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La Redazione

 

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Sconfitta

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A cura di Markus
Il 29 Settembre 2023
25529 Views

Michael Brenner
scheerpost.com

In Ucraina, gli Stati Uniti sono stati sconfitti. Si potrebbe dire che stanno affrontando la sconfitta o, più semplicemente, che stanno guardando in faccia la sconfitta. Nessuna delle due formulazioni è però appropriata. Noi statunitensi non guardiamo la realtà in faccia. Preferiamo guardare il mondo attraverso le lenti distorte delle nostre fantasie. Ci buttiamo in avanti su qualsiasi strada abbiamo scelto, senza degnare di uno sguardo il territorio che stiamo cercando di attraversare. La nostra unica luce guida è il bagliore di un miraggio lontano. È la nostra pietra miliare.

Non è che l’America sia estranea alla sconfitta. La conosciamo molto bene: Vietnam, Afghanistan, Iraq, Siria – in termini strategici, se non sempre militari. A questa ampia categoria potremmo aggiungere Venezuela, Cuba e Niger. Questa ricca esperienza di ambizioni frustrate non è riuscita a liberarci dall’abitudine profondamente radicata di eludere la sconfitta. Anzi, abbiamo acquisito un ampio inventario di metodi per farlo.

DEFINIRE E DETERMINARE LA SCONFITTA

Prima di esaminare questi metodi, specifichiamo cosa intendiamo per “sconfitta”. In parole povere, la sconfitta è un fallimento nel raggiungimento, a costi tollerabili, di certi obiettivi. Il termine comprende anche le conseguenze indesiderate di secondo ordine.

1. Quali erano gli obiettivi di Washington nel sabotare il piano di pace di Minsk e nell’ostacolare le successive proposte russe, nel provocare la Russia andando oltre le sue linee rosse, chiaramente delimitate, nel premere per l’adesione dell’Ucraina alla NATO, nell’installare batterie missilistiche in Polonia e Romania, nel trasformare l’esercito ucraino in una potente forza militare dispiegata sulla linea di contatto nel Donbass, pronta a invadere o a spingere Mosca ad un’azione preventiva? L’obiettivo era quello di imporre una sconfitta umiliante all’esercito russo o, almeno, di costringerlo a pagare costi così pesanti da indebolire il governo Putin. La parte cruciale e complementare di questa strategia era l’imposizione di sanzioni economiche così onerose che avrebbero dovuto far implodere la vulnerabile economia russa. Tutto questo avrebbero generato un enorme senso di ansietà che avrebbe portato alla deposizione di Putin – sia da parte di una cabala di oppositori (gli oligarchi scontenti avrebbero fatto da avanguardia) che con proteste di massa. Gli Stati Uniti prevedevano di instaurare un governo più flessibile, pronto a diventare una presenza volenterosa ma marginale sulla scena europea ed escluso da tutti i giochi internazionali. Per dirla con le crude parole di un funzionario moscovita, “un fittavolo nella piantagione globale dello zio Sam”.

2. L’addomesticamento della Russia era stato concepito come un passo fondamentale nell’imminente grande confronto con la Cina, designata come il rivale sistemico dell’egemonia americana. Teoricamente, questo obiettivo avrebbe potuto essere raggiunto sia allontanando la Russia dalla Cina (dividendola e subordinandola) sia neutralizzando totalmente la Russia come potenza mondiale facendo cadere la sua rigida leadership. Il primo approccio non era mai andato al di là di qualche debole gesto estemporaneo. Tutte le carte in tavola erano state puntate sul secondo.

3. Per gli Stati Uniti, i vantaggi accessori di una guerra in Ucraina che avrebbe fatto cadere la Russia erano: a) il consolidamento dell’Alleanza Atlantica sotto il controllo di Washington, l’espansione della NATO e l’apertura, per il prossimo futuro, di un abisso incolmabile tra la Russia e il resto dell’Europa; b) l’interruzione della forte dipendenza di quest’ultima dalle risorse energetiche della Russia; c) la sostituzione del GNL e del petrolio [russi] con analoghi molto più costosi provenienti dagli Stati Uniti, cosa che avrebbe suggellato lo status di vassalli economici dei partner europei. Se poi quest’ultimo aspetto fosse stato un freno per la loro industria, ancora meglio.

