DI CARLO BERTANI
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Capita ogni anno, da parecchi anni, ed ogni volta che arrivano il 25 Aprile e il 1° Maggio si ripresentano, uguali nei toni ma con sempre maggior veemenza. Mussolini fu un grande statista, la sinistra ha condotto l’Italia alla rovina, i repubblichini lottavano per la Patria, i partigiani erano dei traditori che sostenevano il nemico, la grande alleanza delle democrazie plutocratiche che ci domina tuttora.
Io vi racconterò una vicenda, cose che capitarono nella mia (allora) città nell’Inverno ‘44-’45, poi decidete voi come pensarla, ma non sottovalutate i rischi che stiamo correndo.
Una sera di Gennaio ’45 mio padre e due amici stanno tornando a casa sul filo del coprifuoco: avevano 18 anni, ragazzi, erano stufi di 5 anni di guerra, coprifuoco, tessera alimentare e quant’altro. Si può capirli.
Gli altri due erano persone come lui che aveva, però, qualche “protezione” in più perché giocava nel Torino, ma erano solo ragazzi. Uno dei tre era più sfigato: si chiamava Maggio, ed il padre non aveva trovato niente di meglio che chiamarlo Primo. L’altro l’ho sempre sentito nominare come Tino, e non conosco il cognome: so soltanto che abitava in un appartamento sotto la mia via, dalla quale – avevo 10 anni – osservavo una bambina che studiava sotto una luce fioca, col libro appoggiato al tavolo della cucina. Si chiamava Laura, ed ero pazzamente innamorato di lei che, ovviamente, non seppe mai nulla. Un amore da libro “Cuore”.
Giunti al portone di casa, mio padre disse ai due amici di salire e dormire da lui: “Mio padre capisce, non rischiate, ci arrangiamo per dormire…” “Ma no, dobbiamo fare solo duecento metri e siamo a casa…” risposero. Si salutarono: mio padre li vide scendere parlottando nella via deserta, aprì il portone e salì. La verità giunse anni dopo, quando mio padre incontrò Primo a “Torino esposizioni”, la mostra del campeggio, dove piansero come due fontane per dieci minuti buoni.
Mentre mio padre saliva le scale, la tragedia iniziava: all’incrocio successivo, proprio di fronte al portone di Tino, incontrarono le Brigate Nere, la Muti, o qualche altro accidente che infestava le strade.
Primo scappò, immediatamente: ebbe forse paura del nome che portava…chi lo sa…s’infilò in un cancello che dava su degli orti e, prima che i fascisti si togliessero i fucili dalla tracolla, era già lontano. Gli spararono, ma non lo colpirono: il giorno dopo fuggì a Torino, da alcuni parenti, e non tornò più.
Tino, probabilmente, disse semplicemente che lui abitava lì, in quel portone…vabbè, erano passate le nove da dieci minuti…però…
Lo massacrarono con i calci dei fucili: la sua morte fu una lunga odissea, morì nel Gennaio del ’46, dopo aver trascorso un anno da paralitico.
Il comandante di quegli sbandati era un certo S. che mio padre conosceva perché era un arbitro: ciao, ciao negli spogliatoi e saluto romano se lo incontravi per strada. Altrimenti menava: stranezze della vita di guerra.
Passano pochi giorni e mio padre, mentre rientra a casa, sente il gelo di una canna puntata sul collo. Alza le mani.
“Non temere, sono io G., che voglio andare a casa perché mia madre sta morendo e volevo vederla per l’ultima volta. Stai davanti e fammi strada”. G. era, ovviamente, un partigiano.
Giunti a casa di G. era veramente troppo tardi per tornare a casa, dopo quel che era capitato a Tino…
Così si ferma e, casualmente, nella notte insonne, racconta a G. la vicenda di Tino. Risposta: “Quel bastardo di S.”
Volano i mesi, si giunge alla Primavera, oramai i fascisti si sentono braccati, i partigiani sono loro, oramai, a dare la caccia. Così, durante una partita in trasferta, mio padre incontra di nuovo G. che gli dice: “S. l’ho ammazzato io: piangeva come un cagnolino quando gli ho infilato la pistola in bocca, prima di sparargli”.
Arriva il 25 Aprile. Come a Milano, c’è una riunione in vescovado: ci sono il tenente della Wehrmacht e un importante capo partigiano che si accordano di fronte al vescovo. La colonna dei nazifascisti partirà alle 5 del mattino, e prenderà la via di Vercelli, ancora in mano tedesca. Tutti d’accordo: i fascisti non erano nemmeno stati invitati.
Parte la colonna. In coda, c’è S. padre, che spera di scappare: ne ha fatte quante il figlio, se non peggio.
Giunti in una piazza, ci sono due donne che si recano a lavorare per le 6, con tanto di lasciapassare. I tedeschi non le degnano di uno sguardo e proseguono di fretta: il tempo scorre, e bisogna mettersi in salvo perché alle 8 scenderanno dalle alture 20 brigate partigiane, 10.000 uomini. Meglio filare.
Ma S. padre urla qualcosa alle due donne, che rispondono anch’esse urlando – c’è rumore, i cingolati in testa fanno un frastuono tremendo – poi, non si sa come, parte una raffica e le due donne cadono sull’asfalto.
