Il Culto della Madre Terra, un viaggio alle origini del mito/1a Parte

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PREMESSA

Questo saggio è un contributo al Convegno MATRI-ARKÈ – IL FUTURO DI UN’IMMAGINE ARCAICA svolto a Pistoia dal 3 al 5 Ottobre 2014. Ho creduto utile riproporlo per una riflessione sulle nostre radici che possa orientarci nella buia fase che stiamo attraversando.

Da tempo immemorabile la Terra ci ha ospitati, nutriti, curati; ci ha insegnato a vivere attraverso le parole di coloro che hanno saputo interpretare i suoi “segni”.

Il Mito ci racconta il rapporto tra la Natura e la Divinità che governava i cicli di Vita – morte -rinascita e di come abbiamo voluto staccarci dai ritmi di Gaia.

La brama di potere e l’ossessione di dominio hanno prodotto effetti letali per l’Umanità e le presunte “correzioni” producono squilibri ancora più gravi.

Non possiamo illuderci che la nostra salute, intesa come benessere psicofisico, possa essere affidata a manipolazioni che operano al di fuori e contro la Natura; dobbiamo ritrovare la comprensione del rapporto profondo che abbiamo con la Terra e attingere alle sue energie vitali mediante una sapienza nuova.

Di Anna De Nardis, ComeDonChisciotte.org

Continuità e Fratture nel Culto della Terra in Area Mediterranea

1a Parte

I

– Prerogative ed attributi della Grande Dea mediterranea
– Est mihi fecundus dotalibus hortus in agris
– Dea sancta Tellus…

II

– Le prime fratture simboliche
– Shukallituda stupra la dea
– Inanna e la montagna Ebih
– L’uccisione del serpente

III

– Ashtartu, Anat, Ashera
– Giardino chiuso, fontana sigillata
– Memoria della sacralità della terra nel culto di Maria
– L’ “Hortus conclusus” nella tradizione cristiana

IV

– Il matricidio filosofico occidentale
– La morte della Natura

V

-Il regno della Regina Sibilla
– Il tesoro della Mucchia
– La spiritualità della Pacha Mama

I

Prerogative Ed Attributi Della Grande Dea Mediterranea

«Nel noto sigillo d’un anello d’oro scavato a Micene, ma di ispirazione e fors’anche di fattura prettamente minoica, Demeter, la Terra Madre cretese, siede sotto un albero, che è l’altra sua vivente realtà, la realtà vegetale, nudi il busto e le braccia, turgidi i seni sostenuti dalla mano sinistra, la lunga gonna campanata, a balze. La mano destra alzata regge, anzi, ostenta tre steli coronati da capsule di papavero, uno degli attributi della dea, insieme con le spighe: queste coi loro chicchi, quelle coi numerosissimi semi, pegni bene auguranti di fecondità. Torna alla memoria il verso d’un poeta che perpetua, in piena età ellenistica, questo atteggiamento della antica Potnia minoica. Quattro divine assistenti nell’identico costume, due di esse piccoline, le stanno intorno portando papaveri e gigli; nel centro del sigillo, appena sopra di lei, si libra una bipenne, l’arma caratteristica della dea, dal nome schiettamente mediterraneo (pèlekys); più in là, a sinistra, un poco più in alto, pure sospeso nell’aria, un personaggio maschile bilobato (il paredro). La scena è dominata da tre elementi astrali, da cui esula ogni aspetto antropomorfo: la Via Lattea (si direbbe) e, sopra, la falce lunare ed il disco solare. Il cielo è dunque presente alla scena squisitamente terrestre (nessuno dei personaggi volge gli occhi in alto), perché essa non potrebbe ignorarlo, ma culturalmente presente non è. Dirò meglio: è presente, ma nella Potnia seduta sotto l’albero sacro, perché, come vedemmo, la Potnia e la Luna costituiscono una sostanziale unità e, quanto al Sole, sappiamo ormai che egli può chiamarsene figlio. Tanto è vero che un giorno ne diverrà pure il paredro.»

Il sigillo commentato da Umberto Pestalozza1, nella sua ricchezza simbolica, mostra la complessità della Dea mediterranea, la cui epifania più frequente è la Terra.

Tenterò di tracciare, attraverso miti riemersi dagli strati culturali più profondi, l’origine e gli sviluppi della personalità della Dea, il cui titolo preellenico era Potnia, la Signora, e di riannodare i fili che legano i suoi multiformi aspetti alla divinità arcaica che governava i cicli di vita-morte-rinascita.

Secondo Marija Gimbutas, nell’Europa antica (tra il 7000 e il 3000 a.C.) il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione. Il culto era rivolto a una dea i cui simboli rappresentavano essenzialmente gli aspetti di dispensatrice di vita e portatrice di morte e rinnovamento2.

La rigenerazione era considerata un processo continuo e senza tempo e numerose immagini della dea accompagnavano i defunti nel loro viaggio verso la rinascita3. Uno dei simboli legati a questo aspetto è la dea-rana, venerata dagli Egizi col nome di Heket, cui corrisponde la greca Baubo, mentre a Sumer si trova Ban, patrona della medicina e della salute4.

Nelle isole Cicladi sono state rinvenute figure di morte rigide, bianche e gravide, che possono essere rapportate alla dea degli inferi sumera Ereshkigal, che nel poema della Discesa di Inanna viene presentata in preda alle doglie del parto5.

Il confronto con le divinità sumere si dimostra efficace, perché la letteratura di quella popolazione mesopotamica conserva molti tratti di carattere matriarcale, che possono illuminare il significato remoto dei miti mediterranei. In uno dei documenti troviamo una “Signora della Vita”, Ninti, generata per partenogenesi dalla Grande Dea Ninkursag (la Signora della Cima della Montagna6), una elaborazione della dea Terra (in sumero Ki), per alleviare il dolore alla costola di Enki, il dio delle feconde acque sotterranee7.

L’ideogramma ti che compone il nome di Ninti significa sia “freccia” che “costola”. Non può sfuggire il confronto che si può fare col mito biblico di Eva, la Madre di tutti i viventi, anche per il motivo, meno ovvio, che Eva sarebbe stata, originariamente, una dea della Terra, venerata sul monte Sion a Gerusalemme8. Si stabilisce da tutto ciò un collegamento, che si ritrova frequentemente tra la signoria sulla Terra, la capacità di donare la vita e il culto della cima della montagna, punto di congiunzione tra Terra e Cielo.

Tale collegamento presenta implicazioni molto profonde.

Ma, se l’albero della vita è una vite, come sostengono alcuni autori9, si pone alla nostra attenzione Geshtinanna, la “Pianta rampicante del Cielo”, definita nel poema della Discesa di Inanna, «scriba, cantante, indovina»10. Essa è colei che permette a Dumuzi, fratello e, in altro contesto, sposo di tornare dagli Inferi a cui l’aveva condannato Inanna, prendendone il posto per metà dell’anno, in un ciclo di morte e rinascita che si ritrova nei miti di Osiride, Adone, Attis11.

