Blues vs Jazz

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Il Triangolo d’oro degli anni che vanno dal ‘500 all’800 aveva i vertici in Europa, Africa centrale e costa sudorientale degli odierni Stati Uniti. Dall’Europa partivano navi cariche di prodotti locali (armi, liquori, stoffe etc…) che servivano come merce di scambio per acquistare gli schiavi che poi sarebbero stati trasportati nelle piantagioni americane. Quest’ultimo tratto si chiamava Middle Passage. Il triangolo si concludeva con le navi cariche di merci (pelli, cotone etc…) che tornavano in Europa. Tutto questo andirivieni aveva come scopo principale, oltre ai profitti, la riduzione in schiavitù di giovani forti da usare come manodopera nei latifondi del sud degli States.

Secondi stime prudenti si conta che l’Africa abbia perso una dozzina di milioni di giovani (cui vanno aggiunti almeno 4 milioni di morti per stenti) e abbia subito la distruzione di interi sistemi economico-sociali per fornire manodopera agli States. L’atteggiamento degli schiavi africani (e non solo loro) è la chiave di lettura dei processi sociali e musicali che tenterò di illustrare.

Messi di fronte al fatto compiuto (la riduzione in schiavitù), gli afroamericani hanno per lo più adottato il sistema di vita made in USA, ovvero l’applicazione generalizzata del destino manifesto: chi è in posizione di potere dimostra di essere più vicino a dio rispetto a chi non lo è.

Dovendo semplificare: se il mio dio non è stato capace di proteggermi, significa che il dio dei bianchi è più potente. Tutto qui. Essere accondiscendenti verso la nuova divinità diventa quindi un modo per onorare il potere che le va riconosciuto. Conseguentemente questo rende la propria schiavitù un fattore ineliminabile, a meno che non si metta in discussione tutta la narrazione e relative ontologie.

Questo fatto è essenziale per comprendere come fosse possibile che qualche bianco potesse agilmente controllare decine di schiavi neri. D’accordo, i bianchi avevano armi e cavalli che possono però non essere sufficienti a garantire l’ordine sociale se gli sfruttati si coalizzano. Il problema, come dicevo, è di tipo religioso: quel dio dei bianchi (dato per scontato che le potenze superiori esistano) deve essere onorato. Non è un discorso molto diverso dalla legge del karma che ha permesso in Asia costanti soprusi e sfruttamenti con la scusa di meritarsi lo stato in cui i più poveri si trovavano.

In generale nelle piantagioni degli Stati Uniti meridionali il rapporto bianchi/neri era di 1:5-1:10, fatto che avrebbe potuto scatenare rivolte in continuazione. Nel 1720 in Carolina del sud gli schiavi rappresentavano il 65% della popolazione. Eppure ci furono soltanto casi isolati di ribellione. Più frequentemente c’erano individui che si rifiutavano di adorare quel dio che li aveva tratti in catene, e che non godevano di buona reputazione neanche tra i loro stessi simili.

La musica del diavolo nasce così, per ricordare la propria dignità perduta. La musica come veicolo di identità. Sfruttati per tutta la settimana, alla domenica mattina gli schiavi si ritrovavano a cantare canzoni religiose per rendere gloria al dio dei propri aguzzini.  E guai a chi non lo faceva. Se holler e work songs erano espedienti per informare le ragazze che il violentatore bianco stava per arrivare oppure per dare ritmo al duro lavoro dei campi, il Blues trova una collocazione molto diversa: negando il dio schiavista e affermando il diritto al proprio riconoscimento, la musica del diavolo reclama un’identità propria, non mediata dai diktat dei colonizzatori. O da richiami a paternalistiche divinità. Per questo veniva chiamata musica del diavolo e spesso veniva osteggiata dagli stessi schiavi.

Gli Spiritual sono in buona sostanza canti di chiesa che si rifanno a credenze bibliche, quali Mosé, l’esodo, la terra promessa, la punizione divina e la salvezza finale. Tutte teorie consolatorie utili a mitigare la triste realtà della schiavitù. La spiritualità nera si fa sempre più bianca, sempre meno terrena e sempre più centrata su ipotetici tempi a venire. L’afroamericano chiede quindi di essere il più bianco possibile, abbraccia la discutibile mentalità puritana e reinterpreta la musica in modo da offrire il più patinato ricordo possibile delle proprie origini. Questo è il Jazz di certe stelle del bebop, ad esempio, che frequentano la jet society con Ferrari, belle donne e droghe.

Si sviluppa così un doppio binario musicale: quello di accondiscendenza verso l’universo bianco e quello di ribellione verso il medesimo. Grosso modo un secolo fa cominciavano a essere gettate le basi di questo dualismo afroamericano: il Blues stava confrontandosi con il Jazz, pur essendo nati dal medesimo ceppo antropologico.

Per comprendere meglio la questione Blues vs Jazz bisogna capire la differenza tra cultura scritta che fa uso di simboli canonizzati e cultura orale che al posto dei simboli usa la trasmissione diretta del sapere.

La notazione musicale serve a dotare di simbolo la riproduzione di note, limitate a 12. L’oralità invece non sa che farsene di mezzi di replicabilità perfetta, perché le note non sono dodici, ma tendenti all’infinito. Nell’oralità non esiste fissità, l’universo non può essere inchiodato.

