La verità sull’11 settembre: è in lockdown da quasi vent’anni

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Max Parry
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L’obiettivo generale della politica pratica è quello di mantenere la popolazione in stato di allarme (e quindi vogliosa di essere portata in salvo) da tutta una serie di creature fantastiche, molte delle quali immaginarie” — H.L. Mencken

Mentre la pandemia globale attira l’attenzione del mondo, è passata completamente inosservata dai media tradizionali la pubblicazione del rapporto finale di uno studio accademico relativo ad un precedente e disastroso evento di importanza internazionale. Il 25 marzo sono stati pubblicati i dati finali di un’indagine durata quattro anni condotta da alcuni ricercatori della Fairbanks dell’University dell’Alaska, che hanno stabilito che il crollo del World Trade Center Building 7 dell’11 settembre 2001 non era stato causato da un incendio. L’indagine peer-reviewed era stata finanziata da Architects & Engineers for 9/11 Truth, un’organizzazione no profit composta da oltre 3.000 architetti e ingegneri edili firmatari di un appello formale per una nuova indagine sui tre, non due, grattacieli del WTC andati distrutti l’11 settembre. I ricercatori hanno concluso che il crollo dell’Edificio 7 era stato, in realtà, il risultato di una demolizione controllata:

“La principale conclusione del nostro studio è che non era stato il fuoco a causare il crollo del WTC 7 l’11/9, contrariamente alle conclusioni del NIST (National Institute of Standards and Technology) e delle società di ingegneria private che avevano studiato il crollo. La conclusione secondaria del nostro studio è che il crollo del WTC 7 era stato causato da un cedimento generalizzato, che aveva comportato il collasso quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio.”

Con o senza pandemia, è probabile che i media mainstream avrebbero comunque ignorato lo studio, così come hanno sempre ignorato qualunque cosa andasse contro la versione ufficiale dell’11 settembre. Tuttavia, è degno di nota che molte persone, sulla base dei diffusi cambiamenti nella vita quotidiana dovuti alla crisi in atto, abbiano tracciato dei parallelismi tra la diffusione del COVID-19 e gli attacchi dell’11 settembre. Si parla già del lockdown a livello nazionale come di una “nuova normalità,” con molti che, giustamente, si preoccupano per le libertà civili, i diritti della stampa, lo stato di sorveglianza ed altre questioni, proprio come era avvenuto dopo l’11 settembre. Come allora, una falsa dicotomia viene imposta dai gatekepeer politici per mettere a tacere tutti quelli che osano sfidare la versione ufficiale sulle origini del coronavirus. È una stigmatizzazione fin troppo familiare a chi non ha mai creduto alla narrativa tradizionale [dell’11 settembre], secondo cui, in quel fatidico giorno, 19 dirottatori arabi fedeli ad Osama bin Laden e armati solo di taglierini sarebbero stati i soli responsabili degli attacchi al World Trade Center ed al Pentagono.

C’è un comune malinteso sul fatto che credere alle cosiddette “teorie della cospirazione” significhi in qualche modo perdere di vista il quadro generale o i problemi sistemici. Dietro questo fenomeno ci sarebbe un presunto conflitto tra la comprensione del sistema nel suo insieme e le sinistre motivazioni di coloro che detengono il potere, anche se le due cose sono indissolubilmente collegate. Lo scienziato politico Michael Parenti, che ha attirato su di se l’ira di molti suoi colleghi di sinistra per il suo lavoro sull’assassinio di Kennedy, ne parla nella conferenzaComprendere la politica profonda” come di un’incompatibilità percepita tra “lo strutturale e il funzionale.” Gli anti-cospirazionisti danno erroneamente per scontato che quanto più impersonale o più ampio è l’approccio, tanto più profonda dovrebbe essere l’analisi. In base a questa logica, l’élite viene assolta dall’intento cosciente e dalla deliberata ricerca di un malvagio interesse personale, come se tutto fosse dovuto al caso o all’incompetenza. Non voglio dire che l’intento malevolo sia sempre presente, ma oggi, per mantenere la propria credibilità, è diventato necessario dissociarsi dalle “cospirazioni,” ironicamente anche da parte di coloro che sono spesso oggetto di tali accuse.

