Di Spyros Manouselis, Ephimerida ton syntakton, Grecia
Traduzione di Alba Canelli
Tutte le pratiche sanitarie contro la pandemia fino ad oggi, questo insieme di misure e pratiche biomediche volte a proteggere le società umane dal nuovo agente infettivo, non si sono basate su conoscenze e ricerche rigorose, ma su una propaganda diffusa su una “guerra” contro un nemico invisibile, riassunta in slogan terroristici trasmessi quotidianamente dai media, come “Resta a casa” durante la prima fase della pandemia e “Resta al sicuro” durante la seconda fase.
Durante l’attuale pandemia (ma probabilmente anche dopo) è diventato chiaro che i cittadini non hanno più il diritto naturale alla salute di cui godevano fino a ieri, e che sono quindi legalmente obbligati a garantire la salute pubblica con tutti i mezzi e quindi a contribuire alla “biosicurezza” globale, cioè a rispettare una serie di misure e nuove pratiche biomediche che dovrebbero garantire la protezione delle società umane contro qualsiasi minaccia biologica.
In realtà, come vedremo oggi, la biosicurezza è stata inventata per dare un’illusione di sicurezza attraverso la protezione artificiale della salute, che ha come unico risultato quello di privare gradualmente gli esseri umani della loro vita sociale, affidandosi esclusivamente alla garanzia biomedica della loro sopravvivenza. Le più recenti pratiche di protezione della salute pubblica e individuale adottate per combattere il nuovo coronavirus giustificano la prospettiva di una “biosicurezza” universale?
Quando la “salute” ci viene imposta come imperativo biopolitico
Dall’inizio di aprile alla fine di maggio, più della metà della popolazione mondiale è stata messa agli arresti domiciliari per limitare la diffusione del nuovo coronavirus. Naturalmente, questa non è né la prima né l’ultima volta nella storia dell’umanità che alcune popolazioni sono state costrette a confinarsi per proteggersi da un’epidemia mortale.
Ciò che più sorprende dell’attuale pandemia di Covid-19 è la velocità con cui si è diffusa in tutto il mondo e il fatto che circa 3,9 miliardi di persone sono state messe in quarantena quasi simultaneamente. Ciò rende automaticamente questa pandemia un’esperienza psicologica e antropologica senza precedenti.
Si tratta infatti di un evento storico completamente nuovo, le cui conseguenze, sia psicologiche a livello individuale che sociali a livello collettivo, non sono ancora state studiate, anche se hanno colpito e colpiscono ancora quasi tutti. Lo sconvolgimento della vita sociale quotidiana di tante persone, senza poterne prevedere la fine, sta sicuramente creando paura, ansia, sindromi depressive e altri traumi non ancora visibili.
Nella storia più recente, fenomeni simili ma localizzati di contenimento sociale dovuti a un’epidemia virale sono stati studiati nel caso della SARS in Cina e in Canada, e dell’epidemia di Ebola in alcuni Paesi africani. Allo stesso modo, le conseguenze psicologiche del confinamento di esseri umani in condizioni estreme sono state studiate nei cosmonauti in orbita intorno alla Terra.
Tuttavia, il caso dei cosmonauti, per quanto estremo, è comunque il risultato di una decisione consapevole presa liberamente. Si tratta di un esperimento di confinamento preparato con cura, con conseguenze e data di fine noti in anticipo, che tuttavia rimane traumatico per i cosmonauti.
Qual è l’atteggiamento delle persone terrorizzate dal nuovo coronavirus, di fronte alla necessità “sanitaria” di sconvolgere radicalmente le loro attività quotidiane e di rimandare all’infinito la soddisfazione di alcuni dei loro bisogni biologici e sociali di base? Alcuni sono ansiosi di tornare alla loro normale vita pre-virale, mentre la maggior parte si avvicina al ritorno alla vita precedente con un misto di paura, ansia o addirittura panico, fintanto che il coronavirus circola liberamente.