Come spiegato nel precedente articolo, il Blues fa dell’indeterminismo la propria regola, al contrario del Jazz con il Real Book e tutte le notazioni simboliche dei brani di maggior successo. Comunque esiste anche il Real Book di Blues come fenomeno puramente commerciale, dato che non è musica trascrivibile. Un bending, una blue note di terza minore tendente alla maggiore non possono essere trascritti. Punto.

Dopo lo Spiritual ci fu il Ragtime, musica molto sincopata come Barrelhouse e Honky-Tonk. Il Ragtime, mancando di quelle espressività tipiche del Blues, può essere trascritto. Scott Joplin, il più famoso compositore nero di Ragtime, scrisse addirittura un‘opera lirica, Treemonisha. Il mio compositore preferito di quel genere rimane però Joseph Lamb, non a caso un bianco. Dal Ragtime al Jazz il passo non è semplice, ma decisamente breve. Sparite le cialtronesche Jug Band, arrivano le azzimate Big Band, con musicisti in abito regimental (o giù di lì) che si esibiscono in lussuose dance hall. Arrangiamenti con complicate partiture orchestrali fanno da contorno.

Il Blues nasce come divertimento e consolazione. L’elegantissimo trombettista Lee Morgan quando l’insegnante di musica disse in classe che il Blues è musica di sofferenza rispose con “Mucchio di stronzate”. Dimenticate il vecchio che suona sotto al portico: nei fine settimana ci sono le feste, luoghi in cui chi sa suonare qualcosa ci rimedia qualche spicciolo per vivere. È la storia di Robert Johnson, uno dei padri del genere. Una vita maledetta, la sua. Si sposa giovanissimo e perde moglie di soli 16 anni e figlia neonata durante un parto difficile. Diagnosi: morte perché lui suonava la musica del diavolo.

James Cotton è un indiscusso padre del Blues di Chicago. Ha dovuto esercitarsi all’armonica sempre lontano da casa perché i suoi genitori, neri come lui, non tolleravano che suonasse la musica del diavolo.

A Quincy Jones, anche dopo avere vinto prestigiosi premi, la madre continuava a ripetere che sarebbe andato all’inferno se avesse suonato la musica del diavolo.

A Ornette Coleman la parola Jazz non piaceva, e a quel nome preferiva “musica classica nera”. Nina Simone, che voleva diventare la prima pianista nera internazionale di musica classica, una volta finiti i fondi che le permettevano di studiare dovette intrattenere il pubblico dei pub suonando brani Blues e Jazz prima di diventare una star. Scriveva :“Non potrò mai essere bianca, e sono il tipo di ragazza di colore che incarna tutto ciò che i bianchi odiano, o perlomeno gli è stato insegnato a odiare”. Strano, perché i bianchi amano Bach, proprio come lei.

Un altro pianista Jazz di provenienza classica fu Don Shirley che ispirò il fortunato film “Green Book”, interessante anche per notare i fiumi di denaro che circondavano certi jazzisti di quegli anni.

Al contrario le cose per chi suona la musica del diavolo possono anche virare in tragedia: Marvin Gaye, icona del Soul, viene ucciso dal padre predicatore a causa della sua vita ritenuta “dissoluta”. Sam Cooke merita un discorso a parte. Anche lui come Marvin era figlio di un pastore, e da sempre aveva cantato gospel per poi entrare nella band “The Soul Stirrers” con lo pseudonimo Dale Cooke per non incappare negli anatemi dei soliti useful idiots. Bello, elegante, con una voce suadente ed inconfondibile come Frank Sinatra e come lui amatissimo da tutti, impersonava il ruolo del negro buono che sa fare la musica “giusta” senza eccessi. Almeno fino a quando non è entrato a far parte del movimento per i diritti degli afroamericani. Fu così che venne ucciso in circostanze misteriose; non venne fatta alcuna indagine. D’altronde tutta la storia degli USA è scritta con il sangue di chi ha osato ribellarsi. I WASP sono fatti così, anche senza il cappuccio del KKK. Purtroppo non è questione di puritanesimo, il vero problema è come il potere sa gestire le masse.

Sapete perché ancora oggi i vari Pupo, Al Bano e soci fanno tournée sold out in Russia? Per via di Stalin, che proibì qualsiasi musica estera che non fosse italiana. Se agli afroamericani venne imposto di aderire alla spiritualità puritana, ai russi venne offerta una sola opzione: Pupo e soci.

Aveva quindi ragione Goebbels quando diceva che “è sempre possibile portare i popoli a credere a ciò che i loro leader dicono”. Bianchi o neri, per questioni musicali o sanitarie poco cambia: ci sarà sempre una parte consistente di zeloti che pur di non fare i propri interessi è disponibile a farsi kapò per difendere gli altrui interessi. L’egoismo, questo sconosciuto. Povero Stirner. Afroamericani che lanciano anatemi contro il Blues, la musica del diavolo, per onorare la divinità che li ha ridotti in catene. Il parallelo con i tempi attuali è a dir poco inquietante. La Storia come tragedia e poi farsa.

 

“In una società divisa in classi la cultura dominante è la cultura della classe dominante”

  1. Marx

 

Tonguessy

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