Questo vale non solo per i media e gli accademici tradizionali, ma anche per le figure progressiste di spicco, che offrono una resistenza meccanica ed istintiva all’assegnazione di motivazioni o al riconoscimento dell’esistenza di ordini del giorno nascosti. Di conseguenza, [un comportamento del genere] fa scomparire gli interessi di classe dell’élite al potere e, alla fine, le aiuta a coprire i loro crimini. Con l’eccezione dell’assassinio di Kennedy, guarda caso l’argomento di una nuova epica canzone di successo di Bob Dylan, in nessun’altra occasione c’è stata più ostilità verso il “complottismo” che negli eventi dell’11 settembre. Proprio come avevano attaccato Parenti, David Talbot ed altri, rei di aver sfidato la teoria dello “sparatore solitario” tanto cara alla Commissione Warren, personaggi di spicco della sinistra come Noam Chomsky e il compianto Alexander Cockburn si sono opposti al movimento per la verità sull’11 settembre ed oggi [questo movimento] è spesso erroneamente equiparato alla politica della destra, un percorso improbabile, dato che si è sviluppato [e va contro ad] un’amministrazione ultraconservatrice, ma questo è l’inevitabile risultato dell’avversione alle “cospirazioni” della pseudo-sinistra. Se i sondaggi sono indicativi, l’Americano medio non è certamente d’accordo con tali fuorvianti intellettuali, né si fa abbindolare dalle finte scoperte della Commissione sull’11 settembre; un altro esempio di quanto la falsa sinistra sia ormai fuori dalla realtà nei confronti della gente comune.

Un esempio più recente è un articolo del giornalista di sinistra Ben Norton, secondo cui chiamare l’11 settembre un false flag o un “lavoro interno” è “fondamentalmente una cospirazione della destra,” in totale disprezzo per i molti attivisti di sinistra che avevano cercato la verità sin dall’inizio. Norton insiste sul fatto che gli attacchi dell’11 settembre erano stati semplicemente una “reazione,” o una conseguenza non intenzionale del precedente sostegno della politica estera statunitense ai Mujaheddin afghani contro i Sovietici durante gli anni ’80, politica che, successivamente, aveva dato origine ad Al Qaeda e ai Talebani. Norton sostiene che “l’alleanza strategica non ufficiale di Al-Qaeda con gli Stati Uniti alla fine si era interrotta,” con la conseguente rappresaglia dell’11 settembre, trascurando completamente il fatto che, in Bosnia negli anni ‘90, Washington stava ancora sostenendo le fazioni jihadiste (a cui avrebbero appartenuto due dei presunti dirottatori dell’11/9) e aveva aiutato il Kosovo nella sua guerra contro la Serbia, anche se gli Stati Uniti stavano, apparentemente, dando la caccia a bin Laden per gli attentati a due ambasciate statunitensi in Africa nel 1998 e alla USS Cole nel 2000.

Un documento congressuale del 1997 del Republican Policy Committee (RPC) fa luce su come Washington non abbia mai interrotto la pratica, messa a punto in Afghanistan, di usare mercenari jihadisti per raggiungere i propri obiettivi di politica estera nei Balcani. Sebbene si trattasse di un attacco dei Repubblicani inteso a screditare l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il promemoria, in ogni caso, descriveva accuratamente come gli Stati Uniti avessero “trasformato la Bosnia in una base islamica militante“:

