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La Redazione

 

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Fabbrica dormitorio sequestrata: la politica dei “Brand” produce sfruttamento

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A cura di Davide Amerio
Il 5 Novembre 2024
7932 Views

Di Davide Amerio per comedonchischiotte.org

 

Una fabbrica dormitorio sequestrata a Samarate, in provincia di Varese. Lavoratori cinesi albergati dentro un capannone producevano capi di abbigliamento per note marche del settore (1).

 

Il copione non è certo originale. La Guardia di Finanza intercetta, grazie a controlli incrociati, una azienda operativa da circa tre mesi, che opera nel settore della produzione di capi d’abbigliamento per note griffe di alta moda.

Totale spregio delle norme igienico-sanitarie, di quelle in materia di prevenzione incendi, con relativo sfruttamento della manodopera illecita e clandestina: caporalato in piena regola. Identificati i cittadini cinesi presenti nel capannone e nel dormitorio, alcuni lavoratori “in nero”, e altri minorenni. Accertata l’assenza di qualsiasi autorizzazione necessaria per lo svolgimento dell’attività; totale assenza di qualsivoglia titolo abitativo. Struttura fatiscente posta sotto sequestro per abuso edilizio.

Pensare che situazioni come questa siano rare eccezioni è assolutamente sbagliato. A parte le eventuali responsabilità dei governi locali, bisogna inquadrare questi fenomeni nella tipologia di modello economico che non ci stancheremo mai di denunciare.

Anni or sono ebbi modo di parlare con un giovane imprenditore che aveva ereditato l’azienda del padre, proprio nel settore dell’abbigliamento, e lavorava per le grandi firme. Mi spiegò il mutamento progressivo del lavoro (anni ‘90) rispetto ai tempi in cui lavorava suo padre: oggi – mi spiegò-, produco con la mia azienda una gonna “firmata” che mi viene pagata 40 euro, mentre la stessa viene venduta nei negozi della catena commerciale a 400. In quei 40 euro – aggiunse-, ci devo fare stare tutto: costo della stoffa, ammortamento dei macchinari, stipendi, locazione dei locali, tasse varie.

Morale: tenne duro finché poté, e alla fine chiuse l’azienda licenziando la mano d’opera, in quanto con le “firme” non c’era alcun margine di trattativa.

Quante di queste storie si sono ripetute nel nostro paese? Quanti hanno ceduto e portato l’azienda all’estero per usufruire di mano d’opera a minor costo?

La notizia dell’azienda di Samarate ci illustra il nuovo confine cui è giunto lo sfruttamento delle “firme” che “producono” capi di abbigliamento costosissimi: ovvero utilizzo imprese che non si scomodano più a traslocare l’azienda, ma importano direttamente la mano d’opera da sfruttare. Stiamo parlando di quelle firme che sovente si lamentano per le produzioni “taroccate” che, a loro dire, comprometterebbero la possibilità di creare ulteriori posti di lavoro.

Possiamo allora fare alcune veloci considerazioni.

Ogni Brand ha certamente il sacrosanto diritto di veder riconosciuto, economicamente, il valore della proprio lavoro e talento. Ma quanto vale realmente la sua creazione? Come è quantificabile? Il consumatore è certamente libero di pagare quanto ritiene opportuno, per possedere un capo “firmato”: nessuno gli punta una pistola alla testa per costringerlo ad acquistare una gonna, nell’esempio, a 400 euro.

Ma questo significa che tra il valore del prodotto finito, e quello della sua commercializzazione, c’è un fattore moltiplicativo di 10. Inoltre, la “firma” pubblicizza il suo prodotto, rendendolo “desiderabile” (nel nostro caso per tutte le donne), e attribuendogli (come fa questo tipo di pubblicità) una connotazione di “status” sociale cui ambire. Sappiamo inoltre che, non di rado, il prodotto porta una firma di prestigio, mentre l’idea originale è di qualche giovane stagista pagato magari una miseria.

Avremo quindi una richiesta (desiderio), del prodotto, duplice: quella da parte di coloro che si possono permettere di spendere 400 euro per una gonna, e quella di quanti la desidererebbero ma non se la possono permettere a quel prezzo.