Altra divinità sumero-akkadica legata alla vite è Siduri, dea della sapienza qualificata “sabito”, vale a dire “la donna del vino”. Nelle redazioni più antiche della leggenda di Gilgamesh, Siduri aveva una parte molto importante; infatti l’eroe si rivolse a lei per ottenere l’immortalità. Siduri, che abitava in un luogo dal quale partivano quattro sorgenti, è stata identificata con la ninfa Kalipso: come lei, la ninfa poteva accordare l’immortalità agli eroi perché possedeva l’ambrosia, che offrì anche a Ulisse12.

La vite appare dunque come simbolo di immortalità, ma è considerata altrove albero della conoscenza: dei suoi frutti si può nutrire anche Dea-serpente Hannat13. Ambivalenza che non sorprende, perché spesso nella divinità femminile le due prerogative si manifestano insieme. La grande Iside, ad esempio, che governa la fertilità della regione del Nilo, che ricompone le membra disperse di Seth, è «Dea eletta per sapienza e desiderio di sapienza, come il suo stesso nome sembra indicare, alla quale più di ogni altra cosa competono il sapere e la scienza»14. E in un epitaffio si legge:

Di tutte le opere ti prendi cura per dare a tutti gli uomini vita ed equità
hai introdotto leggi perché sia conforme a giustizia il comportamento umano;
hai trasmesso le arti perché la vita sia decorosa
e fai che la natura si carichi di ogni frutto.
Isidoro scrisse15.

Quanto detto finora aiuta a far luce sul mito di Eva, del serpente, del giardino con i suoi due alberi e le sue quattro sorgenti.

Abbiamo visto che l’origine della Donna dalla costola d’Adamo, che le attribuisce la versione più antica del Genesi, la collega alla sumera Ninti. Il suo nome ebraico Hawwa si fa derivare da un verbo che significa ‘esistere’, ‘vivere’16; infatti in Genesi 3, 20 è chiamata «la madre di tutti i viventi». Ma secondo Graves e Patai, Hawwa può anche essere la denominazione ebraica della dea chiamata dagli Ittiti Heba, Hebat, Khebat17.

Gli stessi autori sostengono che «Eva insegnava la saggezza ad Adamo come la sacerdotessa di Aruru la insegnava ad Enkidu» nell’epopea di Gilgamesh18. Una traccia di questa antica prerogativa può essere nascosta nel testo biblico. Infatti, nel Genesi Eva viene chiamata ezer del primo uomo, termine solitamente tradotto con ‘aiutante’ o ‘compagna’, ma che, nella sua forma maschile, viene interpretato, in altri contesti biblici, come ‘istruttore’19.

Si può spiegare in tal modo la relazione simbolica di Eva col serpente, che in Genesi è definito ‘astuto’, cioè sapiente. Nemico dell’ortodossia jahvista, in quanto simbolo anche di fecondità e sessualità, pertanto rappresentativo dell’idolatria cananea20.

In effetti il racconto biblico può contenere l’idea che il serpente, animale ctonio per eccellenza, sia stato il tramite attraverso cui i genitori primordiali, Adamo ed Eva, vengano inseriti nel ciclo naturale di generazione e morte: «Eva assaggia la morte perché sa di poter generare. Questo le ha insegnato il serpente […]. Il senso instillatole dall’animale parlante non è abominevole lussuria, bensì la consapevolezza che […] vive la capacità di generarsi, di creare una forma di perpetuità differente da quella immobile che il giardino dell’Eden ha elargito all’uomo e alla donna»21.

Il serpente, simbolo di rigenerazione per la sua capacità di mutare pelle, è uno degli animali che troviamo al fianco della Dea in tutta l’area Mediterranea e altre, come documenta Momolina Marconi.

Ad esempio, Medea, una dea maga, come Circe, come Elena, «incanta e fa innocui gli ofidi: è questa un’arte meravigliosa che facilmente e giustamente la avvicina a note personalità divine, ad Athena, che porta i serpi attorno all’egida e il serpe nello scudo; ad Artemis di Licosura, che li impugna, a Demeter di Figalia, che se ne orna il capo equino; ad Angizia che lascia in eredità al devoto popolo dei Marsi l’arte di renderne innocui i morsi; a Iuno Lanuvina che si iene un serpe nel suo sacro bosco». Ma la dimestichezza con quell’animale «la dimostra soprattutto la grande dea cretese, che dei serpenti è detta la signora e che ritroviamo con analoghi attributi in Egitto, in Siria, in Mesopotamia e fino alla valle dell’Indo […]»22.

La dea babilonese Tiamat, definita «Colei che diede origine a tutte le cose», assumeva la forma di serpente marino23. Altra Signora dei serpenti è Helène; «da questo carattere trae fors’anche origine la sua virtù oracolare, attributo fondamentale della Terra Madre nel grembo della quale operano le falliche energie dei serpenti, trasmettitori ai mortali dello spirito profetico di Gaia»24.

Come Elena, come Medea, esperte di erbe e incantesimi, Gula Bau, patrona delle erbe, dell’arte di guarire e dello sbocciare della vita, è accompagnata da un serpente25; parimenti lo è la dea romana della guarigione Igea26. Inoltre, per la complessità della simbologia, non si può trascurare il serpente avvolto al sacro omphalos di Gaia27. Di questo, Pausania scrive (X, 16, 2): «Quel che gli abitanti di Dodona chiamano omphalos è fatto di pietra bianca e si ritiene che occupi il centro della terra». Varrone, in De lingua latina (VII, 17), ricorda una tradizione per cui l’omphalos sarebbe la tomba del serpente sacro di Delfi, Pitone. Sovrapponendosi all’antico culto di Delfi, Apollo estese la sua signoria alla sacra pietra e nei suoi pressi compì una purificazione28.

Tutti questi aspetti, che non sono in contraddizione tra loro, indicano che l’omphalos occupa il luogo sacro per eccellenza. Rohde e la Harrison credono che l’omphalos rappresentasse in origine la pietra funebre posta sulla tomba29. Inoltre, la simbologia del centro implica che in esso ci sia l’incontro del mondo dei vivi, di quello dei morti, di quello degli dei, per questo il luogo che ospita l’omphalos è anche una sede privilegiata per l’attività oracolare. Sappiamo, d’altro canto, che secondo le credenze degli antichi europei la tomba è anche luogo di rinascita, quindi le energie che ne scaturiscono sono energie di rinnovamento: in questo senso avviene la purificazione.

