OLTRE I DIRITTI DELL'UOMO – PER DIFENDERE LA LIBERTA'

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Intervista ad Alain de Benoist e Danilo Zolo sui temi del libro di A. de Benoist ‘Oltre i diritti dell’uomo-per difendere la libertà’

A CURA DI MAURIZIO MESSINA

DOMANDE

1. Quale valenza ha il discorso del cosiddetto occidente sui diritti dell’uomo se è vero, come è vero, che esso ignora o addirittura attenta al diritto dei popoli per motivi egemonici, culturali, economici? Così come nell’800 il colonialismo mercantile pretendeva di arrecare “progresso e civiltà”, oggi il fondamentalismo mercantile del terzo millennio si autoproclama portatore di “diritti e democrazia”: c’è una continuità storica in tutto ciò?

2. Nel volume “Oltre i diritti dell’uomo” si afferma che per difendere le libertà “… la stessa società che a parole celebra i diritti dell’individuo, poi di fatto è quella che ha messo a punto i più asfissianti meccanismi di controllo collettivo”. Pensa che la causa di questa contraddizione reale sia da ascriversi alla impossibilità di coincidenza tra “unicità” ed “eguaglianza” nell’individuo? Nessuna persona, insomma, può essere allo stesso tempo “unica” ed “eguale” ad un’altra persona… 3. Nel 1976, ad Algeri, fu sottoscritta da diverse nazioni la “Carta dei diritti dei popoli”. Si parlava di diritti all’autodeterminazione, di difesa della propria cultura, delle proprie ricchezze e risorse naturali ecc… A circa trent’anni di distanza sembrerebbe che si siano fatti molti passi indietro rispetto alle aspettative dello scorso secolo. Dovremo necessariamente augurarci un mondo futuro bi – tri – polare (USA controbilanciato da Russia, ancora una volta, e dalla nuova Cina capitalmarxista), per poter vedere un mondo riequilibrato (non conseguentemente migliore), ma ancora con l’assenza di un soggetto europeo?

4. C’è un’idea, un concetto, una prassi che ai giorni d’oggi appare sempre più offuscata, dimenticata nella società europea: la sovranità. Non si parla di sovranità della persona, non si affrontano i problemi riguardanti la sovranità di una nazione, di un popolo, di una comunità. Tutto è mediato attraverso altri concetti – specchio: umanità, diritti, mercato. Quale, secondo Lei, la possibilità di una inversione di tendenza o, quantomeno, di una fuoriuscita da questo percorso obbligato, che nega l’esistenza delle differenze e quindi la vita?

ALAIN DE BENOIST:

1. Nel corso della sua storia l’Occidente ha costantemente cercato di controllare il mondo imponendogli di riconoscere come “universali” valori, tematiche, modi di organizzazione politica e sociale che erano a lui propri. Il metodo utilizzato per arrivare a questo scopo è sempre stato quello dell’ingiunzione mascherata. L’Occidente ha preteso prima di portare alle altre culture le certezze dogmatiche della “vera fede” (cristiana). In seguito ha preteso di esportare la “civiltà” e il “progresso”, specialmente attraverso la colonizzazione. Oggi predica lo”sviluppo” e i “diritti dell’uomo”. Successivamente ciò che si è potuto chiamare “le tre M” (missionari, militari e mercanti) ha tentato di ottenere la conversione degli altri popoli a una forma di universalismo religioso, politico o economico di cui oggi si sa bene che non è null’altro che etnocentrismo mascherato. Da questo punto di vista c’è una incontestabile continuità.
L’ideologia dei diritti dell’uomo oggi serve a mascherare l’estensione planetaria del mercato. Quest’ideologia è di origine occidentale e si può facilmente risalire alla sua storia. A dispetto delle sue pretese, è difficilmente esportabile o universalizzabile, poiché si fonda su un’antropologia fondata sul contrattualismo e soprattutto sull’individualismo, ossia su un’idea di uomo-individuo astratto, dalla natura prepolitica e fondamentalmente non sociale, individuo presupposto come autosufficiente che non avrebbe altra vocazione che la continua ricerca del suo massimo interesse materiale. Una simile concezione dell’uomo è estranea alla maggior parte delle culture della terra che, non segnate dall’eredità dei Lumi, hanno grandi difficoltà a concepire l’uomo come individuo staccato dalle sue appartenenze.
I diritti dell’uomo sono spesso associati alla democrazia, ma questa associazione è ingannevole. L’esperienza storica mostra che l’ideologia dei diritti dell’uomo rappresenta al contrario una limitazione della sovranità popolare, poiché ne ammette il pieno esercizio solo nella misura in cui essa non metta in discussione i suoi principali postulati (un voto popolare che contraddica i diritti dell’uomo è considerato nullo e non avvenuto). L’ideologia dei diritti dell’uomo non ha in effetti niente di politico e questa è la ragione per cui è particolarmente inadatta a difendere concretamente le libertà concrete di uomini concreti. Si tratta di un’ideologia morale che attinge dal linguaggio del diritto. Ma il diritto a cui si richiama non ha niente a che vedere con ciò che era in origine il diritto, che Aristotele nella sua Etica Nicomachea definisce come un rapporto di equità all’interno di una relazione, come una spartizione che ha per oggetto il dare o il rendere a ciascuno ciò che gli spetta. Il diritto dell’ideologia dei diritti dell’uomo deriva dall’idea di diritto soggettivo che compare alla fine del Medioevo, specie nella scia della seconda Scolastica spagnola. In questa concezione il diritto (jus) tende a confondersi con la norma o la regola morale identificata con la legge (lex) , mentre i diritti, al plurale, sono percepiti come attributi della natura umana. In ultima analisi, l’ideologia dei diritti dell’uomo non è che l’ultimo dei tentativi miranti a sottomettere la politica alla morale attraverso il diritto.

