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Intervista a Wangari Maathai, premio Nobel per la pace nel 2004

DI ALESSANDRO URSIC E PABLO TRINCIA

Una vita spesa nella lotta per i diritti delle donne, la conservazione ambientale e la conquista della democrazia. Quasi trent’anni di sforzi, riconosciuti lo scorso ottobre con il Nobel “per il suo contributo allo sviluppo sostenibile, alla democrazia e alla pace”. Wangari Maathai, sessantaquattro anni, è la leader del Green Belt Movement, “movimento della cintura verde”: una comunità di oltre 100mila persone che dal 1977 ha piantato più di 30 milioni di alberi sul territorio kenyano, promuovendo l’ambiente e al contempo lavorando per l’emancipazione delle donne. Dopo decenni passati all’opposizione contro il regime di Daniel Arap Moi, Wangari è stata eletta in Parlamento nel dicembre 2002. Il neopresidente democratico Mwai Kibaki l’ha nominata viceministro dell’ambiente e delle risorse naturali.
 In un’intervista rilasciata qualche giorno dopo aver ritirato il premio dal Comitato di Oslo, Wangari racconta la sua visione del mondo a PeaceReporter. Le interminabili guerre africane, la piaga dell’Aids, i problemi della deforestazione e della desertificazione in tante aree del pianeta, l’importanza della tutela ambientale ai fini della pace: la prima donna africana a conquistare un premio Nobel spiega che, per il mondo, è arrivata l’occasione di cambiare modo di pensare. E non possiamo più permetterci di aspettare.Una volta lei disse che “proteggere l’ambiente globale è direttamente collegato al mantenimento della pace”. Crede che il mondo si renda conto dell’esistenza di questo legame?“Ovviamente non tutti capiscono questa relazione, e questo è il motivo per cui il dibattito è così diffuso. Ma è anche vero che il momento è maturo affinché questo dibattito si tenga, e per riconoscere che l’ambiente è un ingrediente molto importante per sostenere la pace”.

Lei ha ricevuto il premio Nobel per i suoi sforzi tesi a migliorare la situazione ambientale del Kenya, combattendo la deforestazione e la desertificazione. Sono problemi che riguardano tutto il pianeta – lo sfruttamento della foresta amazzonica, l’effetto serra, la questione delle emissioni inquinanti – e siamo ancora lontani dalla soluzione. Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, ha esortato il mondo a “cambiare il modo di pensare”. Quanto tempo crede ci vorrà?<

“Penso che possa succedere nel corso di una generazione, perché la consapevolezza c’è già. Forse non abbiamo ancora una grande “massa critica” di persone coscienti del problema, ma i segnali di una diffusa consapevolezza ci sono. Le reazioni del mondo al mio Nobel sono un indicatore del fatto che un numero crescente di persone capisce che pace, ambiente, democrazia e sviluppo sono collegati”.

 
Non teme che dare il Nobel per la pace a un’ambientalista sia una cosa facile da fare e lodevole, ma che facendo così il mondo in qualche modo si mette a posto la coscienza e poi si lava le mani della questione ambientale?

“Credo che, scegliendo me per il premio, il Comitato abbia di fatto chiesto al mondo di concentrarsi sul problema. Quindi, invece che dimenticarlo, penso che ci sarà ancora più pressione per dargli la dovuta attenzione. E spero che specialmente i giovani chiedano ai loro governi di porre le questioni dell’ambiente e della democrazia al centro delle politiche nazionali. Questa è la mia speranza, perché ora tutto il mondo deve concentrarsi sull’ambiente, non possiamo più permetterci di ignorarlo”.

Dopo il processo di decolonizzazione, il continente africano è se possibile ancora più povero. La questione dello sviluppo dell’Africa è sempre sul tavolo, ma nessuno sembra in grado di trovare una soluzione. Crede che il mondo potrebbe fare di più?

“Forse in nessun altro luogo come in Africa vediamo l’impatto della cattiva gestione delle risorse nazionali, le disuguaglianze, la mancata volontà da parte di leader e uomini politici di utilizzare queste risorse per il bene della gente, che così non può vivere in pace e si trova invischiata in conflitti infiniti. La sfida è per i leader africani, che sono chiamati a concentrarsi su una migliore gestione delle risorse e su una distribuzione delle ricchezze più equa, ad adottare processi democratici così che i loro popoli possano godere della pace ed essere in grado di svilupparsi e uscire dalla povertà. Spero che l’assegnazione del Nobel a una donna africana acceleri questo processo. Ora è molto più accettata l’idea che i governi cambiano con il voto e non grazie alle armi, e l’Unione Africana sta incoraggiando molto l’adozione dei principi democratici”.

Lei è ottimista riguardo il futuro del suo continente?