“In breve, la politica dell’amministrazione Clinton volta a facilitare la consegna di armi ai Mussulmani bosniaci l’ha resa di fatto partner di una rete internazionale di governi e di organizzazioni che perseguono in Bosnia una propria agenda: la promozione della rivoluzione islamica in Europa. Tale rete comprende non solo l’Iran, ma anche il Brunei, la Malesia, il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Sudan (un alleato chiave dell’Iran) e la Turchia, insieme ad organizzazioni di facciata che, in teoria, dovrebbero svolgere attività umanitarie e culturali. Ad esempio, una di queste agenzie di cui si conoscono i dettagli è la Third World Relief Agency (TWRA), una finta organizzazione umanitaria con base in Sudan che si è rivelata un importante collegamento per il traffico di armi con la Bosnia. Si ritiene che la TWRA sia collegata ad alcuni settori della rete terroristica islamica, come quello dello sceicco Omar Abdel Rahman (la mente, già assicurata alla giustizia, dietro all’attentato al World Trade Center del 1993) e di Osama Bin Laden, un ricco emigrato saudita che avrebbe finanziato numerosi gruppi di militanti … “

Sempre in Bosnia, nel 2002, la polizia locale aveva effettuato un raid presso la filiale di Sarajevo di una presunta organizzazione di beneficenza con sede in Arabia Saudita, la Benevolence International Foundation, che si era poi scoperto essere un’organizzazione di facciata di Al-Qaeda. Nella sua sede era stato sequestrato un documento, soprannominato la “Catena d’oro,” che elencava come principali sponsor finanziari dell’organizzazione terroristica numerosi personaggi appartenenti al governo e al mondo degli affari sauditi, tra cui alcuni fratelli di Osama bin Laden. Come ammesso nella stessa relazione della Commissione sull’11 settembre, questa falsa organizzazione caritatevole islamica “aveva sostenuto i Mussulmani bosniaci nel loro conflitto con la Serbia” contemporaneamente alla CIA.

Non può essere trascurato il fatto che il legame fondamentale tra Al Qaeda e i successivi gruppi estremisti, come ISIS/Daesh e Boko Haram, è la dottrina del Wahhabismo, una versione puritana dell’islam sunnita praticata nel Regno dell’Arabia Saudita e fondata nel XVIII secolo da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, il leader religioso che aveva stretto un’alleanza con il fondatore del primo stato saudita, Muhammad bin Saud, i cui discendenti attuali costituiscono la famiglia reale di Casa Saud. Gli insegnamenti ultra-ortodossi del Wahhabismo erano stati inizialmente respinti in Medio Oriente ma, in seguito, erano stati ristabiliti dal colonialismo britannico, alleatosi alla famiglia Saud con l’intento di usare la loro intollerante versione dell’Islam per minare l’Impero Ottomano, nella strategia del dividi e conquista. In un discorso del 1921 alla Camera dei Comuni, Winston Churchill aveva ammesso che i Sauditi erano “intolleranti, ben armati e assetati di sangue.

La cosa non aveva impedito agli Inglesi di sostenere Casa Saud fintanto che era nell’interesse dell’imperialismo occidentale, un’empia alleanza che continua ancora oggi. Tuttavia, le relazioni tra Stati Uniti ed Arabia Saudita erano state riviste quando, nel 2016, erano state finalmente divulgate le famigerate 28 pagine secretate del rapporto del dicembre 2002 concernente l’”Inchiesta congiunta sulle attività della comunità dell’intelligence prima e dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001,” condotta dal Comitato permanente per i servizi segreti della Camera degli Stati Uniti.

Questa parte del rapporto aveva rivelato non solo i numerosi fallimenti dell’intelligence statunitense nel periodo precedente gli attacchi, ma anche la presunta colpevolezza dell’Arabia Saudita, i cui cittadini non avevano ricevuto le dovute attenzioni da parte dell’antiterrorismo a causa dello status di alleato degli Stati Uniti di Riyadh. Le pagine desecretate mostrano che alcuni dei dirottatori, 15 dei quali cittadini sauditi, avevano ricevuto supporto finanziario e logistico da elementi legati al governo saudita e, secondo fonti dell’FBI, almeno due di loro erano ufficiali dell’intelligence saudita. Uno di questi agenti sauditi aveva ricevuto ingenti somme di denaro dalla principessa Haifa, moglie del principe saudita Bandar bin Sultan, uno stipendio dal conto bancario di quest’ultima, che, inevitabilmente, era arrivato tramite intermediari alle cellule dormienti.