2. Non è esattamente ciò che ho voluto dire. La sua domanda rivela in effetti tutti gli equivoci che si legano al concetto di uguaglianza. È chiaramente impossibile essere allo stesso tempo “unico” e “uguale” ad altri se si interpreta l’uguaglianza nel senso della somiglianza o dell’identità. Non possiamo essere allo stesso tempo identici e diversi! È d’altra parte la ragione per cui ciò che ho chiamato l’ideologia del Medesimo – etichetta comprendente tutte le forme di universalismo, religioso o profano, la cui realizzazione ha come effetto concreto quello di ridurre la diversità umana – si è costantemente dimostrato allergico alla differenza. Tuttavia si può dare al concetto di uguaglianza un contenuto positivo quando, senza più renderla un’astrazione o un assoluto, la si rapporta a un contesto particolare. Il principio della democrazia, ad esempio, poggia sull’uguaglianza politica dei cittadini. Ciò non significa affatto che tutti i cittadini abbiano capacità uguali in tutti gli ambiti (non si tratta di una uguaglianza di tipo naturale), ma che essi godono di una uguaglianza politica nella misura in cui sono tutti ugualmente cittadini, membri di una stessa unità o comunità politica, poiché per definizione la nozione di cittadino non è suscettibile di un più o di un meno.
Ciò su cui ho voluto infatti attirare l’attenzione nel passaggio da lei citato è la constatazione, assai banale, che non sono mai stati violati tanto i diritti dell’uomo come da quando essi sono stati resi la chiave di volta del discorso pubblico. Ad un primo livello se ne potrebbe concludere che addurre i diritti dell’uomo è un bel modo di mascherare il fatto che li si viola senza esitazioni. Esempio banale: gli Stati Uniti occupano l’Iraq in nome dei diritti dell’uomo, dopo di che istituzionalizzano la tortura e massacrano 100.000 civili iracheni. Ad un secondo livello si deve osservare che numerose forme moderne o postmoderne di alienazione sfuggono completamente alla critica dei diritti dell’uomo, a cominciare dall’influenza dei mercati finanziari, i maneggi delle multinazionali o l’alienazione dell’immaginario simbolico per effetto dei condizionamenti della pubblicità. Infine, non può non essere motivo di preoccupazione il vedere che le società occidentali, pur facendo vistoso riferimento ai diritti dell’uomo, non cessano di mettere in opera procedure di controllo generalizzato e di sorveglianza totale che evidentemente ledono le libertà, grazie a tecniche sempre più sofisticate che i regimi totalitari del secolo scorso avrebbero potuto solo sognare.