Tuttavia, evitare la compagnia e il contatto fisico con i nostri amici e i nostri cari, non stringere mai la mano e baciarli è contrario alla nostra propensione come animali sociali, mentre la prolungata privazione del contatto fisico e delle relazioni intime con gli altri è considerata una delle principali cause di disturbi psicosomatici e depressione nella maggior parte delle persone.
Confinamento per motivi di… salute
Infatti, numerosi studi psicologici – sia prima che durante la pandemia – confermano che il confinamento prolungato e la solitudine forzata sono i problemi più comuni dell’uomo moderno, che si manifestano in permanenti sensazioni di ansia, intenso disagio e depressione che influiscono sulla sua salute fisica e mentale.
Se a questi problemi psicologici preesistenti, diffusi nelle società moderne, si aggiunge, da un lato, la costante e onnipresente minaccia di infezione da parte del nuovo coronavirus e, dall’altro, gli effetti economici di una prolungata quarantena, allora i sentimenti di intensa ansia e persistente insicurezza si intensificano e hanno un effetto devastante sulla salute e sulla speranza di vita delle persone, soprattutto di quelle appartenenti ai gruppi più vulnerabili (anziani, malati).
Si tratta di un insopportabile stato di ansia cronica che, nonostante la diminuzione del numero di casi e della mortalità dovuta alla pandemia, crea negli individui ipocondriaci una reazione paranoica di repressione permanente del desiderio di uscire di casa, tornare al lavoro e incontrare amici, che vengono automaticamente classificati come “portatori” minacciosi responsabili della trasmissione del coronavirus.
In questo modo, però, i rapporti interpersonali sono modellati e regolati da una cultura del “sospetto universale”. Questo, come sappiamo, per le regole soffocanti e quindi innaturali che impone, crea solo relazioni disumane e disumanizzanti.
Un tipico esempio sono i nuovi contatti e rapporti smaterializzati – cioè esclusivamente virtuali – su Internet che, durante l’ultima pandemia, sono raddoppiati perché hanno offerto un sostituto sicuro a rapporti reali ma potenzialmente infettivi tra persone confinate in casa.
Questa può essere una “soluzione” temporanea al nostro intrinseco bisogno di comunicazione e di contatto sociale, ma a lungo termine può portare a molti problemi – soprattutto per i giovani utenti di Internet – come confondere il reale con il virtuale, e diminuire gradualmente il loro bisogno vitale di relazioni fisiche e di comunicazione faccia a faccia. Così, all’indomani della pandemia, c’è il serio rischio che molte persone “scelgano” di rimanere isolate a casa, “vivendo” esclusivamente nella rassicurante ma virtuale realtà offerta da Internet.
Il “vivere sano” come terrorismo
Basta essere attenti alle dichiarazioni quotidiane dei governi, alle previsioni di attentati terroristici e ai piani delle organizzazioni finanziarie internazionali per gli anni a venire, per rendersi conto che la posta in gioco oggi non è la salvezza delle persone dal coronavirus, ma la gestione panoptica e totalitaria, attraverso ricorrenti crisi sanitarie, non solo della salute fisica ma anche della vita socio-economica e psicologica di una pletora di popolazione umana.
Si tratta di una nuova igiene planetaria che sta creando problemi sociali, economici e umanitari già visibilmente molto acuti, e di cui nessuno può garantire che sarà meno distruttiva per la vita umana dell’attuale pandemia di coronavirus. Perché dovrebbe essere chiaro che il disastro che ci sta colpendo non è di natura puramente virale, ma è, in grandissima misura… causato dall’uomo.
Così, durante il periodo della pandemia, ma anche dopo, i cittadini non hanno più automaticamente il pieno diritto alla sicurezza sanitaria, ma sono anche obbligati per legge ad occuparsi della salute pubblica e della biosicurezza. Il termine biosicurezza descrive una serie di nuove misure e pratiche biomediche volte a proteggere le società da qualsiasi agente infettivo e minaccia biologica.
Un tipico esempio di queste strategie terroristiche di “biosicurezza” di massa è la recente quarantena globale, che ha trasformato il diritto alla salute di ogni individuo in un obbligo di proteggere se stessi e gli altri dalla minaccia di infezione.