Il presidente George W. Bush e il principe Bandar bin Sultan nel ranch di Bush a Crawford, in Texas, nel 2002

 

Membro chiave di Casa Saud e poi ambasciatore saudita negli Stati Uniti, il principe Bandar ha una relazione talmente durevole e stretta con la famiglia Bush da essere stato soprannominato “Bandar Bush.” Per ovvie ragioni, quando il rapporto sull’indagine congiunta del Congresso era stato pubblicato per la prima volta nel 2003, la sezione di 28 pagine concernente i legami sauditi con gli attacchi era stata completamente censurata su insistenza dell’amministrazione Bush. Tuttavia, il collegamento della famiglia Bush con il regno-stato del Golfo Persico non si limita alla monarchia dominante, ma include anche una delle famiglie più ricche della teocrazia del petrodollaro: quella dello stesso bin Laden. Anche se il film di Michael Moore, Fahrenheit 9/11, aveva in gran parte sottaciuto la vera cospirazione dell’11 settembre, aveva però rivelato che numerosi membri della famiglia bin Laden non erano stati interrogati, avevano ricevuto un trattamento speciale ed erano stati sospettosamente evacuati fuori dagli Stati Uniti con voli segreti poco dopo gli attacchi, in coordinamento con il governo saudita.

La connessione Bush-bin Laden risale all’inizio della carriera imprenditoriale di George W. Bush, prima del suo ingresso in politica nel 1976, con la fondazione di una società di trivellazione petrolifera, la Arbusto Energy, i cui primi investitori includevano un uomo d’affari del Texas, James R. Bath, che era anche un collega riservista [di George W. Bush] nella Texas Air National Guard e che, stranamente, era stato il collegamento americano con Salem bin Laden, il fratellastro di Osama. In altre parole, la famiglia bin Laden e la sua azienda di costruzioni avevano contribuito a finanziare gli esordi di Bush nel settore petrolifero, una relazione che sarebbe continuata negli anni ’90 con la Harken Energy, in seguito vincitrice di un contratto petrolifero offshore per la ricostruzione dell’Iraq insieme alla Halliburton di Dick Cheney. I legami finanziari della dinastia Bush con i reali sauditi e la famiglia bin Laden erano continuati quando erano diventati co-investitori nella società di private equity del Gruppo Carlyle, sfruttando i vecchi contatti politici dell’anziano Bush per ottenere vantaggi finanziari. In effetti, guarda caso, la mattina dell’11 settembre, Bush Sr. stava partecipando nella sede del Gruppo Carlyle ad una riunione d’affari in cui l’ospite d’onore era un altro fratello di bin Laden, in quella che dovremmo credere fosse un’altra sorprendente coincidenza. Alcuni giorni dopo, Shafiq bin Laden era stato rispedito in fretta e furia in Arabia Saudita con un volo privato, un esodo supervisionato dallo stesso Principe Bandar.

Anche lo stesso Osama bin Laden aveva usufruito di una sorta di evacuazione quando gli Stati Uniti avevano invaso l’Afghanistan nel 2001. Era stato il leggendario giornalista vincitore del premio Pulitzer, Seymour Hersh, a rivelare per la prima volta che a bin Laden e a migliaia di altri combattenti di Al Qaeda e Talebani era stato sospettosamente concesso di fuggire in Pakistan, con un’evacuazione che era stata soprannominata il “ponte aereo del male.” La cosa era stata confermata in una email del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton del 2009 e pubblicata da WikiLeaks riguardante un rapporto del Senato sulla battaglia di Tora Bora e sulla fuga di Bin Laden, lettera in cui il consigliere della Clinton, Sidney Blumenthal, ammetteva che il controverso ponte aereo era stato richiesto dal presidente pakistano Pervez Musharraf ed era stato approvato dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e dal vicepresidente Dick Cheney (ma che non vi venga in mente di chiamarla una teoria della cospirazione):