Il fatto che l’omphalos venga citato in riferimento a un oracolo rimanda alla sapienza oracolare della Terra. Gaia è, fra le sue molteplici epifanie, la grande quercia di Dodona, prima che ne fosse spodestata da Zeus30; è la prima voce divina di Delfi, custodito dal figlio serpentiforme Pitone. In quella sede le succede Themis, anch’essa caratterizzata da un elemento arboreo. In una kylix a figure rosse del museo di Berlino, è raffigurata Themis, seduta sul tripode oracolare, che porta nella mano destra un ramoscello; di fronte a lei Aigheus che la interpella. Nel mezzo, una colonna che fa pensare a quelle stalagmiti che rendevano le grotte sacre alla Potnia31.

Infatti i primi siti oracolari potrebbero essere state grotte e crepacci; «sappiamo che oracoli ctoni esistettero a Olimpia e a Delfo, e Pausania ricorda un oracolo ad Aigai, in Achea, ove le sacerdotesse di Ge predicevano l’avvenire sull’orlo di un crepaccio. Ed è inutile ricordare il grandissimo numero di ‘incubazioni’ compiute dormendo per terra»32. Da questi riti emerge la signoria della Terra sul sogno, che Euripide ricorda in Hekàbe («O Terra veneranda, madre dei sogni dalle ali nere!») e in Ifigenia Taurica («La terra notturna partorì le forme dei sogni»)33.

Rimanendo ancora un poco sul tema del potere profetico di Gaia, è opportuno considerare un particolare aspetto della dea, la sua forma di Ape, che troviamo principalmente a Creta e in Libia: «Melissa dalla testolina di donna e dal corpo bruno dorato»34. Ma è possibile trovare altre tracce: «L’epifania della Dea come ape è incisa sul cranio di un toro scolpito in osso del sito Cucuteni di Bilezezlote, risalente al 3500 a.C., ma la tradizione della sua epifania come ape o farfalla era già vecchia di migliaia di anni». Inoltre «varianti dell’immagine ape/donna continuano nei periodi Proto-Geometrico, Geometrico e Arcaico di Grecia»35. Per Marija Gimbutas, l’ape è simbolo di rigenerazione, cosa che l’accomuna ai serpenti; questa affinità è sottolineata dal fatto che a volte le Gorgoni hanno teste di api, anziché avvolte da serpenti36. Nel suo potere di tornare in primavera e portare rinnovamento alle forme di vita, Persefone può chiamarsi melitòdes e, in Erice, ad Afrodite è dedicato un alveare d’oro.

Melissa è nutrice di Zeus in una caverna del monte Ida, mentre, secondo un mito cretese, i Cureti lo proteggevano con le loro danze. (Da ricordare che i Cureti furono generati dallo stesso monte Ida, quando Rea, in preda alle doglie, si appoggiò per terra). Ma l’Ape condivide con la Potnia un’altra importante prerogativa. Scrive Pestalozza: «Le Thriai, api divine, fermano il volo sul Parnasso a inaugurarvi il primo esercizio di virtù profetica. E non è certo un caso che solo quando abbiano gustato la dolcezza bionda del miele – spiega Apollo a Hermês – esse si sentano orgiasticamente possedute dalla volontà di leggere negli eventi futuri; come non è a caso che l’antro sacro di Delfi venga scoperto da un Cureta pastore, il quale ricollega la Focide col mondo minoico e col culto dell’Ape; e che la profetessa dell’oracolo – lo sappiamo da Pindaro – sia chiamata l’Ape delfica, Melissa Delphis»37.

Est Mihi Fecundus Dotalibus Hortus In Agris

Tra i tanti aspetti che caratterizzano il culto della Terra, non si può sottovalutare la funzione simbolica del giardino, che fa da sfondo, con i suoi alberi da frutto, le sue erbe magiche, i suoi aromi e i suoi amori a numerosi miti che hanno lasciato una profonda impronta nelle successive concezioni religiose.

Il giardino, infatti, espressione sublimata delle forze rigeneratrici della natura, è connaturato alla Dea mediterranea, la cui signoria «ha il suo centro iniziale […] nel dominio sugli alberi, gli arbusti, i fiori, le erbe, a cui [essa] si sente abitualmente così vicina, così intima, che nel mondo minoico e in quello miceneo […] accanto alla propria manifestazione antropomorfa essa predilige la epifania arborea…»38. Predilezione che, come vedremo, si estende oltre i confini di quel mondo.

Il giardino mitologico, spesso recintato e protetto, oppure semplicemente prato o radura, è custodito da animali dai grandi poteri o appartiene a grandi dee.

A quel tempo un albero, un albero soltanto, un albero dell’huluppu
fu piantato sulle rive dell’Eufrate.
L’albero fu allevato dalle acque dell’Eufrate.
A vortice si erse il Vento del Sud, mordendo le radici e addentando i rami
finché le acque dell’Eufrate lo strapparono via.
Una donna che andava, timida della parola del Dio del Cielo, An,
che andava, timida della parola del Dio dell’Aria, Enlil,
strappò l’albero al fiume e parlò:
«Porterò quest’albero a Uruk.
Pianterò quest’albero nel mio giardino sacro»39.

«Che perfino alle soglie dell’Ade […] – scrive Momolina Marconi – un bosco sia sacro a Persefone e lo sia un prato d’asfodeli non deve meravigliare, ché proprio sul prato in fiore la dea visse il suo grande momento di teleia, maturazione»40. Già gli antichi sumeri consideravano il giardino il luogo eletto per le unioni sacre: in un inno, Dumuzi si rivolge a Inanna:

Sorella mia, mi recherò con te nel mio giardino,
Inanna, mi recherò con te nel mio giardino.
Mi recherò con te nel mio frutteto.
Mi recherò con te presso il mio melo.
Là pianterò l’amabile mio seme ricoperto di miele.

Risponde Inanna:

Io mescei piante dal mio grembo
piante gli posi innanzitutto…
messi mescei dal mio grembo41.

L’incontro d’amore tra Hera e Zeus avvenne sull’erba: Zeus «afferrò tra le braccia la sposa e sotto di loro la terra divina produsse erba tenera e loto rugiadoso e croco e giacinto morbido e folto; su questa si distesero, si coprirono di una nuvola bella d’oro che rugiada lucente gocciolava»42. Possiamo affermare che l’unione tra due esseri divini, per i popoli mediterranei, ha il potere di suscitare energie fecondatrici, come la Terra stessa: «La concezione mediterranea della sessualità, così vicina a quella delle società primitive, dominata dalla coscienza matriarcale, quando essa operi in un ambito sacro, comporta sempre […] una dimensione cosmologica; una solidarietà mistica la lega a tutte le altre forze creatrici, che vivificano e rinnovellano il cosmo. Si comprende allora che l’azione divina […] possa venire accompagnata e rafforzata dalla sessualità collettiva in occasione appunto delle feste della vegetazione […] e che l’orgia coi suoi eccessi sia pienamente giustificata nello spirito dei celebranti dalla certezza che assimila le singole unioni alla mixis della Terra Madre al proprio figlio e paredro…»43. In questo senso, le nozze sacre costituiscono un atto di rinnovamento, strettamente collegato al culto della Terra.