3. L’adozione della carta di Algeri non ha avuto, beninteso, alcuna conseguenza, non solo perché contravveniva in modo diretto agli interessi delle superpotenze, ma anche perché esistono delle contraddizioni insormontabili fra i diritti individuali e i diritti delle culture o dei popoli. Le attuali discussioni sul chador islamico non sono che un esempio di ciò fra molti altri. Il crollo del sistema sovietico ha creato improvvisamente un vuoto in cui si è inserita la superpotenza americana. Gli Stati Uniti oggi godono di una sorta di monopolio della potenza. Ma sono anche posti di fronte a notevoli difficoltà interne, come a una situazione economica e sociale che cessa di degradarsi (aumento costante delle ineguaglianze, enormi deficit di bilancio, diminuzione regolare del loro ruolo nel commercio mondiale, accresciuta dipendenza nei confronti dell’estero in conseguenza del fatto che essi consumano più di quanto producano ecc.). Il loro obiettivo è quindi di approfittare dei prossimi dieci o quindici anni per tentare di stabilizzare il monopolio di cui godono oggi. Nell’immediato si tratta per loro di assumere il controllo delle principali fonti mondiali di approvvigionamento energetico e di fare del tutto per prevenire l’emergere nel mondo di una potenza concorrente o rivale. Hanno fatto un ricorso sempre maggiore e vi si impegnano nella direzione dell’unilateralismo (che trasforma i loro alleati in vassalli), ritenendosi completamente svincolati dagli obblighi del diritto internazionale; vogliono, in altri termini, creare un mondo unipolare in cui essi giocherebbero il ruolo del “poliziotto globale” (globalcop). L’interesse di quello che loro chiamano spregiativamente il “resto del mondo” (rest of the world) è chiaramente tutto l’opposto. Per l’Europa, la Russia, la Cina, l’India ecc. l’obiettivo è, al contrario, ricostruire un mondo multipolare – ciò che Carl Schmitt chiamava un pluriversum – in cui ciascun polo continentale potrebbe assumere un ruolo regolatore nei confronti della globalizzazione. Per contribuirvi gli Europei devono dare la priorità all’approfondimento delle loro strutture politiche istituzionali, e non ad un allargamento che li condanna all’impotenza e alla paralisi, e soprattutto porre il problema delle finalità della costruzione europea: la fondazione di una potenza autonoma che costituisce allo stesso tempo un progetto di civiltà. Per il momento, essi non ne hanno evidentemente né il desiderio né la volontà. L’approfondimento del fossato fra le due sponde dell’Atlantico, che credo ineluttabile, può nondimeno spingerli in questa direzione.

4. Quando si parla di sovranità bisogna prima chiedersi in che cosa essa possa consistere nel mondo attuale e anche quali possano esserne le ragioni d’essere (poiché la sovranità non è un fine in sé). Non sono d’accordo con l’idea che la sovranità oggi sia scomparsa. Essa ha solo abbandonato le sue istanze tradizionali per riapparire sotto altre forme e/o in altri luoghi. C’è oggi ad esempio una evidente sovranità dei mercati finanziari, come c’è, sul piano dei valori, una egemonia incontestabile dell’utilitarismo mercantile. In fondo è un altro modo di dire che il potere politico non ha cessato di vedere la sua capacità di autonomia e di decisione restringersi al profitto della sfera economica e finanziaria (ma anche tecnologica). Ma quest’ultima, nella stessa misura in cui si ritrova dotata di un potere sovrano di decisione, assume a sua volta delle caratteristiche politiche. D’altra parte ci sono concezioni diverse di sovranità. Nella concezione giacobina, già teorizzata da Jean Bodin, la sovranità è definita dall’indivisibilità, dall’autosufficienza e dall’indipendenza assoluta. Non è la mia concezione. In quanto federalista, aderisco a una nozione di sovranità più flessibile, sovranità che può essere condivisa e che poggia sul principio di competenza sufficiente, cioè di sussidiarietà. In qualsiasi modo essa si ripartisca o si distribuisca, la nozione di sovranità implica tuttavia sempre l’autonomia e la capacità di decisione. È il problema che si pone oggi, quando la sfera politica si è trovata progressivamente priva, per azione dell’economia, della tecnica, della morale e del diritto, di questa capacità di autonomia e di decisione. Perché se ne possa riappropriare occorrerebbe già ridefinire in modo rigoroso ciò che spetta a ciascuno dei suoi ambiti, la cui confusione è incompatibile con ogni esigenza di pluralità. È chiaro, a mio avviso, che ciò esige una riorganizzazione completa della società attuale, una riorganizzazione a partire dalla base, e non dall’alto, che darebbe un ruolo più importante alle iniziative locali, alla democrazia diretta e alle comunità.

DANILO ZOLO:

1. A mio parere c’è una sicura continuità storica fra il colonialismo classico e l’ambizione all’egemonia globale che, dalla reinterpretazione wilsoniana della dottrina Monroe in poi, ha animato la politica estera degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno ereditato dalla vecchia Europa la vocazione razzista, espansionista e missionaria del colonialismo classico, affermatosi fra ottocento e novecento nel mondo intero. La guerra in Vietnam è stata sicuramente l’episodio centrale di questa transizione, che la dura sconfitta subita dagli Stati Uniti non ha bloccato. Al contrario si può dire che, vinta la quarta guerra mondiale – la guerra fredda -, gli Stati Uniti hanno ripreso con grande impeto la loro strategia egemonica, sino a farne una prospettiva di dominio imperiale del pianeta, grazie all’uso monopolistico dei grandi mezzi di distruzione di massa. La retorica contemporanea dei diritti dell’uomo equivale, entro il repertorio delle giustificazioni occidentali della guerra, alle vecchie retoriche della difesa della cristianità, dell’esportazione della civiltà e del progresso, della garanzia della sicurezza e della pace. Oggi, in un tempo di espansione planetaria degli strumenti di comunicazione di massa, l’universalismo normativo della dottrina dei diritti dell’uomo si presta assai bene a fondare il carattere ‘giusto’ di una guerra di aggressione e ad assicurare agli aggressori il necessario consenso, interno e internazionale.