“Gary Berntsen, capo delle operazioni armate della CIA nell’Afghanistan orientale, è una delle principali fonti del rapporto. Sono in contatto con lui e ho ascoltato fino in fondo tutta la sua storia, le cui parti fondamentali non sono nel suo libro, “Jawbreaker” o nel rapporto del Senato. In particolare, manca la storia del trasferimento aereo da Kunduz della maggior parte dei principali leader di AQ e Talebani, su richiesta di Musharaff e per ordine di Cheney/Rumsfeld.

Potrebbe esserci una connessione al fatto che alcuni anni prima, quando Bush era governatore, alcuni i Talebani si fossero recati in Texas per discutere con la Unocal Corporation la costruzione di un gasdotto verso il Pakistan attraverso l’Afghanistan? È anche noto che il governo pakistano e la sua agenzia di intelligence inter-servizi (ISI) avevano sostenuto i Talebani per decenni e, negli anni ’80, [l’ISI] era stato il principale canale della CIA nel rifornimento di armi ai Mujaheddin afgani, tra cui bin Laden e Ayman Muḥammad Rabīʿ al-Ẓawāhirī, il precursore organizzativo di Al-Qaeda. Come si vede nel documentario sull’11 settembre: Press for Truth, negli anni tra la guerra afgano-sovietica e l’11 settembre poco era cambiato nelle relazioni fra l’ISI e i Talebani, visto che il direttore dell’ISI, Mahmud Ahmed, era stato arrestato con l’accusa di aver trasferito 100.000 dollari sul conto del presunto capo dei dirottatori, Mohamed Atta, subito prima degli attacchi al WTC. Per tutto il 2001, sia prima che dopo l’11 settembre, il generale Ahmed aveva ripetutamente visitato gli Stati Uniti e si era incontrato con i massimi funzionari del Pentagono e dell’amministrazione Bush, tra cui il direttore della CIA, George Tenet, e questo non solo fa capire che il Principe Bandar non era stato l’unico personaggio ad aver finanziato l’operazione, ma anche che tra la Casa Bianca e i dirottatori esisteva un collegamento diretto.

Mentre Bandar ha finora eluso la giustizia, un anno dopo il rilascio delle 28 pagine, contro il governo dell’Arabia Saudita  era stata intentata una causa da parte delle famiglie delle vittime, causa in cui erano state presentate nuove prove sul fatto, che, due anni prima degli attacchi dell’11 settembre, l’ambasciata saudita aveva pagato il biglietto aereo a due agenti sauditi che vivevano sotto copertura negli Stati Uniti affinché volassero da Phoenix a Washington “per una prova generale degli attacchi dell’11 settembre,” tentando di entrare nella cabina di pilotaggio e verificando il livello di sorveglianza a bordo. Questo significa che il governo saudita era stato probabilmente coinvolto nella pianificazione degli attacchi sin dall’inizio, oltre a fornire i mezzi finanziari e i dirottatori da strapazzo che sarebbero serviti ad incolpare Al Qaeda e a fare di Bin Laden il capro espiatorio, anche se i suoi legami con l’11 settembre erano, nella migliore delle ipotesi, molto vaghi. Dopotutto, la “confessione” del presunto pianificatore, Khalid Sheikh Mohammed, era stata ottenuta dopo “solo 183 sedute di waterboarding, mentre lo stesso Bin Laden, all’inizio, aveva negato qualsiasi ruolo negli attacchi, prima che fossero rilasciati dei discutibili video in cui ammetteva il suo coinvolgimento.