“Molto ottimista. In Kenya abbiamo dato l’esempio, mostrando che è possibile cambiare governo democraticamente, senza spargimento di sangue. Abbiamo ancora qualche problema con la coalizione che abbiamo formato, ma chiediamo ai nostri leader di continuare con questo esperimento, di sacrificarvi le loro ambizioni, perché può davvero invogliare molti altri africani a cambiare il loro governo con il voto e scegliere la democrazia, che con molta più probabilità può dare loro la pace e l’opportunità di svilupparsi”.

Secondo lei i Paesi africani e quelli del mondo ricco stanno facendo abbastanza per co mbattere l’epidemia di Aids in Africa?

“Penso che ora, almeno nel mio Paese e in numerose altre nazioni dell’Africa orientale, i leader politici hanno cominciato a combattere davvero l’Aids. L’hanno condannato, hanno esortato le persone a cambiare i loro comportamenti sociali e sessuali, a prendersi la responsabilità di proteggersi loro stessi e gli altri. Questo non era successo nei primi anni in cui l’Aids colpì l’Africa, quando i leader fingevano che la malattia non esisteva, nel tentativo di proteggere l’industria turistica. Ma credo anche che il mondo potrebbe fare di più, continuando la ricerca, e rendendo possibile alle aree povere come l’Africa l’accesso alle medicine che rendono un po’ più facile la vita delle persone infette”.

Lei è stata la prima donna dell’Africa centro-orientale ad arrivare a un dottorato di laurea, ed è sempre stata una donna “avanti” con i tempi. Negli anni Ottanta suo marito chiese il divorzio sostenendo che lei era una donna troppo forte e intelligente, e che non poteva controllarla. Il giudice gli diede ragione. Potrebbe ancora succedere nel Kenya di oggi?

“Credo che l’esperienza abbia prodotto un cambiamento nel modo di pensare di molta gente in Kenya. A quel tempo la società non era abituata a vedere una donna istruita ricoprire un’alta posizione. Sa, è sempre magnifico essere il primo ad abbattere una barriera, ma anche questo ha un prezzo, perché a volte abbatti le barriere quando la gente non è ancora pronta. A quell’epoca, molte persone non erano ancora pronte per me. Oggi è molto più facile per le donne, sono sicura che non potrebbe accadere, almeno non nella stessa maniera”.

E nel resto dell’Africa com’è la situazione delle donne? Il mondo vede che in Nigeria le adultere sono ancora condannate alla lapidazione, per esempio.

“Quando ci sono situazioni di povertà le disuguaglianze aumentano, e le donne tendono a occupare posizioni socioeconomiche molto povere. Finché non miglioriamo l’economia dei nostri Paesi è anche difficile migliorare la posizione delle donne, ma voglio dire a tutte le donne dell’Africa e del mondo che solo noi possiamo continuare a batterci per i nostri diritti, per una migliore posizione nella società, e possiamo farcela. Abbiamo dimostrato di poterlo fare in molti modi e dobbiamo continuare, in modo da avere una massa di donne che hanno abbattuto le barriere. Solo a quel punto i governi parificheranno i nostri diritti a quelli degli uomini”.

Se l’anno scorso le avessero detto che quest’anno avrebbe vinto il premio Nobel, ci avrebbe creduto?

“No, nel senso che come lei sa c’è stato un grande cambiamento da parte del Comitato. La maggior parte di noi non si aspettava di essere considerata per questa ragione. Avendo lavorato per l’ambiente, per la democrazia e per la pace, abbiamo però sempre saputo che questi temi sono estremamente collegati, quindi non siamo sorpresi ma estremamente felici e incoraggiati”.

Alcuni hanno criticato quello che lei chiama il “cambiamento” del Comitato, pensando che in un anno in cui la questione della pace è dominata dall’Iraq, il dare il Nobel a un’ambientalista è stata una scelta facile e un po’ codarda. Queste considerazioni l’hanno ferita?

“No, bisogna accettare tutte le critiche. Da quando questi premi sono stati istituiti, comunque, la tendenza è stata sempre quella di guardare al “dopo” nelle guerre: si aspettava che il conflitto esplodesse, e poi si cercavano persone che tentavano di porvi fine facendo tornare la pace. Con la scelta di quest’anno, il Comitato ha invece voluto dirci che gli uomini possono pensare in modo diverso, che possono impegnarsi prima del conflitto, che possono promuovere il dialogo prima del conflitto, che possono rispettare i diritti umani delle altre persone prima del conflitto. Perché dopo è molto più complicato, ci sono molte più ferite da curare e la pace diventa più difficile, come vediamo ora in Medio Oriente. Il Comitato ha quindi cercato di stimolare la nostra coscienza, evitando di glorificare le attività post-conflitto e glorificando invece gli sforzi che vengono prima”.  

Alessandro Ursic e Pablo Trincia
Fonte:www.peaceeporter.it
27.12.04

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