I partigiani, prontamente avvertiti, rompono l’accordo e, facendo avanzare un’ala dello schieramento, s’appostano sopra la strada, una decina di chilometri più a valle. Quando i nazifascisti giungono là, scoppia l’inferno: gli ultimi troveranno la morte nel Canale Cavour, che ha ripide sponde in cemento ed è gonfio per le piogge primaverili.
Trascorrono una decina d’anni e, una mattina, inaspettatamente, conosco S. zio, il fratello dell’annegato e lo zio del massacrato a colpi di pistola in bocca. Lo conosco a casa di mia nonna: le aveva fatto una visita…ah nonna, nonnina, ti piacevano le divise, lo so…
E’ un bell’uomo, alto, con gli occhi chiari, gentile nei modi ed aristocratico nei gesti: era un ex ufficiale, un ufficiale pilota durante la guerra. Ma lo vedo, nella mente, come Amedeo Nazzari “Luciano Serra Pilota”…no, questo è diverso…ha dei modi molto inglesi…
Non si sottrae alle mie curiosità di ragazzino. “Sì, durante la guerra ero dislocato in Sicilia, scortavamo con i nostri Re-2000 i bombardieri su Malta, nel 1943…fu un errore, nella “confusione della battaglia” per una svista, atterrai a Malta e fui preso prigioniero.
Ci ho ripensato a lungo, ma scambiare Malta per la Sicilia è proprio una cosa impossibile, viste le distanze e le dimensioni in gioco. Era atterrato a Malta. Non si era lanciato col paracadute, proprio atterrato.
Così termina la guerra per la famiglia: un “sopravvissuto” (forse più furbo?) e due morti, padre e figlio.
Mi chiedo, spesso, che senso ha avuto. Per quel ragazzo ammazzato senza motivo, per le due donne uccise.
E oggi, qualcuno – qualcuno che non ha sentito raccontare nulla dalle fonti che avevano vissuto quei giorni – ci viene ad esaltare Mussolini ed a scimmiottare saluti romani. Come non avessimo abbastanza guai, ci mancano ancora questi.
Mussolini un grande statista? Non direi proprio.
L’Italia non aveva motivi per scendere in guerra: poteva solo perdere (come avvenne) le colonie oltremare, alla lunga indifendibili. Non aveva obiettivi strategici da raggiungere e, quando la Francia fu al collasso, pensò di fare il furbetto, come sempre gli era andata bene in Italia, dove gli credevano o fingevano di credergli per paura. Salvo, poi, il 25 Luglio del 1943, divertirsi a fare a pezzi busti ed aquile littorie.
Ma, in quel luminoso Giugno del 1940, il “lungimirante uomo di Stato” sparì, e lasciò il posto al dittatore da operetta qual era. A nulla valsero gli appelli dei generali che gli raccontavano la medesima solfa: per mettere almeno un po’ in quadro le Forze Armate italiane – dopo l’Etiopia e la Spagna – ci vorranno tre anni. Non siamo pronti. “Disfattisti”, pensava di loro.
Non gli passò nemmeno per la testa che una lunga neutralità – magari nell’attesa di vedere chi vinceva – sarebbe stata di grande aiuto all’Italia, sfruttando le commesse dei belligeranti. No, si doveva “tirare diritto”, giungere a 320.000 caduti sui vari fronti, altrettanti feriti e mutilati e decine di migliaia di morti fra la popolazione civile.
Mussolini fu un grande statista? Ma per carità. Fece la battaglia del grano e prosciugò le paludi, ma si dimenticò totalmente dell’industria elettrica ed elettronica, che stava nascendo ovunque. Così, quando il primo “Gufo” (radar italiano) fu installato su un cacciatorpediniere (1943), gli inglesi ci massacravano i convogli, nel buio della notte, da anni.
La Costituzione Italiana fu redatta con un duro monito per chi avesse cercato di ricostituire un partito fascista, ma poi: che senso avrebbe oggi? A cosa servirebbero delle parole d’ordine che sono appartenute ad un’altra epoca, ad un altro Paese, a persone completamente differenti e con tutt’altri problemi?
Il ministro dell’Interno sta giocando col fuoco, senza rendersene conto: abbiamo già vissuto una terribile stagione negli anni ’70-80, con morti da entrambe le parti. Vogliamo ricominciare?
Non si tratta del rispetto per i caduti, che è sacrosanto da entrambe le parti siano morti, ma di andare in giro con striscioni inneggianti a Mussolini, sfruttando la generale ignoranza storica degli italiani. Per cosa? Per guadagnare una manciata di voti. E poi? Quando qualcuno di Casa Pound inizierà a scontrarsi con altri ragazzi, quelli dei centri sociali, di chi sarà la colpa? Si vuole proprio che ci scappi il morto, per poi riprendere la tiritera fra fascismo ed antifascismo, e mascherare che questo governo non ha più un orizzonte credibile, almeno dalla parte dei 5S?
Meglio lasciare che Salvini corra incontro al suo destino, che sarà quello di qualche settimana da leone e tanti anni da pecora, piuttosto che fomentare ancora questi fuochi fatui di un passato che andrebbe compreso, non sottovalutato, tanto meno esaltato.
Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2019/04/scherzare-col-fuoco.html
28.04.2019