I cittadini sauditi che avevano partecipato alla prova di dirottamento si erano presentati come studenti. Tuttavia, la dittatura sunnita non era stato l’unico paese a condurre sotto tali spoglie operazioni di spionaggio negli Stati Uniti prima dell’11 settembre. Nella prima metà del 2001, diverse agenzie di intelligence statunitensi avevano documentato più di 130 diversi casi di giovani Israeliani appartenenti alla rete spionistica del Mossad che, fingendo di essere “studenti d’arte,” avevano cercato di eludere la sicurezza di diverse strutture governative e militari. Si era poi scoperto che molti di questi Israeliani vivevano nelle immediate vicinanze dei dirottatori, come se li stessero spiando. La scoperta dell’operazione israeliana aveva sollevato molte domande, in particolare se il Mossad avesse avuto conoscenze avanzate o fosse stato direttamente coinvolto nell’11 settembre. Ironia della sorte, Fox News, fra tutti, era stata uno dei pochissimi media a coprire la storia con un servizio in quattro parti che non è mai stato ritrasmesso e che, alla fine, è stato anche cancellato dal sito Web della rete.

Il mistero degli “studenti d’arte” israeliani non è mai stato popolare fra i media, proprio come l’altro caso sospetto degli “Israeliani danzanti,” un gruppo più piccolo di spie del Mossad che fingevano essere degli addetti ai traslochi e che erano stati arrestati nel New Jersey la mattina del 9/11 mentre scattavano foto celebrative con le torri gemelle in fiamme sullo sfondo dei grattacieli di Manhattan. I cinque uomini non solo erano fisicamente presenti sul lungomare già prima dell’impatto del primo aereo, ma, dopo essere stati segnalati per il loro comportamento sospetto ed intercettati nel Lincoln Tunnel in direzione di Manhattan, erano stati trovati in possesso di migliaia di dollari in contanti, taglierini, passaporti falsi ed abiti arabi. Inizialmente ritenuti arabi dai media, questi uomini erano stati poi collegati al Mossad tramite i database dell’FBI e trattenuti in custodia per cinque mesi prima di essere deportati in Israele, mentre il proprietario della compagnia di traslochi era fuggito a Gerusalemme prima ancora di essere interrogato. Va notato che se Israele avesse partecipato ad un attacco “false flag” contro gli Stati Uniti, questa non sarebbe stata la prima volta. Durante la guerra dei sei giorni del 1967, l’aeronautica e la marina israeliana, nel tentativo di incolpare l’Egitto e provocare l’intervento degli Stati Uniti, avevano lanciato un attacco ingiustificato contro la USS Liberty, una nave spia della marina americana che stava sorvegliando il conflitto arabo-israeliano dalle acque internazionali del Mediterraneo, un assalto “accidentale” che aveva ucciso 34 Americani.

Che Israele abbia cospirato insieme con i Sauditi, non è uno scenario così improbabile come potrebbe apparire. Anche se, erroneamente, potrebbero sembrare acerrime nemiche, non è un segreto che queste due nazioni create dagli Inglesi hanno mantenuto un’alleanza storica e segreta fin dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando il primo monarca del moderno stato saudita, il re Abdulaziz Ibn Saud, aveva sconfitto il suo rivale, lo Sharif della Mecca, che si opponeva alla Dichiarazione Balfour. Redatta dal Segretario agli Eteri britannico Lord Balfour e presentata al leader sionista, il Barone Rothschild, la lettera del 1917 garantiva una patria ebraica in Palestina tramite la colonizzazione con Ebrei europei. Una volta tolto di mezzo Sharif, il movimento sionista aveva avuto il via libera per proseguire con il suo progetto coloniale. Sebbene Ibn Saud si opponesse pubblicamente ai Sionisti, dietro le quinte aveva negoziato con loro attraverso un suo consigliere/intermediario, l’agente britannico St. John Philby, che aveva proposto un risarcimento di 20 milioni di sterline al re saudita in cambio della Palestina per gli Ebrei.

