Yvonne Ridley
middleeastmonitor.com
Dopo la morte per Covid-19, all’inizio di questa settimana, l’eredità dell’ex Segretario di Stato americano Colin Powell sarà esaminata da molte persone per ragioni assai diverse. Alcuni lo elogeranno come uno dei migliori diplomatici e consiglieri presidenziali americani. Molti altri, sospetto, lo ricorderanno come l’uomo che aveva mentito per il suo Paese, più e più volte.
Uno dei saggi greci, Chilon di Sparta, disse che non dovremmo parlare male dei morti (quello che ora è l’aforisma latino “De mortuis nil nisi bonum dicendum est”), una massima con cui mi trovo generalmente d’accordo. Tuttavia, è proprio a causa dei morti che sto scrivendo questo articolo.
I morti a cui mi riferisco sono quelli di molte nazioni del mondo; tanti uomini, donne e bambini che hanno lasciato questa terra senza misericordia, senza una voce che parlasse per loro e senza giustizia. Milioni di altri devono ancora trovare qualcosa che assomigli alla tranquillità o alla pace a causa del militarismo statunitense, delle guerre, degli interventi e delle atrocità commesse [dagli USA] nel corso di molti decenni. Powell ha sostenuto, giustificato e coperto la maggior parte di questi crimini, dal Vietnam ad oggi.
Un servizio commemorativo per il generale Powell si terrà il mese prossimo nella Cattedrale Nazionale di Washington, la capitale degli Stati Uniti. I cosiddetti grandi e buoni faranno l’elogio del primo Afroamericano arrivato al vertice degli Stati Maggiori Riuniti e alla carica di Segretario di Stato. Il mio contributo non è per Powell e le persone in lutto, ma per i sopravvissuti a cui nessuno pensa che, questa settimana, avranno nuovamente gli incubi nel vedere il suo nome sui titoli dei giornali.
Per il popolo iracheno, Powell è l’uomo che aveva fatto il lavoro sporco, battendosi per una guerra che ha creato più di un milione di vedove e orfani. Le stime del numero di morti in Iraq continuano a cambiare. Nel febbraio 2003, era stato Powell a presentarsi all’ONU a nome del presidente George W. Bush e a parlare con grande autorità, usando materiale fotografico, per “provare” che l’Iraq di Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa (WMD). Questa era una bugia, e lui lo sapeva.
Un paio di settimane prima del suo discorso, alcuni rifugiati algerini erano stati arrestati a Wood Green, nel nord di Londra, con l’accusa di aver sintetizzato un composto tossico a base di ricino. I media britannici avevano affermato a titoli cubitali che la polizia antiterrorismo aveva scoperto una cellula di Al-Qaida pronta a diffondere questo mortale veleno su una popolazione ignara. Gli articoli più scandalistici avevano anche sostenuto che la “fabbrica di ricino” avrebbe contenuto attrezzature per la fabbricazione di bombe. Il primo ministro britannico Tony Blair – un altro che assai di rado dice la verità – aveva scatenato l’isteria affermando che “questo pericolo è presente e reale, con noi, ora.”
Blair era stato appoggiato da Powell nella sua presentazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU; entrambi avevano gonfiato il caso, spingendo per una guerra contro l’Iraq. Powell aveva, in tutta serietà, definito la “scoperta” di Londra una “rete terroristica legata all’Iraq.” Nonostante il fatto che il centro ricerche sulle armi chimiche del governo britannico a Porton Down sapesse che a Wood Green, all’inizio di gennaio 2003, non c’era nessun veleno a base di ricino, Powell era andato avanti e aveva continuato a spacciare le sue menzogne a prescindere. Sia Blair che Powell sembravano aver ignorato i fatti. In un nido di vipere, è sempre difficile distinguere una serpe dall’altra.
Due anni dopo, durante il processo ai rifugiati algerini all’Old Bailey, era emersa una storia molto diversa: non esisteva nessun veleno al ricino e nessun sofisticato complotto di Al-Qaida. Il presidente della giuria, Lawrence Archer, era rimasto talmente indignato da quanto era emerso durante i sette mesi di odissea legale che aveva scritto un libro con la giornalista Fiona Bawdon, esponendo le bugie dette da Powell, menzogne che erano state sostenute da discorsi “spudoratamente distorti” dal governo britannico, dai media e dalle agenzie di sicurezza.
Powell aveva poi dichiarato di essersi pentito della sua performance all’ONU. Questo però non aveva aiutato gli Algerini, che erano rimasti in una prigione di massima sicurezza per più di due anni fino, a quando il caso contro di loro non era crollato durante l’ignobile processo. Powell sapeva che non esisteva nessun complotto al ricino; anzi, che non esisteva neanche il ricino, quindi cos’era la polvere bianca nella fiala che aveva così drammaticamente agitato alla riunione del Consiglio di Sicurezza?
Per la gente del Vietnam, Colin Powell è l’ufficiale che aveva coperto i crimini di guerra compiuti a Mỹ Lai da un’unità delle truppe statunitensi che aveva massacrato 500 civili. Powell, in una nota del 1968, aveva ammesso che potevano esserci stati “casi isolati di maltrattamenti,” ma nell’agosto 1971, era stato costretto a dire la verità durante una deposizione giurata al processo per crimini di guerra del generale di brigata John Donaldson che, secondo l’accusa, abitualmente “uccideva o ordinava l’uccisione di civili vietnamiti disarmati e non resistenti” dal suo elicottero.