I grandiosi obiettivi enunciati ai punti (1) e (2) si sono dimostrati palesemente irraggiungibili – anzi, fantasiosi – una verità lampante non ancora assimilata dalle élite americane. Quelli del punto (3) sono premi di consolazione di scarso valore. Questo risultato è stato determinato in buona parte, anche se non del tutto, dal fallimento militare in Ucraina. Ora stiamo per entrare nell’atto finale. La millantata controffensiva di Kiev non è andata a buon fine – con un costo enorme per l’esercito ucraino. L’esercito ucraino è stato dissanguato da massicce perdite di personale, dalla distruzione della maggior parte delle sue forze corazzate, dallo smantellamento di infrastrutture vitali. Le brigate d’élite addestrate dall’Occidente sono state fatte a pezzi e non ci sono più riserve da mandare in battaglia. Inoltre, il flusso di armi e munizioni dall’Occidente è rallentato, poiché le scorte americane ed europee si stanno esaurendo (ad esempio quelle dei proiettili d’artiglieria da 155 mm). La carenza è aggravata dalla ritrovata inibizione ad inviare all’Ucraina armi avanzate, dimostratesi assai vulnerabili alla potenza di fuoco russa. Questo vale soprattutto per i blindati: i Leopard tedeschi, i Challenger britannici, i carri armati AMX-10-RC francesi e i veicoli da combattimento (CFV) come i Bradley e gli Stryker americani. Le immagini grafiche dei rottami fumanti disseminati nella steppa ucraina non sono una buona pubblicità per la tecnologia militare occidentale o per le vendite all’estero. Da qui anche il rallentamento delle consegne a Kiev dei promessi Abrams e F-16, proprio per evitare che subiscano la stessa sorte.

L’illusione di un successo finale sul campo di battaglia (con il previsto logoramento della volontà e delle capacità della Russia) si fonda su un’idea sbagliata di come misurare la vittoria e la sconfitta. I leader americani, militari e civili, sono fermi ad un modello che enfatizza il controllo del territorio. La dottrina militare russa è diversa. La sua enfasi è sulla distruzione delle forze nemiche, con qualsiasi strategia adatta alle condizioni del momento. Solo successivamente, dopo aver preso il controllo del campo di battaglia, si potrà imporre la propria volontà. La tattica aggressiva degli ucraini consiste nel gettare le proprie risorse in continui attacchi volti a sfrattare i russi dal Donbass e dalla Crimea. Non riuscendo ad ottenere alcun risultato, [gli ucraini] si sono autoinvitati ad una guerra di logoramento, con loro grande svantaggio. A questa si è aggiunto l’ultimo tentativo di quest’estate, che si è rivelato suicida. In questo modo hanno fatto il gioco dei russi. Quindi, mentre l’attenzione si concentra su chi occupa questo o quel villaggio sul fronte di Zaporizhhia o intorno a Bakhmut, la vera storia è che la Russia ha smantellato pezzo per pezzo il ricostituito esercito ucraino.

In prospettiva storica, ci sono due analogie istruttive. Nel marzo 1918, nell’ultimo anno della Prima Guerra Mondiale, l’alto comando tedesco aveva lanciato un’audace campagna (l’Operazione Michael) sul fronte occidentale, utilizzando una serie di tattiche innovative (con squadre di commando, truppe d’assalto, dotate di lanciafiamme) per sfondare le linee alleate. Dopo i primi successi che avevano consentito ai tedeschi di attraversare la Marna, ma con perdite molto pesanti, l’offensiva si era spenta e gli alleati avevano travolto queste truppe ormai esaurite, cosa che aveva portato al crollo finale in novembre. Più pertinente è la battaglia di Kursk del luglio 1943, in cui i nazisti avevano tentato di riprendere l’iniziativa dopo il disastro di Stalingrado. Anche in questo caso, dopo alcuni successi degni di nota nello sfondamento di due linee di difesa sovietiche, l’attacco si era arenato, molto lontano dai propri obiettivi. Quella battaglia aveva aperto la lunga e sanguinosa strada verso Berlino. L’Ucraina, oggi, ha subito perdite enormi e di entità (proporzionale) ancora maggiore, senza ottenere alcun guadagno territoriale significativo, non riuscendo nemmeno a raggiungere la prima cintura difensiva della Linea Surovikin. Questo spianerà la strada verso il Dnieper e oltre all’esercito russo, forte di 600.000 uomini e dotato di armamenti pari a quelli che abbiamo fornito all’Ucraina. Mosca è quindi pronta a sfruttare il suo vantaggio decisivo, fino al punto di poter dettare le condizioni a Kiev, Washington, Bruxelles e a tutti gli altri [Paesi della NATO].