I primi reperti storici riguardanti questo rito risalgono all’incirca al 3000 a.C. e provengono dalla civiltà sumera. Secondo Marija Gimbutas l’origine è più antica e se ne possono trovare tracce in tutto il sistema religioso dell’Europa Antica44. Secondo Pestalozza, il rito, noto a Corinto, era diffuso nell’Asia Minore, nell’Armenia, nella Mesopotamia, nella Siria, nella Fenicia, nella Palestina, in Cipro, fino all’India anaria, di Mohenjo Daro e di Harappa45. Risulta che, in alcuni periodi della loro storia, sia stato celebrato anche dalle tribù israelitiche.

Il rito veniva celebrato da sacerdotesse (che rappresentavano la dea) e sacerdoti (che impersonavano il dio annuale) o da coppie reali, che lo compivano a beneficio dei propri sudditi. Successivamente veri e propri collegi di prostitute sacre danno un carattere permanente di istituzione religiosa. Tuttavia la testimonianza di Erodoto sui culti di Babilonia e i riferimenti del Vecchio Testamento sulla prostituzione sacra praticata durante il periodo dei Re, fanno pensare che in epoche tarde anche persone comuni prestassero servizio presso il tempio come officianti delle unioni sacre.

Ma torniamo ai giardini: «Est mihi fecundus dotalibus hortus in agris»46; così la signoria sul giardino è rivendicata da Flora, mentre di Feronia è detto: «Viridi gaudens luco» e un lucus era consacrato ad Angizia nei pressi del lago Fucino47.

La grande dea Hera ricevette dalla Madre Terra un melo come dono di nozze e lo piantò nel proprio giardino, alle pendici del monte Atlante. Dal canto suo Ecate, signora delle maghe invocata da Circe e da Medea, aveva in Colchide un giardino in una radura boschiva48. E Afrodite Urania, ad Atene, era venerata con un particolare culto, incentrato sul kepos, il suo giardino. Anche la dimora di Calipso era descritta circondata da boschi e «intorno alla grotta profonda si distendeva una vite domestica, florida, feconda di grappoli. Quattro polle sgorgavano in fila, di limpida acqua, una vicino all’altra, ma in parti opposte volgendosi. Intorno molli prati di viola e di sedano erano in fiore, a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardano, e godere nel cuore»49. Da ricordare che Calipso è anche ‘Signora della caverna’, al pari di Kybele, la grande dea anatolica50.

La Potnia, scrive Pestalozza, è «autonoma, assoluta, imperiosa signora del mondo vegetale», oltre che di quello animale, del regno minerale e degli umani, per cui sprigiona divinamente «il proprio istinto vitale di generatrice inesausta».

Questa signoria è ‘naturalmente’ connessa a un altro potere: la conoscenza delle segrete virtù delle piante, soprattutto di «certe pianticelle erbacee, a cui noi diamo il nome di ‘semplici’ e di cui particolarmente la dea compone i suoi chiusi giardini, quelli che saranno in seguito i Kêpoi di Aphrodite, di Hêra, di Artemis, di Hekate»51. Senza dimenticare Hygyeia, «dea doppiamente legata alla terra e per le sue arti sanatrici e per i suoi rapporti col serpente»52.

Con quelle piante, la dea stessa prepara phàrmaka, per rendere innocue e dominare le belve, per donare salute a tutte le specie animali, per le malattie degli uomini, per preservarli dai morsi insidiosi dei serpenti «che a lei si avvicinano docili, lambendole le mani ed il volto, e si avvolgono in molteplici spire intorno al suo corpo divino»53. Phàrmaka per risolvere i problemi delle donne, per renderle feconde, aiutarle nel parto e nell’allattamento, come testimoniano i ritrovamenti del Santuario di Hera alla foce del Sele54. Infine, cito ancora Pestalozza, «phàrmaka operanti in una particolare e caratteristica sfera d’azione: quella delle metamorfosi, che rappresentano uno fra i più insigni poteri della grande dea mediterranea»55.

Tali ‘rimedi’ non vanno intesi come medicine, ma contenenti «una forza per sé misteriosamente efficace», che la Potnia conosce e governa e con cui opera, quale maga divina. Come Iside «esperta di tutti i succhi, di tutti i balsami, di tutti i filtri, di tutti i gesti, di tutte le formule, di tutti gli incanti»56; come Dêmêter, come Kirke.

Accade, però, che a varie dee phramakides viene preposta la divinità solare, in qualità di padre (Kirke e Pasiphae) o di sposo. È la prima incrinatura nella concezione della dea mediterranea, precedentemente signora suprema «nella perfezione della sua imperiosa e gelosa autonomia», anche se passa nel mondo ellenico, conservando le sue caratteristiche più note57.

Dea Sancta Tellus…

Nonostante il progredire della visione patriarcale del cosmo, ciò che rende santa la Terra, il suo potere di generare e preservare la Vita, continua a essere riconosciuto e venerato fra popoli di cultura diversa. In particolare è ricordata la sua signoria sulle piante medicamentose. Ce ne dà testimonianza Robert Graves che, nella sua opera “La Dea bianca”58 riporta una preghiera trovata in un erbario inglese del XII secolo.59

La preghiera recita:

Terra, dea divina, Madre Natura,
che generi ogni cosa
e sempre fai riapparire il sole di cui hai fatto dono alle genti
[…] e doni nutrimento alla vita con la tua eterna promessa;
e quando lo spirito dell’uomo trapassa è a te che ritorna.
A buon diritto invero tu sei detta Grande Madre degli dei…

Questa invocazione, che mostra la Terra signora dell’intero ciclo della vita e della morte, è seguita da una supplica rivolta ai poteri risanatori delle erbe:

Ora io intercedo presso voi tutti, poteri ed erbe,
presso la vostra maestà: vi supplico,
voi che la Terra madre dell’universo ha generato
e dato come medicina per la salute di tutte le genti
e su cui ha imposto la maestà,
siate ora supremamente benefici al genere umano…

L’aspetto rilevante di questo testo, che richiama i fondamenti del culto della Pontia mediterranea, è che esso segue da vicino la Praecatio Terrae Matris e la Precatio omnium Herbarum, che si trovano nella Antologia Latina e che si suppone risalgano alla prima metà del III secolo dopo Cristo.60

La prima preghiera è rivolta alla “Dea sancta Tellus”, genitrice della natura, che tutte le cose generi e rigeneri,

[…] o dea che reggi il sole e il mare e tutte le cose
[…] Tu ci dai il nutrimento vitale con lealtà immutata
e, quando l’anima si allontana da noi, in te ci rifugiamo,
così tutto ciò che concedi in te tutto ritorna. […]
Giustamente ti chiamano Grande Madre degli dei […]
tu sei la vera genitrice degli uomini e dei divini […]
Le erbe, tutte quelle che la tua potenza fa crescere,
le concedi a tutte le genti per la loro salvezza;
donami ora questo medicamento…

Segue la preghiera alle erbe, che inizia così:

Nun vos, potentis omnes herbas, deprecor
Maiestatemque vestram, quas Tellus parens
generavit atque gentibus cunctis dedit…

Non ci sono dubbi che all’ignoto autore del XII secolo siano state trasmesse queste preghiere, che, a loro volta, ne richiamano altre provenienti dal mondo ellenico o preellenico.