Ibn Saud aveva comunicato la sua volontà di scendere a compromessi in una lettera del 1940 inviata da Philby a Chaim Weizmann, il presidente dell’Organizzazione Mondiale Sionista e, in seguito, primo presidente israeliano. Tuttavia, lo stesso Philby era un anti-sionista e aveva sabotato il piano facendolo trapelare agli altri leader arabi che lo avevano violentemente osteggiato ed era stato solo dopo questa fuga di notizie che il re saudita aveva affermato di aver rifiutato la bustarella, una prassi che i Sionisti avrebbero sicuramente sollecitato, se solo avessero pensato che avrebbe potuto essere accettata. Da allora, le ideologie del Wahhabismo saudita e del Sionismo israeliano sono state al centro della destabilizzazione occidentale del Medio Oriente che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, storicamente non era mai stato tormentato dai conflitti più dell’Occidente, fino a quando l’Occidente stesso non aveva promosso il Salafismo ed il Sionismo. Com’era prevedibile, discutere sui media corporativi del ruolo saudita o israeliano nei fatti dell’11 settembre è sempre stato severamente vietato, dal momento che entrambi sono tra gli alleati geostrategici di Washington ed hanno un enorme potere di pressione sulle grandi istituzioni mediatiche.

Meno di cinque mesi dopo l’11 settembre, Bush nel suo discorso sullo stato dell’unione del 2002 aveva pubblicamente dichiarato che Iran, Iraq e Corea del Nord costituivano “l’asse del male.” In realtà, la frase sarebbe più adatta a descrivere la triade costituita da Arabia Saudita, Israele e dallo stesso governo degli Stati Uniti, probabilmente il vero trio di cospiratori dietro l’11 settembre. La famigerata scelta di parole era stata attribuita al giornalista neoconservatore e scrittore dei discorsi di Bush, David Frum, che aveva affermato di essersi ispirato al discorso di Franklin D. Roosevelt “una data segnata dall’infamia,” tenuto il giorno successivo all’attacco giapponese di Pearl Harbor nel 1941.
Ricostruire le difese dell’America” era stato stilato dal gruppo di esperti del Project for the New American Century (PNAC), i cui membri includevano Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e Jeb Bush. Questo progetto strategico-militare prevedeva un massiccio aumento delle spese per la difesa degli Stati Uniti al fine di “combattere e vincere in modo decisivo in scenari bellici multipli e simultanei,” per poi prevedere sinistramente che:

“Il processo di trasformazione, anche se porta ad un cambiamento rivoluzionario, sarà probabilmente lungo, in assenza di un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor.”

Dieci membri del PNAC avevano poi assunto posizioni di potere alla Casa Bianca di Bush, dove la loro visione di una “nuova Pearl Harbor” si era opportunamente materializzata. D’altra parte, ci sono molte prove che la stessa Pearl Harbor fosse stata un “false flag” o che l’intelligence e il presidente Franklin D. Roosevelt avessero saputo in anticipo di un imminente attacco giapponese alla base navale di Oahu, nelle Hawaii, il 7 dicembre 1941. Come sottolineato nel film Loose Change, è probabile che Roosevelt avesse permesso l’effettuazione dell’attacco al fine di ottenere il sostegno del pubblico all’ingresso degli Stati Uniti nel teatro europeo della Seconda Guerra Mondiale, una mossa a cui era contraria la maggioranza degli Americani prima dell’attacco giapponese “a sorpresa.”  Visto quello che si sa di Pearl Harbor e dell’abortita operazione Northwoods, in cui, nel 1962, si suggeriva di fingere e/o di commettere contro aerei civili dei veri e propri attacchi terroristici da attribuire a Fidel Castro per giustificare un’invasione statunitense di Cuba, non vi sono motivi per ritenere che tali operazioni false flag siano mai state eliminate dalle procedure militari prima, o anche dopo, l’11 settembre.

Loose Change ha anche fatto un’utile analogia storica tra l’11 settembre e l’incendio del Reichstag, l’attacco incendiario del 1933 contro l’edificio del parlamento tedesco verificatosi un mese dopo la nomina a Cancelliere di Adolf Hitler ed attribuito ad un comunista olandese mezzo cieco di 24 anni di nome Marinus van der Lubbe. Mentre non si può negare che l’incidente sia stato usato come pretesto dal regime nazista per consolidare il potere e sospendere i diritti costituzionali, tra gli storici si dibatte ancora se van der Lubbe fosse, o meno, il vero colpevole. Tuttavia, guarda caso proprio nel 2001, un gruppo di storici aveva scoperto che un militare delle truppe d’assalto naziste, morto in circostanze misteriose nel 1933, aveva in precedenza confessato ai pubblici ministeri che erano stati alcuni membri dello Sturmabteilung [il corpo delle Camicie Brune] hitleriano ad aver appiccato il fuoco all’edificio su ordine del leader paramilitare Karl Ernst, dando credito al diffuso sospetto che l’attentato fosse stato un “false flag” progettato dai nazisti fin dall’inizio.

La maggior parte degli Americani non è a conoscenza del fatto che, nello stesso anno, un simile colpo di stato si era quasi verificato negli Stati Uniti, con il tentativo di rimuovere il presidente Franklin D. Roosevelt ed installare un governo autoritario modellato sull’Italia fascista e sulla Germania nazista, parte integrante di un piano progettato da una cerchia ristretta di banchieri di destra, altrimenti noto come il “Business Plot.” Una cospirazione che era diventata di pubblico dominio solo dopo essere stata eroicamente sventata da un informatore, un veterano decorato del Corpo dei Marines trasformatosi in antimperialista, il maggiore generale Smedley Butler, dopo essere stato reclutato per formare la giunta. Incredibilmente, una delle figure di spicco del mondo degli affari implicate nel putsch non era altri che il futuro senatore del Connecticut Prescott Bush, padre di George H.W. e nonno di George W. Bush, che, all’epoca, era direttore ed azionista di una banca di proprietà dell’industriale tedesco ed importante finanziatore del partito nazista Fritz Thyssen, banca poi sequestrata dal governo degli Stati Uniti ai sensi del Trading with the Enemy Act.

Dopo la sua conversione, Smedley Butler era diventato famoso per aver scritto nel 1935 War is a Racket e non esiste forse una frase migliore che oggi riassuma la cosiddetta “Guerra al terrore.” Non solo il fuoco del Reichstag americano dell’11 settembre ha innescato la trasformazione della nazione in uno stato di polizia che, con l’approvazione del Patriot Act e l’istituzione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, ha travolto la costituzione americana nell’equivalente americano dell’Enabling Act del 1933 e delle forze di difesa Heimatschutz (“protezione della patria“), ma ha anche adempiuto alla profezia di The Clash of Civilizations del politologo Samuel Huntington su uno scontro internazionale tra Islam e Cristianesimo. La previsione che la religione e la cultura sarebbero state la fonte primaria dei conflitti geopolitici nel mondo post Guerra Fredda era un paradigma apocalittico immaginato da alcuni filosofi orientalisti di destra, come Huntington e Bernard Lewis, che gli ideologi neoconservatori del PNAC hanno messo in pratica. Oggi, anche la crisi in corso del COVID-19 sembra avere simili conseguenze politiche, sociali ed economiche a lungo termine e coloro che nutrono dubbi sulla versione ufficiale dell’origine della pandemia non possono essere incolpati per la loro sfiducia, a meno che non sia andata persa la lezione dell’11 settembre.

Max Parry

Fonte: unz.com
Link: https://www.unz.com/article/9-11-truth-under-lockdown-for-nearly-two-decades/
09.04.2020

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