RECESSIONE, E SE FOSSE UN'OPPURTUNITA' ?

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 DI EDUARDO ZARELLI

Una volta tanto, la lenta periodicità di questa pubblicazione non è un ostacolo analitico dell’immediato presente. La crisi economica ha raggiunto il parametro tecnico della recessione in questa primavera, ma ha una genesi e, soprattutto, una prospettiva di lunga e probabilmente drammatica durata. L’economia italiana ha iniziato il 2005 ancora peggio di come aveva concluso (male) il 2004, riflettendo la debolezza dell’attività industriale, a sua volta frenata dalla riduzione delle esportazioni e da una domanda interna che ristagna.
Nel contesto di un’illusoria ripresa dell’economia internazionale, trainata artificiosamente dal ricatto del Dollaro statunitense quale moneta di riserva e investimento internazionale supportata dall’egemonia militare sulle fonti energetiche strategiche e dai paesi emergenti dell’Asia (Cina in testa), l’Europa è, in particolare, la grande area economica a crescita ridotta, praticamente nulla.  Il cambio forte in funzione dell’unità monetaria acquisita, da un lato contribuisce a contenere l’inflazione, ma dall’altro inibisce la competitività dei prodotti e, quindi, la crescita delle esportazioni in un mercato globalizzato dove non esistono più ammortizzatori politici e sociali alla cruda e spietata competizione commerciale. La speciale debolezza italiana consiste nella specializzazione in settori manifatturieri maturi. Dove sta la differenza con Germania, Francia e Usa, che vanno solo male? Nell’inefficienza pubblica. I loro sistemi pubblici sono di aiuto alla produzione e all’impresa; da noi sono di ostacolo. Da noi si paga di più l’elettricità, il telefono, internet; il sistema bancario è oligarchico; ogni attività richiede fatiche burocratiche enormi, spesso insormontabili all’intrapresa individuale; la magistratura non funziona, e non funzionano le scuole, le università e la ricerca. Quella vera, non la passerella dei narcisi che vediamo un giorno sì e l’altro pure in una televisione compiacente nell’inculcare i dogmi secolarizzanti dello scientismo. Manca un contesto di legalità, certezza ed uguaglianza sociale di fronte al diritto e all’accesso nella vita pubblica ed economica con il proprio merito.

La recessione italiana è il risultato di vizi fondanti, inefficienze e parassitismi, rendite di posizione, assistenzialismi che esplodono a contatto con la ricetta che gli apprendisti stregoni di destra, centro e sinistra, nessuno escluso, hanno evocato come pozione miracolosa: la globalizzazione. Il suo effetto nel mercato interno è il crollo secco della crescita, caratterizzata dal ristagno dei consumi privati e della caduta degli investimenti, con una drastica riduzione dei risparmi, segno di un mutamento storico/antropologico nelle tradizioni parsimoniose del nostro paese. L’unico bene rifugio è la casa, ma spesso con scopi speculativi che hanno saturato il mercato su prezzi inaccessibili e indebitato gli acquirenti abitatori con mutui sorretti dalla stabilità monetaria, ma non dal poter d’acquisto delle retribuzioni. Difatti la spesa delle famiglie è in caduta verticale, indotta dal risveglio dell’inflazione causata dalla speculazione sull’euro, le negative conseguenze del crollo della fiducia, ma soprattutto con l’emersione in superficie delle bombe di profondità dei nodi strutturali pluridecennali dell’economia “paese”. I ritardi infrastrutturali con utenze doppie a qualsiasi altro paese comunitario nonostante, o forse per, le privatizzazioni; un capitalismo monopolistico-familiare riottoso al mercato che evoca nella flessibilità del lavoro altrui, dedito ai facili pedaggi predatori e parassitari più che alla produzione e all’investimento; una classe dirigente opportunista, fatua, insipiente, priva di spirito pubblico, limitata all’autoperpetuazione più meschina, servile e accondiscendente alla supremazia atlantica e occidentale.

In tale situazione, il fallimento liberistico della imbarazzante superficialità del governo moderato apre le porte allo schieramento assistenzialistico progressista, espressione di un blocco sociale che vuol essere protetto e continuare a parassitare un sistema capitalistico, ora globale, che non permette più margini di protezione sociale.
Date le categorie ideologiche e culturali dei due schieramenti, entrambe vincolati al liberalismo e alla riduzione tecnocratica della politica ad amministrazione del mercato, c’è poco da illudersi sulla capacità di uscire da una empasse che non è congiunturale, ma strutturale e, quindi, superiore al ricettario degli apprendisti stregoni nostrani. In particolare, che si voglia spingere i consumi in una definitiva ubriacatura berlusconiana a colpi di improbabili e creativi tagli sulle imposte o ridistribuire socialmente il prodotto con l’ipocrisia assistenzialistica che negli ultimi decenni ha prodotto l’inquietante debito pubblico nazionale, in entrambe i casi, da destra come da sinistra, si insegue il vero miraggio protervo che alimenta la globalizzazione e la modernità tutta: la crescita, per la quale la nostra felicità è un bisogno sensistico che passa per l’aumento della produttività, del potere d’acquisto e quindi dei consumi.