Penso all’inno omerico “A Gea” (XXX)

Gea io canterò, la madre universale, dalle salde fondamenta,
antichissima, che nutre tutti gli esseri […]
Grazie a te gli uomini sono fecondi di figli, e ricchi di messi
signora; è in tuo potere dare o togliere la vita
agli uomini mortali…

o all’inno orfico:

O dea Gaia, madre dei celesti e degli uomini mortali,
che tutto nutri e tutto doni e conduci a buon fine e tutto distruggi
dimora del mondo immortale, vergine multiforme […]
che ami le fresche erbe odorate…

Questi testi costituiscono solo alcune delle espressioni di una intuizione religiosa così potente, da presentare forti elementi di continuità attraverso lo spazio e il tempo, anche se si devono registrare numerose e a volte distruttive fratture.

II

Le prime fratture simboliche

L’affermazione della struttura patriarcale della società è stata accompagnata da una serie di capovolgimenti simbolici volti a sminuire il prestigio della Dea e delle sue sacerdotesse, se non ad annientarlo.

Questo avviene, nell’area culturale che stiamo esaminando, soprattutto con l’arrivo dei Dori in Grecia e con la conquista di Canaan da parte di tribù semite Jahviste.

Scrive Momolina Marconi, che ha analizzato la trasformazione della grande Potnia preellenica in divinità subalterne all’ordine olimpico, nei cui ruoli parcellizzati restano solo gli echi dell’antica potenza:

«Il passaggio dalla civiltà mediterranea a quella micenea non è né brusco né buio; […] Un passaggio spiccatamente brusco e buio lo si sente invece con l’avvento dei Dori, barbari senza remissione; […] Una rivoluzione insomma che, se non inavvertita già prima, esplode certo con loro.»

Marconi ricorda il mito di Atena, «alle origini ospite di Eretteo nel palazzo principesco simile a quei di Creta, signora nel senso più lato del termine. […] Ma a un certo momento il mito si impenna per rifarsi alle origini di Atena, e alla maniera achea ne vien fuori quella mostruosità che è Zeus partoriente dal capo la figlia già in armi. Questo dio […] significa in sostanza guerra guerreggiata alla donna in nome degli Arioeuropei invasori».61

Riguardo alle trasformazioni nell’ambito culturale semitico, su cui si tornerà più avanti, Joseph Campbell descrive un interessante documento: un sigillo mostra due donne divine, identificate con la duplice manifestazione della dea akkadica Gula-Bau, che, all’interno di un giardino, offrono a una mortale i frutti dell’albero sacro; una falce lunare si trova proprio sopra il frutto offerto; sono presenti anche due uccelli presumibilmente acquatici, a sottolineare l’elemento liquido, che riveste una grande importanza in questo complesso mitico.

«In questo sigillo – commenta l’autore – non si trova segno di collera divina né di minaccia. Non esiste il tema della colpa. Il dono della conoscenza si trova lì, nel santuario del mondo e deve solo essere colto.» La sua argomentazione conduce al confronto con i primi capitoli del Genesi, per sottolineare, nel racconto biblico dei mito di Eva, il netto spostamento di visuale.62

Tuttavia testimonianze di scontri tra l’ordine simbolico patriarcale e l’antico potere della Dea si possono trovare anche nei più antichi miti della grande dea sumera Inanna e nelle gesta del dio akkadico Marduk.

Shukallituda stupra la Dea

La Signora di Uruk, Inanna, è stata probabilmente la dea più a lungo venerata dal popolo sumero. Nelle rappresentazioni risalenti al IV millennio appare come una dea della vegetazione e delle greggi.63 Il suo simbolo era un fascio di giunchi, il suo sposo, Dumuzi, il pastore regale che proteggeva le sue greggi sacre.64 Nel III millennio Inanna, il cui nome si traduce letteralmente “Signora del cielo”, diventa una figura più complessa: nell’ambito della divisione del Cielo e della Terra, la dea condivide le prerogative degli dèi uranici, in qualità di “Prima figlia della Luna” e, secondo alcuni miti, quale sposa di An, l’antico dio del Cielo; come Stella del Mattino e della Sera, governa l’alternarsi del giorno e della notte. Tra i miti più ricordati, è la discesa di Inanna agli Inferi, regno assegnato alla grande dea Ereshkigal: un insieme di racconti in cui si ritrovano gli aspetti della dea nuda arcaica, patrona del ciclo vita-morte-rinascita e del dio Toro, suo amante.

Dopo la lotta col dio Enki “Signore di tutto ciò che è sotto”, collegato alla dea primordiale Nammu, Inanna conquista i ‘me’, termine sumero che viene interpretato come «un complesso di regole e di limiti universali e immutabili, che andavano osservati tanto dagli uomini quanto dagli dei»65 e, con essi, il potere di Signora del Cielo e della Terra, nonché di Regina degli dèi.

Si comprende pertanto la portata del conflitto, che si può dedurre da una lettura approfondita del mito che segue, tra la visione del mondo relativa al culto di Inanna e quella patriarcale che si va affermando.

Si racconta che il giardiniere Shukallituda, rivolgendo la sua attenzione al cielo, imparò a decifrare i segni e a comprendere le leggi divine; in tal modo trovò il modo di proteggere, sotto l’ombra di grandi alberi piantati allo scopo, gli ortaggi che altrimenti sarebbero avvizziti.

Un tempo che Inanna era in viaggio sulla terra, si fermò a riposare presso il suo giardino e Shukallituda approfittò dell’oscurità della notte e della stanchezza della dea per abusarne durante il sonno.

Al mattino la Signora, sofferente per la violenza subita, «riempì di sangue tutti i pozzi del paese» nell’intento di scoprire l’autore dell’empio gesto…

La tavoletta sumera che narra questa storia è incompleta, ma è stato trovato un altro frammento che riferisce della condanna a morte del giardiniere.66

Questo racconto è una vera e propria rivelazione, peccato sia stato poco commentato dagli studiosi. A mio parere rivela che il popolo delle ‘Teste nere’ fu consapevole, e ce lo tramanda col linguaggio del mito, che strappare i segreti al Cielo, al di fuori di una norma, e, in conseguenza di ciò, modificare gli equilibri della terra, è un abuso paragonabile allo stupro della dea più venerata del pantheon mesopotamico. Inanna impersona nel mito la Signora della Natura, nell’aspetto dello Spirito vitale che attraversa la terra «da Elam a Shubur» e che può scatenare eventi terrificanti per punire l’oltraggio subito.

