto per me stesso».

Una vecchia storia, dicevamo. Sembra assurdo, ma mezzo secolo fa c’era chi vedeva la lingua italiana seriamente minacciata da invenzioni come «la penna stilografica che dispensa dall’intingere e quella “a sfera” che non lascia mai in secco, la macchina per scrivere, la stenografia». Tutti «stimoli allo scrivere avventato», sosteneva il giornalista Leo Pestelli nel 1958, rimpiangendo i tempi d’oro in cui c’era da intingere il pennino nel calamaio e asciugare il foglio con la carta assorbente. Oggi ci sembra un discorso assurdo, perché quegli strumenti – la penna stilografica, la macchina da scrivere – appartengono ormai all’archeologia della scrittura (chi si ricorda più cos’era la stenografia?).

In realtà non sembra: è un discorso assurdo. Perché il rapporto tra cambiamenti tecnologici e cambiamenti linguistici non è affatto un rapporto di causa ed effetto. E soprattutto perché il cambiamento, per le lingue, è un positivo segno di vitalità. Solo le lingue morte non cambiano. Le lingue vive evolvono in continuazione, di pari passo con l’evolvere della società. I media telematici stanno incidendo sulla lingua perché stanno cambiando la nostra società: non solo il nostro modo di comunicare, ma il nostro modo di essere – come diceva Aristotele – animali sociali.

Gli abbiamo dato una mano e si sono presi un dito, ecco tutto. Perché loro, i nativi digitali, digitano. Scrivono in un altro modo. Concepiscono diversamente il gesto di scrivere. E non intendo solo il gesto fisico. Intendo l’idea stessa della scrittura. Prima si scriveva poco. Chi non doveva scrivere per lavoro scriveva solo qualche cartolina quand’era in vacanza. Per tutto il resto c’era il telefono. «Il telefono, la tua voce», diceva un fortunato slogan di quando eravamo ragazzi. Appunto: la tua voce, perché al telefono si poteva solo parlare. Lo so che, detta oggi, questa cosa fa sorridere. Oggi che con il telefono navighiamo in Internet, sentiamo musica, fotografiamo tutto quello che ci capita, guardiamo film, gestiamo la nostra agenda e la nostra sveglia, misuriamo il nostro battito cardiaco e – continuamente – scriviamo.

«Telefonami tra vent’anni», cantava Lucio Dalla dai jukebox nella calda estate del 1981: «impara il numero a memoria / corri scrivilo sulla pelle». Un tempo, in effetti, io sapevo un sacco di numeri di telefono a memoria: parenti, amici, fidanzate, ex-fidanzate. Era indispensabile, se non volevi portarti sempre dietro un’agendina. Oggi di numero so solo il mio. Neanche quello di mia moglie. La custodia dei miei affetti l’ho affidata al telefono.
Perché oggi il telefono ci segue ovunque, come una protesi; mentre in quegli anni era ancora una specie di elettrodomestico: come la lavatrice, come il forno a microonde. La cosa veramente strana, a pensarci, è che quell’attrezzo così smart oggi continuiamo a chiamarlo telefono. Fa un po’ l’effetto che faceva mia nonna quando si ostinava a chiamare la televisione «la radio» e il frigorifero «la ghiacciaia». (Lei, tra l’altro, il frigo non ce l’aveva: la sera metteva il suo mezzo litro di latte fuori dalla finestra per la mattina dopo; la televisione sì, appunto: per guardare il giornale radio).

«Così ripensami / tra vent’anni ripensami… Con un salto siamo nel duemila / alle porte dell’universo / l’importante è non arrivarci in fila / ma tutti quanti in modo diverso». A quel tempo sembrava che le telefonate dovessero uccidere la scrittura. E anche il romanticismo, secondo qualcuno. In un’altra pubblicità dell’azienda telefonica (allora unica) c’era una ragazzina che diceva al suo moroso: «Mi ami? Ma quanto mi ami?». Noi, che avevamo la stessa età di quella ragazzina, ripetevamo quella frase come un tormentone: quasi sempre per prendere in giro gli amici che si erano innamorati. Rifacevamo il verso, con una vocina artefatta: «Mi ami? Ma quanto mi ami?». Intanto, gli studiosi di comunicazione dicevano che ormai la telefonata aveva sostituito la lettera. La telefonata, dicevano, è una «lettera simultanea». Con la lettera tradizionale ha in comune certi rituali, come le formule di apertura e di chiusura (pronto che sostituisce caro, ad esempio) e certe caratteristiche peculiari, come il fatto che si basa su un dialogo. L’unica differenza è che nella telefonata il dialogo si svolge attraverso il parlato. Di scrivere, dicevano, tra un po’ non ne avrà più bisogno nessuno. «Alle porte dell’universo / un telefono suona ogni sera / sotto un cielo di tutte le stelle / di un’inquietante primavera».