Powell nel 1985, da assistente senior del segretario alla Difesa USA si era ingraziato Caspar Weinberger aiutandolo a coprire la vendita di armi all’Iran, in modo che l’amministrazione Reagan potesse incanalare il denaro ai controrivoluzionari di destra del Nicaragua, i Contras, sostenuti e finanziati dagli USA. Weinberger era stato imputato con cinque capi d’accusa relativi al cosiddetto scandalo Iran-Contras, solo per essere graziato dal presidente George H.W. Bush prima che potesse essere processato. Si era poi saputo che Powell aveva partecipato personalmente ad almeno una vendita segreta di armi in cambio di ostaggi.
Negli anni successivi Powell era stato coinvolto in molte vicende, che avevano visto la caduta di alcune dittature e l’ascesa di altre nel corso di interventi militari statunitensi a Panama, nelle Filippine, in Somalia, in Liberia, in Bangladesh, in Russia, in Bosnia, in Afghanistan, nel Golfo Persico e in Medio Oriente.
Per i Palestinesi – e per me stessa, devo aggiungere – Powell sarà sempre l’uomo che, nei loro confronti, era stato infido e doppio. Aveva mentito sul massacro dei Palestinesi compiuto da Israele nel campo profughi di Jenin, nell’aprile 2002.
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) avevano disperatamente cercato di nascondere uno dei loro numerosi crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata. Tra il 1° e l’11 aprile, al culmine della Seconda Intifada (Al-Aqsa), i loro uomini avevano ucciso almeno 52 Palestinesi nel campo profughi [di Jenin]. La vile soldataglia di Ariel Sharon se la sarebbe squagliata in fretta e furia se non fosse stato per il problema di come coprire l’uccisione di così tante persone. Era un dilemma che aveva assillato le menti dei responsabili della cosiddetta Operazione Scudo Difensivo.
Come avevo scritto su MEMO l’anno scorso: “Avevano così deciso di imporre un assedio così stretto che nessuno, nonostante le proteste globali, aveva potuto superare l’anello d’acciaio di Israele; era stato un blocco totale ed era durato settimane, mentre il governo israeliano faceva del suo meglio per tenere giornalisti e osservatori dei diritti umani lontani dalla città palestinese…
L’atmosfera era tesa e l’ONU aveva annunciato che intendeva avviare un’indagine sulle plausibili accuse di crimini di guerra commessi dagli Israeliani nel campo profughi. Gli Israeliani avevano fatto quello che sanno fare meglio e avevano mobilitato politici e consiglieri di governo abbastanza malleabili per ingannare un pubblico e dei media creduloni.”
Powell, all’epoca Segretario di Stato, aveva cercato di calmare le acque, usando toni seri e autorevoli, durante una conferenza stampa all’Hotel King David di Gerusalemme, lo stesso che i terroristi sionisti avevano saltare in aria nel 1946, uccidendo 91 persone e ferendone altre 41. L’ironia non era sfuggita ai Palestinesi e al mondo che assisteva.
Aveva affermato di non aver visto “nessuna prova” di un massacro. Nell’articolo dell’anno scorso avevo sottolineato che: “Il 23 aprile Powell era tornato a Washington per informare i senatori: ‘Fino ad ora, non ho visto prove di fosse comuni e non ho visto prove che suggeriscano che ci sia stato un massacro’. Non stava mentendo, naturalmente, perché non era mai andato a Jenin, quindi non avrebbe potuto ‘vedere’ le prove, anche se avesse voluto.”
Ero stata uno dei primi giornalisti ad arrivare sulla scena, ed ero nel campo profughi di Jenin il giorno in cui l’ex generale aveva presentato il suo men che onesto briefing ai media di tutto il mondo. La rabbia e la frustrazione che avevo provato ascoltando le sue bugie non erano probabilmente nulla in confronto ai sentimenti dei Palestinesi di Jenin, che mi avevano raccontato come le loro madri, mogli, figli e altri congiunti fossero stati uccisi davanti ai loro occhi. Ricordo di aver visto un gruppo di donne palestinesi scavare tra le macerie a mani nude e insanguinate, alla ricerca dei corpi dei loro cari. Il fetore della morte era opprimente. Inoltre, anche se Powell aveva asserito di non aver visto “nessuna prova” di un massacro, Human Rights Watch non era stata d’accordo e lo aveva ribadito pubblicando un duro rapporto sugli avvenimenti di Jenin.
La rivista online Jacobin ha pubblicato un brutale necrologio di Powell. “Non c’è niente di onorevole o di decente nella lunga lista di crimini di guerra di Colin Powell” è il titolo. Io e milioni di persone come me non potremmo essere più d’accordo. È stato sepolto venerdì mattina, ma ancora non c’è una lapide ufficiale. Quando, alla fine, sarà fissata sulla sua tomba, dovrebbe essere molto semplice: “Qui giace Colin Powell – nella morte come nella vita.”
Yvonne Ridley
Fonte: middleeastmonitor.com
Link: https://www.middleeastmonitor.com/20211023-here-lies-colin-powell/
23.10.2021
Scelto e tradotto da Markus per coemedonchisciotte.org