Dalla narrazione sembra trasparire lo scontro tra il culto della Terra e delle dee che ne governano la fertilità, scendendo tra gli uomini nei giorni rituali, e la nuova religione (prevalente fra le popolazioni di origine pastorale, che si affermano nel II millennio a.C.) che scrive negli astri, e nei loro movimenti regolari, obbligati e prevedibili, il destino immutabile degli uomini e della natura, sulla cui conoscenza può fondarsi il progetto del potere.

In nessun luogo la sacralità del giardino era intesa in una dimensione cosmica come a Sumer; esso era strettamente collegato al rito del matrimonio sacro, l’atto che richiamava le energie creative sulla terra e su tutti gli esseri viventi, e che aveva il significato profondo di purificazione e rigenerazione.

La vendetta di Inanna non solo richiese la morte del giardiniere, ma si estese a tutta la terra di Sumer e fu tremenda, come le piaghe d’Egitto.

Il mito si conclude con un tentativo di addolcire la punizione da parte della stessa Inanna: nel frammento che riporta la condanna a morte del giardiniere, si legge la promessa che il suo nome verrà ricordato dal menestrello di corte.

Si vuole sottolineare la misericordia della Dea o il riconoscimento che il gesto non può più essere cancellato?

Infatti la profanazione viene ripetuta nel mito e nella storia. Si può qui ricordare che Aiace Oileo stuprò Cassandra nel tempio di Atena, dopo la caduta di Troia67: Cassandra era una sacerdotessa e, benché consacrata ad Apollo, che si era già impadronito del potere della profezia, si narra che avesse ricevuto il dono del tocco di un serpente, animale sacro della Madre Terra.68

Nella letteratura greca numerosi sono i racconti di inseguimenti e aggressioni di Ninfe da parte di dèi ed eroi; il più noto è il tentativo di Apollo di possedere Dafne, sacerdotessa della Madre Terra, che Robert Graves interpreta come la trasposizione mitica della «conquista ellenica di Tempe dove la dea Dafne era venerata da un collegio di Menadi orgiastiche masticatrici di foglie di alloro».69

Inanna e la montagna Ebih

Il conflitto che appare nella storia di Shukallituda, diventa più evidente nello scontro tra Inanna e la Montagna Ebih.

Nel libro «Inanna, Signora dal cuore immenso»,70 Betty De Shong Meador ha pubblicato e analizzato tre inni dedicati alla Dea sumera dalla sacerdotessa Enheduanna, figlia di Sargon.

La sacerdotessa, vissuta nella seconda metà del III millennio a.C., pur educata in ambiente semitico, esprime profondamente lo spirito religioso degli antichi Sumeri, per i quali «il precetto della fusione della natura col divino fu un presupposto vitale».71 Nei suoi versi la figura della dea personifica la natura, con le sue contraddizioni e la sua complessità, a volte benigna, a volte distruttiva.

Nel primo dei tre inni è celebrato lo scontro vittorioso di Inanna con la Montagna Ebih, che non si piega all’autorità della dea. I suoi «picchi frastagliati […] tagliano la volta blu del cielo, gli alberi, carichi di frutti a maturazione, si ergono lussureggianti nelle sue pendici…»72, gli animali pascolano fianco a fianco senza rivalità né ferocia: appare una realtà del tutto estranea all’ordine naturale. Di fronte a questa manifestazione di potenza gli déi sono atterriti e An, l’antico signore del Cielo, a cui Inanna chiede aiuto, dichiara: «Io sono colpito dalla paura di fronte al loro abbondante splendore. Io non andrò là con te».73

Ma Inanna, che indossa «le vesti degli antichi, antichi déi»,74 che «esce dalle montagne come il primo serpente»75, il serpente primordiale, affronta la Montagna Ebih con tutta la sua forza distruttiva e la sconfigge.

Dal commento all’inno di De Shong Meador, riporto alcune considerazioni76: Inanna trae i suoi poteri dalla forza della Natura e ne rappresenta la mutevolezza, mentre Ebih vuole realizzare un mondo ordinato che sfida le leggi naturali. «L’allontanamento di An da Inanna segna l’inizio di una divisione potente. Ebih e An ripudiano la tensione tra i cicli paradossali di Inanna di oscurità e luce, bramando invece la dolce estasi dell’abbondanza eterna. Ciò che è oscuro va allontanato». E con esso sarà allontanato «il principio femminile del divino nella materia».

L’autrice nota che «Collocando An al centro del cambiamento, Enheduanna implica che in ambito della paternità sta avvenendo una trasformazione rivoluzionaria […] Dal mondo maschile del padre autoritario, qui chiamato An, emerge che sia possibile alterare o controllare i processi della natura». La trasformazione è portata a compimento nel mondo ebraico «Nel I millennio a.C. il dio ebreo sviluppò un carattere monoteistico […] Questo dio non apparteneva al mondo della natura, ma ne era separato e la trascendeva; lo caratterizza l’uso della sua volontà e la natura che risponde al suo comando […] Lo scorrere della vita nella materia diventa secondario sotto il controllo di questo dio onnipotente, completando così la spaccatura tra natura e dio».77

L’uccisione del Serpente

Nella tomba di un bambino scoperta a Malta, insieme con venti statuette femminili si trova un complesso di simboli riferibili al culto della Dea; Joseph Campbell ritiene che «Tutte queste cose trovate in una singola tomba […] ci parlano della presenza di una mitologia sviluppata nel tardo paleolitico, nella quale la dea della rinascita spirituale era già associata ai simboli del molto più tardo culto neolitico di Ishtar-Afrodite: l’uccello, il pesce, il serpente e il labirinto».78 Parimenti, Marija Gimbutas riporta l’immagine di un corno paleolitico superiore che reca inciso un serpente con uccellini, piante e una linea tripla, «il che fa pensare a un impiego in un rituale primaverile celebrante la crescita rigenerativa».79 «La profonda connessione tra l’uccello acquatico e il serpente, e tra la Dea Uccello e la Dea Serpente, continuò lungo tutta la preistoria fin nei tempi storici. Nell’antica Grecia, gli attributi di Atena sono uccelli e serpenti. Vi è uno stretto rapporto tra le due dee più importanti Atena e Hera, quest’ultima probabile discendente della Dea Serpente».80

Hera e Atena sono però associate anche all’albero: in un rilievo rappresentante “La fucina di Vulcano”81 si vedono le due dee con i simboli del loro potere; alle spalle di ciascuna è ben visibile l’albero che le è sacro.

Il complesso albero-uccello-serpente-labirinto (se si ammette che il giardino abbia lo stesso valore simbolico del labirinto-spirale) è presente nel mito dell’albero di Huluppu, custodito da Inanna nel suo giardino, in quanto «un serpente restio a ogni incantamento fece il suo nido nelle radici dell’huluppu, l’uccello Anzu insediò i suoi piccoli tra i rami» e il legame con la divinità più arcaica è sottolineato dalla presenza di Lilith.82

«Il legame del serpente con la sfera del femminile, specialmente con la Dea madre (Signora della Terra, degli animali selvatici e della fertilità), deriva dal suo movimento terrestre vitale e ritmicamente ondulatorio; la forma lo connette particolarmente con l’energia sessuale; e il suo periodico rinascere, mutando pelle, lo lega al ciclo lunare. Il serpente incorpora il potere di rigenerazione delle acque, governate dalla luna, e le energie latenti nel corpo della terra.»83

Tutta questa premessa, per meglio inquadrare il significato dei vari miti che narrano l’uccisione del Serpente e che, in certi casi, assumono il valore di uno scontro tra diverse concezioni del cosmo.

La Dea madre dell’Universo, Nammu, era indicata dai Sumeri con un ideogramma che significa “mare” e invocata come «Madre che ha partorito cielo-e-terra». Un mito racconta che quando Cielo-e-Terra emerse dal Mare primordiale, aveva la forma di una montagna, la cui base, Ki, era femminile e la sommità, An, era maschile; questo essere duale partorì il dio dell’aria, Enlil, che ne separò le due metà.84

Nella tradizione babilonese Nammu appare col nome semitico di Tiamat ed è definita «Colei che diede origine a tutte le cose».

L’uccisione della dea Tiamat, sconfitta in battaglia insieme con il suo sposo dalle sembianze di serpente dal dio guerriero Marduk, è l’avvenimento mitico posto a fondamento dell’edificazione di Babilonia; per questa sua impresa il dio venne ricompensato dal conclave degli dèi col potere di rendere immutabile qualunque cosa da lui creata. Parallelamente, con il sacrificio della colomba, tagliata in due parti, Marduk istituì il nuovo rituale delle feste babilonesi di primavera.85

L’uccello e il serpente, di nuovo insieme, sono espressione di un ordine cosmico organico alla concezione ciclica del tempo, a cui neanche gli dèi potevano sottrarsi, ma che il pantheon babilonese distrusse, decretando l’immutabilità per l’opera del divino guerriero. Ricordando che la colomba e il serpente sono simbolicamente collegati alla luna, norma e misura dei cicli vitali, si può dunque pensare a un ordine ‘lunare’, contrapposto a un ordine ‘solare’ in cui il tempo si dispiega linearmente e il potere regale diviene dominio assoluto.

Marduk diventa l’archetipo del monarca assoluto, rappresentante sulla terra dei poteri del Dio Sole, «la cui luce è eterna e scaccia ombre, demoni, nemici, ambiguità». Non più Toro celeste, amante della Dea, egli si sottrae ai ritmi della natura e al destino del passaggio rituale nel regno della Signora degli Inferi, grazie a un’azione violenta e distruttiva, «per favorire l’azione nel campo del tempo, dove il soggetto e l’oggetto sono in effetti due, separati e non la stessa cosa, dove A non è B, la vita non è la morte, la virtù non è il vizio e l’uccisore non è l’ucciso».86 «Con lo spostamento dal piano della Madre, a quello dei figli, il senso dell’identità fra vita e morte scompare, insieme con quello del potere della vita di riprodurre le sue stesse forme».87 Il serpente era stato il simbolo «dell’oscuro mistero del tempo che riduce in polvere le opere dell’eroe: la forza […] che non muore mai, che muta le vite come le pelli e che fa girare ogni cosa nel circolo dell’eterno ritorno, in cui tutto si ripete per sempre e non giunge mai a una meta definita. Contro il simbolo di questo potere eterno si pose il principio guerriero dell’azione individuale […] che, per un certo periodo, si sovrappose alle antiche fedi e civiltà».88

Ma «il potere della dea madre, che qui abbiamo visto diffamata, insultata e uccisa dai figli, rimane come una minaccia onnipresente al loro sistema razionale, fondato su una terra che essi considerano morta, ma che è sempre viva e vitale».89 In un cippo babilonese del XII secolo a.C., raffigurante i livelli cosmici, un grande serpente sviluppantesi lungo la stele piega la testa sulla sommità della struttura per farla spuntare sopra la coppa che simboleggia la luna; «il rettile simboleggia le acque generatrici primordiali, che circondano l’universo, lo sostengono dal basso e si riversano su di esso sotto forma di pioggia dall’alto». Il serpente si innalza dalle spalle della dea Gula e, benché la gerarchia delle potenze divine sia chiaramente dominata dall’ordine guerriero, esso sta a ricordare ai mesopotamici la loro antica madre Nammu.90

La lotta contro un serpente o un mostro serpentiforme si ripete in numerosi miti dell’età del ferro, quando si afferma la dominanza della divinità maschile.

Jahve ha «fatto a pezzi Rahab», «trafitto il drago» (Isaia 51, 9) o, con altra denominazione, punisce «con la spada dura, grande e forte il Leviatan serpente guizzante, il Leviatan serpente tortuoso» (Isaia 27, 1).

Zeus affrontò e uccise Tifone, il figlio che la Madre Terra concepì con Tartaro, per vendicarsi dell’eccidio dei Giganti.91

Particolarmente significativo è il mito di Apollo, che combatté contro Pitone, figlio partenogenetico di Hera e lo uccise dinanzi al sacro crepaccio del Tempio di Delfi. Si impadronì poi dell’oracolo delfico, consacrato alla Madre Terra e ne costrinse la sacerdotessa a servirlo.92 Graves interpreta questo mito come la sconfitta, da parte di una popolazione ellenica del nord, delle tribù preelleniche seguaci della Madre Terra.93

Ancora una volta vediamo un dio solare che prevale sull’antico culto: un ulteriore passo verso la riduzione della realtà alla contrapposizione tra logos ed eros, tra mente e corpo, tra razionalità e consapevolezza intuitiva. «Nei precedenti miti e riti materni, gli aspetti luminosi e oscuri di quella mescolanza che è la vita erano ugualmente onorati. Invece, nei successivi miti patriarcali, orientati in senso maschile, tutto ciò che era buono e nobile fu attribuito ai nuovi dei eroici, mentre ai poteri della natura fu lasciato ciò che era oscuro, cui fu dato anche un valore etico negativo.94

Il processo, che si sviluppa gradualmente, non è senza contraddizioni. Gli antichi simboli e, a volte, gli antichi riti, subiscono dei mutamenti di significato, ma non perdono il loro potere evocativo.

(FINE PRIMA PARTE – SECONDA PARTE – CONTINUA)

Di Anna De Nardis

Anna De Nardis, saggista, già insegnante di fisica, ha unito la ricerca di modalità di indagine della natura allo studio del simbolismo religioso. È una delle maggiori conoscitrici di Momolina Marconi e della sua vasta produzione.