In verità, c’era ancora chi di lettere ne scriveva. Io ne scrivevo tante, devo ammettere, ma soltanto quando ero innamorato (appunto). E soprattutto quando ero in vacanza, perché la fila alle cabine telefoniche era molto lunga e i gettoni per i telefoni pubblici si trovavano difficilmente. E se parlavi per più di cinque minuti, quelli che erano in fila dopo di te cominciavano a bussare sul vetro già appannato per il caldo: in quelle cabine si grondava di sudore. Poi – a un certo punto – apparve il telefono portatile. Il cellulare, come lo chiamava già all’epoca chi voleva mostrarsi esperto. Il telefonino, come lo chiamavano quelli che continuavano a pensare al cellulare come a una camionetta della polizia.

Un mio amico che lavorava in quella (unica) azienda telefonica una volta che eravamo andati a correre insieme mi raccontò una cosa. Una cosa che all’epoca mi sembrò incredibile. «Oggi è venuto un tizio a farci un corso di aggiornamento», mi riferì tra uno sbuffo di fiatone e l’altro. «Ci ha detto che nel giro di pochi anni (pant) ognuno di noi sarà identificato da un numero di telefono personale (sbuff)… invece di pronto, chi parla?, diremo tutti pronto, dove sei?». Se le cose stavano così, allora la scrittura era davvero messa male.

Come testimoniava un’indagine promossa da Poste italiane nel novembre 2000, in effetti, più di metà degli italiani – una volta finita la scuola – semplicemente smetteva di scrivere. L’altra metà (meno della metà in effetti, anzi: poco meno del 40% degli intervistati) diceva di usare la scrittura soprattutto in due occasioni. Per segnare gli appuntamenti sull’agenda e per fare la lista della spesa. Non proprio scrittura letteraria, insomma: ore 11 dal parrucchiere; ore 16 dal dentista; quattro panini, due etti di prosciutto, detersivo per i piatti… E le lettere? Già, le lettere. L’11% dichiarava di dedicarsi alla corrispondenza epistolare almeno una volta al mese, il 9% diceva di farlo ogni due-tre mesi: non più di quattro lettere all’anno.

L’aspetto più interessante, però, era quello che emergeva dalla fascia di età tra i 18 e i 29 anni. Vale a dire noi trenta-quarantenni, che eravamo i giovani di allora. In quella fascia di età, infatti, si scriveva molto di più: l’8% diceva di scrivere tutti i giorni o quasi lettere personali ad amici o parenti. E, soprattutto, in quella fascia di età cominciava a diffondersi l’abitudine alla scrittura digitale: il 9% dichiarava di scrivere ogni giorno e-mail; il 39% di scrivere ogni giorno SMS. (La differenza si spiega con la rapidissima diffusione, in Italia, del telefono cellulare rispetto a Internet). Al volgere del millennio era cominciato anche da noi un passaggio decisivo in termini generazionali e, direi, epocali: quello dall’epistola all’e-pistola. Dal cartaceo al digitale, dalla penna alla tastiera, dallo scrivere al digitare.

Nell’accezione più ampia di e-pistola – cioè di epistola, lettera elettronica – rientrano anche gli SMS; anche quelle che allora si chiamavano chat line; anche le varie forme di messaggeria istantanea (che da noi si affermeranno più tardi: da MSN fino a WhatsApp). Ma l’e-pistola per antonomasia, con quella e- che sta proprio per «electronic», è ovviamente l’e-mail: la posta elettronica.

Qualcuno ha provato a chiamarla elettro-posta, però non ha funzionato. Perché appunto non si stava parlando più di elettrodomestici, ma di una nuova èra: quella dell’elettronica. Così il prefisso è rimasto e-, e anche le parole che lo seguono sono rimaste tutte inglesi: e-learning, e-commerce, e-banking, e-government, e-book. C’è una vignetta (in inglese, appunto) in cui un bambino sta davanti al computer insieme al suo papà. Il loro dialogo, tradotto in italiano, suona più o meno così: «oh no! L’e-mail è di nuovo fuori uso». «Mmm. Mi sa che il server non funziona». «Cos’è il server, papà? È, tipo, l’e-postino?» «No, nient’affatto: è…» «È, tipo, uno che guida un e-camion in mezzo a degli e-cani che abbaiano mentre guida su una e-strada?».

La verità è che non c’è più la e di una volta, signora mia. I tempi cambiano, e con questi l’uso e il significato delle parole. Per rendersene conto, basta pensare a una parola come digitale. Dalla digitale purpurea che emanava il suo profumo nella poesia di Pascoli si è passati oggi ai prosaicissimi canali del digitale terrestre. È di questo che parliamo quando parliamo di e-taliano.

 

Giuseppe Antonelli

Fonte: www.minimaetmoralia.it

Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/le-chiocciole-e-le-lumache/

16.10.2016

 

Estratto dal libro di Giuseppe Antonelli Un italiano vero – La lingua in cui viviamo, uscito per Rizzoli

 

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