Il fattore di moltiplicazione tra valore di produzione e quello di commercio crea quindi un ampio margine per soddisfare la domanda di quanti non possono spendere i 400 euro. A domanda potenziale, non ci si può stupire del subentro di una “offerta” (taroccata o illegale) indirizzata a soddisfarla. È il mercato bellezza!

Prima di lagnarsi della contraffazione, bisognerebbe valutare le “conseguenze” di certe scelte commerciali; ma, in genere, i “liberal” amano il consumatore se ubbidisce alla legge del loro profitto: se si comporta diversamente – compiendo una scelta di convenienza personale-, allora gridano allo scandalo.

Nello stesso ambito di ipocrisia, potremmo far ricadere i numerosi casi in cui certi imprenditori hanno chiuso aziende prospere in Italia, per trasferire all’estero la produzione: guarda caso dove la mano d’opera ha costi inferiori, o ci si trova in una condizione di tassazione più favorevole (e qui non apriamo ora il capitolo dei numerosi “paradisi fiscali” in ambito della Unione Europea).

Possiamo però ragionare su una differenza di non poco conto che, in genere, sfugge: quella tra Liberismo e Neo-Liberismo. Esemplifichiamo la questione facendo riferimento all’economista Nino Galloni il quale, in un suo saggio, dà conto della differenza.

Nel Liberismo il “Capitalista” si attende un profitto che va da zero a una determinata cifra. Cioè è consapevole – e accetta-, che la sua azienda, sana e funzionale, a causa di circostanze economiche esterne, può produrre, in un determinato anno, pochi profitti, oppure nessun profitto. Rappresenta il caso in cui tutti i “fornitori” sono stati regolarmente pagati (compresi i dipendenti), assolti i doveri di imposizione fiscale, ma, a fine anno, il Capitalista non ha guadagnato profitti.

Nel Neo Liberismo il Capitalista può fare una scelta a priori, in base a quale profitto vuole raggiungere con l’investimento del suo capitale: può scegliere se investire nella economia “reale”, producendo beni o servizi, oppure nell’economia “finanziaria”, la quale può garantirgli lo stesso rendimento, oppure superiore (ma anche perdite, ovviamente).

Ecco come l’economia finanziaria si trasforma da “supporto” all’economia reale, in “alternativa” e in “competizione” alla stessa. Ne consegue un minor numero di investimenti in ambito produttivo, maggiore “gioco d’azzardo” a livello dell’economia nel suo complesso, e la chiusura (o il trasferimento) di aziende “sane”, ma che non garantiscono il livello di profitto desiderato dal Capitalista (o dagli azionisti).

Nella selva Neo Liberista c’è ovviamente spazio per “imprenditori” privi di scrupoli, e i casi di caporalato, come quelli degli innumerevoli incidenti sul lavoro che costano la vita a troppe persone, non si contano più. Gli appelli (anche quelli del Presidente Mattarella), per maggiori controlli, suonano piuttosto ipocriti: i controlli comportano la necessità di risorse economiche da spendere, in personale, e in strutture. Ma questo risulta impossibile all’interno di una Unione Europea che fa dell’austerità un mantra, e del vincolo di bilancio una fede cui genuflettersi.

L’esempio dell’azienda di Samarate è solamente la “punta dell’iceberg” di una economia farlocca, priva di scrupoli, e non più a misura delle persone.

Di Davide Amerio per comedonchisciotte.org

05.11.2024

NOTE

(1) = https://www.ansa.it/lombardia/notizie/2024/11/04/immigrati-cucivano-vestiti-per-alta-moda-a-8-euro-lora-in-nero_afbf30bb-0642-43ee-a92a-6174e299125e.html

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Analista di Sistemi in origine. Ho svolto lavori in diversi ambiti. Frequento il 3° anno del corso di Scienze Internazionali dello Sviluppo e Cooperazione di Unito. Sono appassionato di economia, filosofia, politica, e delle scienze sociali in genere. Ho scritto per Scenarieconomici.it, per la rivista Sovranità popolare, gestito Tgvallususa.it (oggi diventato iodubito.it) e per altri blog. Ho pubblicato con Amazon: " Saggista per caso"; "Storie di ordinaria umanità - racconti vol I"; "Movimento 5 Stelle 3.0 - dal vaffa al potenziale movimento riformatore".
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