Se questa rivista ospita la minoritaria ed emarginata schiera di anticonformisti che denuncia l’impossibilità di analizzare le contraddizioni dei nostri tempi sulla base delle logore categorie di destra e sinistra, è obbligata a rilanciare un’ipotesi altra, in controtendenza, alle ricette sviluppiste che contraddistinguono entrambe gli schieramenti. Non è il caso di cominciare a riflettere se pensare soltanto agli aumenti del PIL non sia una solenne sciocchezza? E addirittura se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela – magari anche meglio – con una “economia in contrazione”? E cioè producendo, comprando e vendendo non molto di più del necessario per vivere?

In tal senso, la decrescita è innanzitutto uno slogan. Un forte appello per indicare la necessità e l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati. Un’inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con gli equilibri omeostatici della natura. Esso porta con sé, sulla scia dei paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell’insicurezza personale e collettiva. La decrescita non è una ricetta ma un segnale di controtendenza, un segnavia per intraprendere un sentiero diverso. Un percorso che ci conduca verso un nuovo immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva metapolitica. È l’orizzonte di un’altra economia: giusta e sostenibile, cioè comunitaria. È il sostrato materiale di un principio universale di giustizia internazionale: l’autodeterminazione dei popoli.

Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, cui seguiranno quelle per l’acqua, ma non solo. Si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche. In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. La società della crescita non può essere sostenibile, perché si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell’impatto ambientale del nostro stile di vita l'”impronta” ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell’equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.

Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto per l’ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica nell’ecoefficienza: un concetto cruciale, che rappresenta in verità l’unica base seria dello “sviluppo sostenibile”. Si tratta di ridurre progressivamente l’impatto ecologico e l’incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta. Indubbiamente, l’efficienza ecologica è notevolmente migliorata; spesso la tecnologia stessa ha migliorato il suo connaturato effetto antropico ma poiché la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.

È vero che la “nuova economia” è relativamente più immateriale (o meno materiale); ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l’economia tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad aumentare. Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura con l’artificio.

La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché dispensa un benessere materialistico illusorio; perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e perché non offre un tipo di vita filosoficamente o religiosamente giusta, conviviale e comunitaria. È un'”antisocietà” malata della propria ricchezza, egoismo, utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi “sviluppati” è un’illusione. Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma subìto, della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di “compensazione” e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna, o determinate all’aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l’acqua in bottiglie, l’energia, il verde…). Lo stesso criterio di “qualità della vita” è oramai ostaggio del nichilismo individualista che affoga nell’inautenticità della mercificazione universale, disponendo come essenziale per una fattiva controtendenza il reincantamento del mondo su principi certi inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo.

Per concepire e realizzare una società di decrescita bisogna letteralmente uscire dall’economia ed il suo immaginario pragmatico e utilitarista. In altri termini, per dirla con Serge Latouche, rimettere in discussione il dominio dell’economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti.

Un primo passo per una politica della decrescita è, ad esempio, quello di ridurre, se non sopprimere, l’impatto ambientale di attività tutt’altro che soddisfacenti. Si tratterebbe di ridimensionare l’enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con tutte le loro conseguenze negative: una “rilocalizzazione” dell’economia. Lo scambio deve riguardare la reciprocità dell’indispensabile, cioè dei prodotti specifici dei luoghi e delle culture, l’inverso della delocalizzazione anonima dei prodotti specializzati della tecnica.

In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici che si insinuano a livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente. In questo orizzonte l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e sostenibili) e su reti di scambio complementari e reciprocitarie piuttosto che gerarchiche fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di lei, dunque, responsabile e consapevole. Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: la sacralità della vivente sulla mercificazione; l’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo; la reciprocità comunitaria sulla competizione; il piacere ludico e relazionale sull’ossessione del lavoro; l’importanza della vita sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull’efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, poiché suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di un’etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull’attuale tendenza e minare alla base l’immaginario del sistema. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato al piano della coscienza individuale. Un nuovo paradigma ha la necessità di persuadere per via metapolitica l’indispensabilità del mutamento epocale sul piano generale, culturale e sociale. Non sappiamo come manifestarlo adeguatamente e se la forza delle nostre idee siano in grado di rispondere a questo compito tragico. Quello che è certo è che siamo in un’epoca di transizione; la scelta di rendersi spettatori passivi o attori coscienti dipende solo dalla forza di volontà degli uomini, indipendentemente dal destino delle cose ed i suoi esiti ultimi.

Eduardo Zarelli
Fonte:www.opifice.it/
maggio/giugno 2005

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