Inutile dire che le pratiche sanitarie estreme finora praticate in nome della biosicurezza non si basano su rigorose conoscenze scientifiche e ricerche, ma sulla propaganda diffusa della “guerra” contro un nemico invisibile (il nuovo virus), che si riassume nel modo più efficace negli slogan terroristici “Stay at home” della prima fase e “Stay safe” della seconda fase della pandemia, che vengono trasmessi quotidianamente dai media.
Delle nuove pratiche biopolitiche di colpevolezza individuale e, allo stesso tempo, di emarginazione massiccia dei gruppi umani più “a rischio”, pratiche che sono state ampiamente accettate in quanto dovrebbero garantire la sicurezza e la protezione delle persone, dobbiamo opporci alla nostra solidarietà attiva con le vittime di Covid-19 e resistere con tutti i mezzi a questo manifesto tentativo di disumanizzare la nostra vita in nome di una biosicurezza irrealizzabile.
Scenari di “biosicurezza” in una società di zombie
Secondo il discorso politico dominante, la maggior parte delle persone ha dato prova di grande moderazione e disciplina di fronte alla nuova pandemia e si è comportata con un “alto senso di responsabilità” nei confronti della società. Per chi, come l’autore di questo articolo, non è convinto da questa valutazione “lusinghiera”, l’accettazione diffusa e l’applicazione unanime di regole di sicurezza sanitaria molto inusuali contro i coronavirus è un problema molto serio.
Questo problema non è essenzialmente scientifico ma soprattutto biopolitico, nel senso che riguarda concretamente le forme di gestione sociale della salute e della vita di tutta la popolazione attuale.
L’impressionante prontezza e velocità con cui la maggior parte delle persone sono state disposte a sacrificare i loro personali bisogni sociali e le loro più profonde predisposizioni biologiche per proteggere la loro salute dovrebbe piuttosto essere attribuita alla disinformazione globale e al terrore sanitario generato intorno al pericolo mortale immediato e forse alla diffusione incontrollata della nuova epidemia a se stessi e ai loro cari.
In questo senso, il problema dominante per chi decide di affrontare e gestire questa pandemia è quello di raggiungere la massima “biosicurezza” possibile.
“Biosicurezza” come terrorismo sanitario
La prima formulazione esplicita del concetto di “biosicurezza” come opzione politica centrale per gestire la salute dei cittadini al fine di garantire arbitrariamente l’immunità contro alcune pericolose malattie infettive si trova nel libro dello storico francese Patrick Zylberman “Tempêtes microbiennes” (Tempeste microbiche) (Gallimard, 2013).
In questo importante libro, purtroppo non tradotto in greco, Zylberman, seguendo il metodo dell’archeologia dei concetti del suo professore Michel Foucault, ricostruisce in modo dettagliato e molto convincente la versione più recente, storicamente, del concetto di “sicurezza sanitaria” come strumento dominante, che viene elaborato ed esercitato, secondo le circostanze storiche, attraverso due scenari alternativi ma complementari: il migliore scenario possibile e il peggiore scenario possibile per la realizzazione e la gestione di una crisi sanitaria.
Come tutto lo dimostra, nell’attuale pandemia viene applicato esattamente quello che Patrick Zylberman ha descritto sette anni fa: è il peggiore scenario possibile che si applica alla crisi sanitaria globale.
Se lo scenario di biosicurezza più disumano e disumanizzante viene effettivamente attuato per gestire l’attuale crisi virale, allora abbiamo il diritto di dubitare del prossimo futuro delle relazioni umane. Dopo tutto, per definizione, la biosicurezza immateriale e impersonale è adatta solo alle società zombie. Ma di questo parleremo nel nostro prossimo articolo.
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Per concessione di Tlaxcala
Fonte: https://www.efsyn.gr/epistimi/mihanes-toy-noy/248560_ygeionomika-kakoyrgimata
Data dell’articolo originale: 20/06/2020
URL dell’articolo “Crimini sanitari“: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=29426
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Scelto e pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org