L’amministrazione Biden non ha alcun piano per questa eventualità, né lo hanno suoi succubi governi europei. Il loro divorzio dalla realtà renderà questo stato di cose ancora più sbalorditivo e spiacevole. Privi di idee, dovranno arrabattarsi. Non si sa come reagiranno. Possiamo dire una cosa con certezza: l’Occidente collettivo, e soprattutto gli Stati Uniti, subiranno una grave sconfitta. Affrontare questa verità diventerà l’ordine del giorno principale.

Ecco un menu di opzioni su come affrontarla.

1. Ridefinire il significato di sconfitta/ vittoria, fallimento/ successo, perdita/ guadagno. C’è una nuova narrativa in corso che dovrebbe evidenziare questi punti di discussione:

– È la Russia ad aver perso la gara perché l’eroica Ucraina e un Occidente solidale le hanno impedito di conquistare, occupare e reincorporare tutto il Paese.

– Al contrario, Svezia e Finlandia si sono formalmente unite al campo americano entrando nella NATO. Questo complica i piani strategici di Mosca, costringendola a disperdere le sue forze su un fronte più ampio.

– La Russia è stata politicamente isolata sulla scena mondiale (questo perché Nord America, UE/Europa della NATO, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno appoggiato la causa ucraina. Nessun altro Paese ha accettato di applicare sanzioni economiche; il “mondo” [per gli americani] non include Cina, India, Brasile, Argentina, Turchia, Iran, Egitto, Messico, Arabia Saudita, Sudafrica e altri).

– Le democrazie occidentali hanno mostrato una solidarietà senza precedenti nel rispondere unitariamente alla minaccia russa.

Questa narrazione è già stata diffusa nei discorsi di Blinken, Sullivan, Austin e Nuland. Il loro pubblico di riferimento è l’opinione pubblica americana, ma nessuno al di fuori dell’Occidente collettivo se la beve, indipendentemente dal fatto che Washington abbia registrato o meno questo aspetto dell’attività diplomatica.

2. Ridimensionare retroattivamente gli obiettivi e la posta in gioco:

– Non fare più riferimento al cambio di regime a Mosca, al rovesciamento di Putin, al crollo dell’economia russa, alla rottura del partenariato sino-russo o al suo indebolimento fatale.

– Parlare di salvaguardare l’integrità dello Stato ucraino, negando che il Donbass e la Crimea siano stati definitivamente separati dalla “madrepatria”. Sottolineare che i vostri amici a Kiev sono ancora i leader legittimi dell’Ucraina.

– Puntare ad un cessate il fuoco permanente che congelerebbe le due parti nelle posizioni attuali, vale a dire una divisione de facto alla maniera della Corea. La parte occidentale verrebbe quindi ammessa alla NATO e all’UE e riarmata. Ignorando la scomoda verità che la Russia non accetterebbe mai un cessate il fuoco a queste condizioni.

– Mantenere le sanzioni economiche sulla Russia, ma voltarsi dall’altra parte quando i partner europei, che ne hanno bisogno, fanno accordi sottobanco per il petrolio e il GNL russo (per lo più attraverso intermediari come l’India, la Turchia e il Kazakistan), come hanno fatto per tutta la durata del conflitto.

– Puntare i riflettori sulla Cina come minaccia mortale per l’America e l’Occidente, screditando la Russia come semplice minaccia secondaria.

– Evidenziare gesti simbolici, come gli attacchi con missili da crociera supersonici e ipersonici di ultima generazione trasferiti da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, in grado di infliggere danni a obiettivi importanti nella stessa Russia e in Crimea, con il fondamentale supporto tecnico del personale americano e di altri Paesi della NATO. (Questo comportamento è simile a quello degli ultrà di una squadra di calcio che ha appena perso contro un’odiata rivale che forano le gomme dell’autobus che doveva portare gli avversari all’aeroporto).

– Fare di tutto per impedire ad Anna Netrebko – cittadina austriaca – di cantare nelle principali capitali. Minacciare con pesanti sanzioni le sale da concerto che infrangono il boicottaggio – ad esempio la Staatsoper di Berlino (magari vietando al direttore generale Herr Matthias Schulz e alla sua progenie fino alla quarta generazione di visitare Disneyland).

3. Coltivare l’AMNESIA

Gli americani sono diventati maestri nell’arte di gestire la memoria.

