DI CRISTIANO TINAZZI
Thomas Friedman è tornato a dire la sua. Dalle pagine del New York
Times, Friedman si è lanciato in una dichiarazione forte e fuori
dalle righe: ha affermato che in Iraq i combattenti non si devono
più chiamare resistenti ma fascisti. Le sue dichiarazioni, come al
solito, non sono cadute nel vuoto. Pronto a raccogliere l’assurda
dichiarazione, Pierluigi Battista, che in un articolo sul Corriere
della Sera, si è subito fatto panegirista del suo mentore
d’oltreatlantico.
Ma andiamo per gradi. Innanzitutto chi è Thomas Friedman? Friedman è
un editorialista del New York Times, un liberal che è stato
consigliere speciale della segretaria di Stato Madeleine Albright
durante l’amministrazione Clinton. Per capire il pensiero
del “liberal” Friedman leggiamo un estratto del
Friedmanpensiero: “Per far funzionare la mondializzazione, l’America
non deve aver paura di agire come la superpotenza invincibile che in
effetti è […]. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai
senza un pugno invisibile. McDonald’s non può espandersi senza
McDonnel Douglas, il fabbricante dell’F-15. E il pugno invisibile
che garantisce la sicurezza mondiale della tecnologia della Silicon
Valley si chiama esercito, aviazione, forza navale e corpo dei
marines degli Stati Uniti”. Thomas Friedman, è un guerrafondaio, un
militarista, un liberal come possono essere liberal i teorici
neocons. Eh già, perché quelli che oggi vengono chiamati neocons,
sono in realtà stati, per la maggior parte, esponenti del mondo
liberal americano. Ovvero uomini e donne di “sinistra” confluiti in
quel progetto simpatico che viene candidamente chiamato
di “esportazione di democrazia” portato avanti dalla Casata Bush e
dai suo alleati ultraconservatori. Progetto che è nato sotto l’egida
del Presidente Clinton nel 1997 con il PNAC (Project for the New
American Century) e che è stato poi portato avanti da Bush figlio.
Dire che Friedman sia omologato al progetto PNAC sarebbe una
forzatura, ma Friedman è diverso dagli uomini del “think tank”
neocons solo per l’approccio alla questione, non per la sostanza. E’
una vecchia storia che si ripete. Successe la stessa cosa riguardo
alla questione palestinese. In quel caso liberal e repubblicani
erano perfettamente identici sulla questione. Il liberalismo
americano degli anni di Truman presentò, e non solo sulla questione
ebraica, un doppio atteggiamento: progressista nell’opinione
pubblica liberal e nella stampa di eguale tendenza; moderato, e
talvolta incline al conservatorismo, nella classe dirigente.
Secondo Chomsky, i media sono monopolio dell’industria e sostengono
tutti la stessa ideologia. Sia che si definiscano “liberal”
oppure “conservatori”, i principali media sono grandi aziende,
possedute da (e strettamente legate a) società ancor più grandi.
Come altre imprese, vendono un prodotto a un mercato. Il mercato è
quello della pubblicità, cioè di un altro giro d’affari. Il prodotto
è l’audience. I due partiti esistenti negli Stati Uniti sarebbero
quindi due fazioni del partito degli affari. Friedman è dunque uno
dei giornalisti più importanti degli Stati Uniti. La sua parola ha
un peso, è seguita, ma le sue parole non sono libere, sono dettate
da quell’establishment per cui lavora.
Thomas Friedman, sul New York Times, durante l’ultima campagna
elettorale, suggerì a Kerry le parole che avrebbe dovuto dire a Bush
sulla vicenda irachena: “per prima cosa vorrei rivolgere un
messaggio ai baathisti e ai fascisti islamisti, quelli che sono duri
a morire, che non si rassegnano, che stanno facendo di tutto per
contrastare gli sforzi dell’Iraq di costruire il loro primo governo
democratico. Io non sopporto il modo in cui Bush ha deciso di
intraprendere questa guerra. So che l’avrei fatto meglio io. Ma io
voglio che ogni attentatore suicida, da Bali a Bagdad, si metta in
testa una cosa sulla mia Amministrazione: potete farvi esplodere da
oggi fino al prossimo Ramadan, ma noi non ce ne andremo dall’Iraq.
Potrete morire ma noi rimarremo in Iraq. C’è qualche cosa che non
avete capito?”. Il pensiero di Friedman è chiaro. Il linguaggio
anche. Friedman ha già usato il termine fascisti per definire la
Resistenza irachena.
Puntuale, Pierluigi Battista, coglie la palla al balzo e si insinua
in una diatriba che scuoteva l’Italia. Ovvero se è improprio o meno
definire con il termine “Resistenza” l’opposizione Ba’athista,
religiosa, comunista e quant’altro, che si oppone all’occupazione
americana.
Per il centrodestra già questo problema non si poneva. Per loro
erano terroristi. Ma il centrosinistra aveva dei seri problemi sulla
questione. