DI MASSIMO FINI
ilfattoquotidiano.it
Domenica ho partecipato a Erbusco (Brescia) a un convegno organizzato da una piccola associazione culturale, Sirio B, intitolato “Alle radici dell’ospitalità”, spalmato su quattro giornate. Il tema che mi era stato affidato riguardava l’identità, “il diritto dei popoli a filarsi da sé la propria storia” come io declino il principio all’autodeterminazione sancito a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo e regolarmente violato negli ultimi decenni.
Ho riassunto nel modo più sintetico possibile la mia posizione, perché la cosa più interessante era la presenza di sette esponenti dell’etnia Dogon, che vive attualmente nel Mali del Nord. Uno sforzo notevole per questa piccola organizzazione farli venire qui, sia per ovvi motivi economici, sia per farli uscire dal Mali dove da cinque anni è in atto una guerra.
I Dogon, sia pur con molti sforzi, sono riusciti a conservare intatte le loro tradizioni che risalgono, si può dire, alla notte dei tempi. In un certo senso è stato come ripercorrere la straordinaria esperienza vissuta negli anni Trenta da Karen Blixen (La mia Africa) e dei suoi rapporti con popoli allora altrettanto tradizionali, i Kikuyu, i Somali, i Masai e della difficoltà per un occidentale di comprendere il senso che danno alla vita queste popolazioni. I Dogon hanno una cosmogonia complicata e raffinatissima che sarebbe impossibile sintetizzare qui se non dicendo l’importanza magica che vi assume il ‘feticcio’ che è il loro modo e mezzo per rapportarsi con il dio creatore, Amma. Ma ancora più interessante è il modo con cui i Dogon sono riusciti a convivere con altre etnie del posto che c’erano prima di loro o che sono arrivate dopo. Nelle loro migrazioni hanno dovuto spostarsi verso le falesie dove viveva un’altra etnia, i Tellem. Per non entrarvi in conflitto si sono spostati ai piedi di queste falesie e fare i conti con una foresta fittissima che hanno dovuto disboscare, con un certo rammarico come ci ha detto il loro portavoce Ihogodolo, guaritore, indovino della Volpe e cacciatore, perché istintivamente, e non per motivi ideologici, hanno un grande rispetto della natura e riluttano a modificarla. Mentre i Dogon tendenzialmente agricoltori si sistemavano ai piedi di queste falesie, un’altra tribù, quella dei Bozo, tendenzialmente pescatori, si attestava sul Niger. In zona c’erano anche i Tuareg, nomadi, e successivamente sono arrivate popolazioni di religione islamica. Insomma un bel pot-pourri. Eppure fra queste genti in parte molto diverse c’era sempre stata, prima della guerra, una convivenza pacifica. Ci si limitava, come ha raccontato Ihogodolo, a qualche ironico sfottò. E’ una conferma di ciò che già si sapeva e di quanto scrive, con l’autorità dell’antropologo, John Reader (Africa) e cioè che in Africa Nera i conflitti, pur con qualche inevitabile eccezione in una storia bimillenaria, sono stati rari, sostituiti con le integrazioni fra le mille etnie. Scrive Reader parlando proprio della regione del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici classici il delta del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche. Con ciò non si vuol dire che non vi siano mai stati contrasti fra i gruppi, ma solo che, quando scontro vi fu, non si concluse con la sottomissione dei vinti…il messaggio che ne discende è di tipo adattivo: prevalenti modelli di accordo interetnico. Nei racconti la vittoria non era il valore supremo e i vincitori assumevano talvolta l’identità dei vinti”. Questa concezione è stata rappresentata nel piccolo teatro di Erbusco da una danza Dogon in cui le armi, bastoni e spade, non erano utilizzate per l’offesa, ma solo a simularla.
Questa pacifica convivenza è stata spezzata nel 2014 quando i francesi, già padroni del Mali del Sud la cui capitale Bamako è guidata da un loro fantoccio, hanno attaccato il Nord del paese per impadronirsi delle sue risorse. Ciò ha scatenato la reazione degli elementi più combattivi della regione, gli islamici collegati all’Isis (che i Dogon chiamano ‘rebelles’) e i Tuareg. I rebelles, foraggiati dall’Arabia Saudita ma in possesso anche e soprattutto delle armi dell’arsenale di Gheddafi che si sono sparse in tutta la regione, combattono prevalentemente i francesi ma non si fanno certo scrupolo di attaccare anche i Dogon che con i loro vecchi fucili da caccia hanno poche possibilità di difendersi, se non con qualche stratagemma come il blocco dei ponti e altre vie di passaggio. Ho chiesto a Ihogodolo come pensano di uscire da questa situazione che rischia di travolgere le loro tradizioni e perché non si sono uniti ai rebelles. “Noi vogliamo solo conservare il nostro territorio”. “E allora?” ho chiesto ancora. “Contiamo sulla difesa da parte del governo di Bamako”. Una risposta molto ingenua perché Bamako è in mano ai francesi che sono proprio quelli che hanno messo sottosopra il Mali del Nord rompendo l’equilibrio che fino ad allora c’era stato fra le diverse etnie e anche con gli islamici fino a quel momento non ancora radicalizzati e legati all’Isis.
Un’annotazione in finale. Non credo che in Italia si abbiano molte occasioni di avere un contatto diretto con una tribù africana, in più non si fa altro che parlare da parte delle nostre Istituzioni e dei nostri giornali del pericolo delle migrazioni che provengono dall’Africa subsahariana e che, per quanto riguarda il Mali, sono state causate dall’attacco francese al pacifico Nord di quel paese. Così come l’attacco franco-americano ha dissestato, con le conseguenze che ben conosciamo, la Libia del colonnello Gheddafi che in quanto presidente dell’Unione Africana proteggeva, come ci ha confermato lo stesso Ihogodolo, anche i Dogon. Eppure in sala c’era pochissima gente e nessun rappresentante delle Istituzioni.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2019