Pensate al tragico shock del Vietnam. Il Paese ha fatto uno sforzo sistematico per dimenticare, per scordarsi completamente del Vietnam. Comprensibilmente, era stato brutto, sotto tutti i punti di vista. I libri di testo di storia americana gli hanno dato poco spazio; gli insegnanti lo hanno minimizzato; la televisione lo ha presto ignorato come retrò. Cercavamo una conclusione e l’abbiamo avuta.

In un certo senso, l’eredità più degna di nota dell’esperienza post-Vietnam è l’affinamento dei metodi per modificare la storia. Il Vietnam è stato un riscaldamento per affrontare i molti episodi sgradevoli dell’era post 11 settembre. Questa pulizia completa e approfondita ha reso accettabili la mendacia presidenziale, gli inganni prolungati, l’incompetenza snervante, la tortura sistemica, la censura, la distruzione della Carta dei Diritti e la perversione del discorso pubblico nazionale, che è degenerato in un mix di propaganda e di volgare turpiloquio. La “Guerra al terrorismo” in tutti i suoi atroci aspetti.

L’amnesia coltivata è un mestiere enormemente facilitato da due più ampie tendenze della cultura americana: il culto dell’ignoranza, in base al quale una mente priva di conoscenze è stimata come la massima forma di libertà, e un’etica pubblica in base alla quale i più alti funzionari della nazione hanno la licenza di trattare la verità come un vasaio tratta l’argilla, purché dicano e facciano cose che ci rallegrano. Quindi, il nostro ricordo collettivo più forte delle guerre scelte dall’America è il desiderio – e la facilità – di dimenticarle. “Lo spettacolo deve continuare” è il nostro imperativo. Sarà così quando guarderemo un’Ucraina in rovina nello specchietto retrovisore.

La coltivazione dell’amnesia come metodo per affrontare le dolorose esperienze nazionali presenta però gravi inconvenienti. In primo luogo, limita fortemente l’opportunità di imparare le lezioni che offre. Sulla scia dell’inconcludente guerra di Corea, in cui gli Stati Uniti avevano avuto 49.000 morti in azione, il mantra di Washington era stato: mai più una guerra sulla terraferma asiatica. Eppure, meno di un decennio dopo eravamo immersi nelle risaie del Vietnam, dove avevamo perso 59.000 uomini. Dopo il tragico fiasco dell’Iraq, Washington era comunque stata entusiasta di occupare l’Afghanistan in un’impresa ventennale volta a costruire una democrazia simile a quella occidentale con la canna del fucile. Questi progetti frustrati non ci hanno dissuaso dall’intervenire in Siria, dove abbiamo fallito ancora una volta nel trasformare in qualcosa di nostro gradimento una società intrattabile ed estranea – anche se ci siamo spinti fino ad una tacita partnership con la filiale locale di Al-Qaeda. Come ha dimostrato Kabul, dall’atto finale di Saigon non abbiamo nemmeno imparato come organizzare un’evacuazione ordinata.

Per lo meno, avremmo dovuto aspettarci che persone ragionevoli capissero quanto sia cruciale una profonda comprensione della cultura, dell’organizzazione sociale, dei costumi e della visione filosofica del Paese che eravamo impegnati a ricostituire. Eppure, è evidente che non abbiamo assimilato questa verità elementare. Lo dimostra la nostra abissale ignoranza di tutto ciò che è russo, che ci ha portato ad un fatale errore di valutazione di ogni aspetto della vicenda ucraina.

AVANTI IL PROSSIMO: LA CINA

L’Ucraina, a sua volta, non raffredda l’ardore del confronto con la Cina. Un’impresa audace, e per nulla irresistibile, che è al centro della nostra strategia ufficiale di sicurezza nazionale. Gli alti funzionari di Washington prevedono apertamente l’inevitabilità di una guerra totale prima della fine del decennio – nonostante il rischio posto dalle armi nucleari. Inoltre, nello schema americano, Taiwan ha lo stesso ruolo dell’Ucraina. Così, dopo aver provocato con la Russia un conflitto multidimensionale che è fallito su tutti i fronti, ci impegniamo frettolosamente ad adottare quasi la stessa strategia per affrontare un nemico ancora più temibile. Questa potrebbe essere chiamata alla francese una fuite en avant – una fuga in avanti. In altre parole: Fatevi sotto! Siamo pronti.