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NOTE

1Pestalozza Uberto, Eterno femminino mediterraneo, Neri Pozza, 1996, p. 25
2Gimbutas Marija, Le dee viventi, Medusa, 2005, p. 33
3Ibidem, p. 52
4Ibidem, pp.62-3
5Gimbutas M., Il linguaggio della Dea, Milano, Longanesi, 1990, p. 183.
6Wolkstein D. –Kramer S. N., Il mito sumero, Milano, Jaca Book, 1985, p. 100.
7Ninti appare come uno dei molteplici aspetti della Dea, che continuamente si rinnova.
8Da Göttner-Abendroth H., Die Göttin und ihr Heros, München, 1984 (riportato in Gaube K., Von Pechmann A., Teologia femminista, Atanor, 1992).
9Eliade Mircea, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, 1976, pp. 294-95.
10Schmokel H., I Sumeri, Firenze, Sansoni, 1959, p. 219.
11Parallelamente, la vite era sacra anche alla dea anatolica Kibele (si veda Marconi Momolina, «Il santuario di Hera alla foce del Sele», in Da Circe a Morgana, Roma, Venexia, 2009, p. 138).
12Eliade M., Trattato, p. 294.
13Ibidem.
14Plutarco, Iside e Osiride, Milano, Adelphi, 1985, p. 58.

15Scarpi Paolo (a cura di), Le religioni dei Misteri, vol. II, Milano, A. Mondadori Editore, 2002, p. 231

16Loewenthal Elena, Eva e le altre, Milano, Bompiani, 2005, p. 109.

17Graves R., Patai R., I miti ebraici, Milano, Ed. Euroclub Italia, 1997, p. 58.

18Ibidem, p. 67.

19Monaghan Patricia, Le donne nei miti e nelle leggende, Milano, red Edizioni, 2004, p. 166.

20Commento a Genesi di Testa E., in Bibbia, Milano, ed. Paoline, 1987.

21Loewenthal E., Eva e le altre, Bompiani, 2005, p. 114.

22Marconi M., Da Circe a Morgana, Venexia, 2009, pp. 75-6

23Graves R., I miti greci, Longanesi, 1983, p. 28.

24Pestalozza U., Eterno Femminino, p. 59.

25Campbell J., Le figure del mito, Milano, red Edizioni, 1991, pp. 88-9, 295.

26Ibidem, p. 287.

27Marconi M., Da Circe a Morgana, p. 146.

28Eliade M., Trattato, pp. 239 ss.

29Ibidem.

30Pestalozza U., Eterno Femminino, p. 24.

31Ibidem.

32Eliade M., Trattato, p. 261.

33Pestalozza U., Eterno Femminino, p. 21.

34Ibidem, p. 45. Si può vedere una sua immagine su una laminetta di Camiros (Rodi) in Marconi M., Riflessi mediterranei nella più antica religione laziale, Principato, 1939, Tav. XXXIX

35Gimbutas M., Il linguaggio della dea, p. 270.

36Ibidem, p. 207.

37Pestalozza U., Eterno Femminino, pp. 46-7.

38Pestalozza U., Pagine di Religione Mediterranea II, Milano 1945, p. 10.

39Da Wolkstein D. e Kramer S.N., Il mito sumero della vita e dell’immortalità, Milano, Jaca Book, 1985, p. 28.

40Marconi M., Da Circe a Morgana, p. 121.

41Wolkstein, Kramer, Il mito sumero, p. 47. Questo inno probabilmente faceva parte dei riti della festa di Capodanno, il cui nome sumero può essere tradotto ‘forza che fa rivivere il mondo’ (da Eliade M., Storia delle credenze e delle idee religiose, I, Firenze, Sansoni, 1979, p. 74).

42Iliade, XIV, vv. 341-53.

43Pestalozza U., Eterno femminino, p. 76.

44Gimbutas M., Le dee viventi, p. 51

45Pestalozza U., Eterno femminino, p. 64.

46Ovidio, Fasti, V, 209 ss.

47«Lucus significa propriamente ‘radura nel bosco’» (Momolina Marconi, Riflessi mediterranei, p. 312).

48Marconi M., Da Circe a Morgana, p.143.

49Odissea, V, 68-74. Tr. di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 2005.

50Pestalozza U., Eterno femminino, p. 29.

51Pestalozza U., Pagine, p. 10 ss.

52Marconi M., Da Circe a Morgana, p. 143.

53Pestalozza U., Pagine, pp. 12-13,

54 Marconi M., Da Circe a Morgana, p. 69 ss.

55 Pestalozza U., Pagine, p. 13.

56 Ibidem, p. 16.

57 Ibidem, p. 20.

58 Graves R., La dea bianca, Adelphi, 1992, pp. 84-5

59 Brit.Mus. Ms Harley 1585, ff.12v-13r

60 Il testo si trova in Duff, Minor latin poets, Loeb Classical Library, pp. 28-9, e mi è stato segnalato dal Prof. Roberto Gagliardi, che ne ha curato la traduzione.

61 Marconi M., Da Circe a Morgana, pagg.62-3

62 Campbell J., Mitologia Occidentale, Mondadori, 1992, p.15 ss.

63 Garbini G., in Moscati, L’alba della civiltà, vol. III, UTET, 1976, p.353

64 Schmokel, I Sumeri, p.177

65 Wolkstein D., Kramer S.N., Il mito sumero, p.101

66 Kramer S.N., I Sumeri alle radici della storia, Newton Compton, 1988, p.76 ss.

67 Graves R., I miti greci, p.652

68 Ibidem, p.579

69 Ibidem, p.70

70 De Shong Meador B., Inanna, Signora dal cuore immenso, Venexia, 2009

71 Ibidem, p.103

72 De Shong Meador B. Inanna, p.119

73 Ibidem, p.129

74 Ibidem, p.111

75 Ibidem, p.116

76 Ibidem, p.124 ss.

77 Ibidem, p.104

78 Campbell J., Mitologia primitiva, Mondadori, 1990, pp.442-443

79 Gimbutas M., Il linguaggio della Dea, p.122

80 Ibidem, p.121

81 Roma, Palazzo dei Conservatori, in Iliade a cura di Athos Sivieri, D’Anna, 1962, Tav.XXIV

82 Wolkstein D., Kramer S.N., Il mito sumero, pp.29-30

83 Cook R., L’Albero della Vita, red/studio redazionale, 1987, p.21

84 Campbell J., Le figure del mito, p.77

85 Campbell J., Mitologia occidentale, p.92 ss.

86 Ibidem, pp.91-95

87 Ibidem, p.103

88 Ibidem, p.32

89 Ibidem, p.103

90 Campbell J., Le figure del mito, pp.88-9

91 Graves R., I miti greci, p.119 ss.

92 Ibidem, p.66

93 Ibidem, p.70

94 Campbell J., Mitologia occidentale, p.29

Link fonte – http://www.matri-arke.org/2016/07/anna-de-nardis-continuita-fratture-nel-culto-della-terra-area-mediterranea/

Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

 

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