2. Su questo punto dissento un po’ da Alain de Benoist. Non credo che la civiltà politica europea, quella che ha ‘inventato’ lo Stato di diritto e il diritto costituzionale moderno, possa essere accusata di aver messo a punto “i più asfissianti meccanismi di controllo collettivo”. Nonostante tutto, nonostante le recenti, opprimenti forme di ‘videocrazia’ che si sono affermate in occidente, non si può negare che un certo numero di diritti civili e ‘libertà negative’ sono stati sempre protetti nella tradizione dei paesi liberaldemocratici europei. Altro discorso, certo, andrebbe fatto per i diritti politici e per i cosiddetti ‘diritti sociali’. Ma a negare e sopprimere in radice le libertà individuali sono stati i regimi autoritari, fascisti, nazisti e sovietici. Detto questo non c’è dubbio, secondo me, che l’eguaglianza è una nozione politica ambigua: in realtà, chi lotta per l’eguaglianza, sotto l’insegna di valori e finalità universalistiche, combatte in realtà non per divenire eguale ad altri o per rendere altri eguali a se stesso, ma per abbattere i privilegi di uno specifico avversario e per affermare le proprie particolari aspettative, la propria individuale soggettività. Penso che una sinistra moderna dovrebbe archiviare la nozione, sostanzialmente vuota, di ‘eguaglianza’ e sostituirla con quella della autonomia dei soggetti: autonomia economica, politica, cognitiva.

3. Il diritto di autodeterminazione dei popoli è stato soppiantato dalla dottrina statunitense, poi divenuta dominante, dell’ humanitarian intervention che, assieme alla sovranità degli Stati, tende a cancellare anche il potere costituente dei popoli, la loro autonomia e indipendenza politica. Questo è un gravissimo passo indietro rispetto allo stesso ‘sistema di Vestfalia’ che la Carta delle Nazioni Unite ha tentato di superare. La stessa dottrina dei ‘diritti collettivi’ – il diritto alla propria cultura, a parlare la propria lingua, a professare la propria religione – è sostenuta da autori non occidentali, mentre i classici Bill of Rights occidentali tendono a ignorarli, riducendoli al più a puri diritti individuali. Oggi i diritti collettivi – si pensi all’etnocidio del popolo palestinese, ad esempio – sono ignorati e sempre più minacciata è la stessa sovranità degli Stati. E’ chiaro che il sistema del diritto internazionale moderno, che si fonda sulla sovranità dei singoli governi nazionali, non può funzionare in presenza di un soggetto – gli Stati Uniti d’America – che si ritengono e tendono ad essere considerati legibus soluti, al di sopra della legge. Soltanto una redistribuzione del potere internazionale che dia vita a un pluralismo di grandi spazi politici con al centro un’Europa dotata di una forte identità politica e di una piena autonomia può portarci verso un ordine internazionale, non dico giusto e pacifico, ma meno spietato e sanguinario.

4. Sono perfettamente d’accordo: occorrerebbe un forte recupero dell’idea di sovranità, sia pure in un contesto che richiede una intensa cooperazione transnazionale per affrontare problemi globali rispetto ai quali il singolo Stato oggi è nettamente fuori scala. Occorre affermare con forza che il carattere globale dei problemi che abbiamo di fronte – lo sviluppo economico ed umano, l’equilibrio ecologico, lo sfruttamento equilibrato delle risorse energetiche, l’equa distribuzione della risorsa idrica, la lotta contro la criminalità organizzata, il controllo delle armi nucleari, etc. – non significa affatto che globale debba essere anche il potere politico. Non significa che si debba auspicare la formazione di uno ‘Stato globale’, di un Leviatano cosmopolitico. Questa semplicistica idea, di origine kantiana, ignora che un potere accentrato è un potere meno visibile e controllabile e ignora che, in presenza di fenomeni di concentrazione del potere internazionale, i soli soggetti che sono in grado di gestire tale potere sono le grandi potenze economiche e militari. Oggi, di fatto, solo gli Stati Uniti sono in grado di esercitare una piena, assoluta sovranità, limitando ad libitum – si pensi alla prassi della messa al bando dei rogue States – la sovranità delle potenze medie e piccole. La via di uscita, come ho già accennato, è un mondo differenziato e policentrico, nel quale l’Europa riacquisti un suo decisivo ruolo strategico, in dialogo sia con le culture dell’altra sponda del Mediterraneo, sia con i paesi dell’Asia centrale, oggi sottoposti alla aggressione degli Stati Uniti e dei loro più stretti (più servili) alleati, a cominciare dall’Italia.

Fonte:www.centroitalicum.it
Novembre 2004

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