La marcia verso la guerra con la Cina sfida ogni saggezza convenzionale. Dopo tutto, il Paese non rappresenta una minaccia militare alla nostra sicurezza o ai nostri interessi fondamentali. La Cina non ha una storia di costruzione di imperi o di conquiste. La Cina è stata fonte di grandi benefici economici grazie a fitti scambi che servono sia a noi che a loro. Pertanto, qual è la giustificazione per la diffusa opinione che uno scontro sia ineluttabile? Le nazioni ragionevoli non si impegnano in una guerra, che potrebbe essere catastrofica, solo perché la Cina, il nemico numero uno designato, costruisce stazioni di allarme radar su atolli sabbiosi nel Mar Cinese Meridionale. Perché commercializza veicoli elettrici a prezzi più bassi dei nostri. Perché i suoi progressi nello sviluppo dei semiconduttori possono superare i nostri. Per il trattamento riservato ad una minoranza etnica nella Cina occidentale. Perché segue il nostro esempio nel finanziare ONG che promuovono una visione positiva del loro Paese. Perché si impegna nello spionaggio industriale proprio come fanno gli Stati Uniti e tutti gli altri. Perché fa volare palloni aerostatici sul Nord America (dichiarati innocui dal generale Milley la scorsa settimana).

Nessuna di queste è una ragione convincente per premere con forza per un confronto. La verità è molto più semplice e inquietante. Siamo ossessionati dalla Cina perché esiste. Come per il K-2, questa è di per sé una sfida, perché dobbiamo dimostrare agli altri, ma soprattutto a noi stessi, che siamo in grado di superarla. Questo è il vero significato di una minaccia esistenziale percepita.

Il fatto che gli USA abbiano spostato il baricentro dalla Russia in Europa alla Cina in Asia non è tanto un meccanismo per affrontare la sconfitta, quanto la reazione patologica di un Paese che, sentendo un senso di diminuzione delle proprie capacità, non riesce a fare altro che tentare per l’ultima volta di dimostrare a se stesso di avere ancora le carte in regola, poiché vivere senza quel senso di esaltazione di sé è intollerabile. Ciò che in questi giorni a Washington viene considerato eterodosso, e audace, è sostenere che, in un modo o nell’altro, dovremmo chiudere la vicenda dell’Ucraina, così da poterci preparare per la gara veramente storica con Pechino. La sconcertante verità che nessuno di importante nell’establishment della politica estera del Paese abbia denunciato questa rischiosa svolta verso la guerra avvalora la tesi che siano le emozioni profonde, piuttosto che il pensiero ragionato, a spingerci verso un conflitto evitabile e potenzialmente catastrofico.

Il fatto che una società sia rappresentata da un’intera classe politica che non si lascia intimorire da questa prospettiva può essere giustamente considerato come la prova più evidente di quanto essa sia collettivamente fuori di testa.

In secondo luogo, l’amnesia può servire a risparmiare alle nostre élite politiche, e alla popolazione americana in generale, il disagio acuto di dover riconoscere gli errori e la sconfitta. Tuttavia, a questo risultato non corrisponde un analogo processo di cancellazione della memoria in altri luoghi. Nel caso del Vietnam, eravamo stati fortunati perché la posizione dominante degli Stati Uniti nel mondo, al di fuori del blocco sovietico e della RPC, ci aveva permesso di mantenere rispetto, status e influenza. Ora però le cose sono cambiate. La nostra forza relativa in tutti i settori è più debole, ci sono forti tendenze centrifughe a livello globale che stanno producendo una dispersione di potere, volontà e prospettive tra gli altri Stati. Il fenomeno dei BRICS è l’incarnazione concreta di questa realtà. Di conseguenza, le prerogative degli Stati Uniti si stanno restringendo, la nostra capacità di plasmare il sistema globale in conformità con le nostre idee e i nostri interessi è messa sempre più a dura prova e la diplomazia internazionale si sta impegnando in attività che sembrano al di là delle nostre attuali capacità.

Siamo confusi.

Michael Brenner

Fonte: scheerpost.com
Link: https://scheerpost.com/2023/09/21/michael-brenner-defeat/
21.09.2023
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

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Michael Brenner è professore emerito di Affari internazionali presso l’Università di Pittsburgh e collaboratore del Centro per le relazioni transatlantiche del SAIS/Johns Hopkins. È stato direttore del programma di relazioni internazionali e studi globali dell’Università del Texas. Brenner è autore di numerosi libri e di oltre 80 articoli e pubblicazioni.

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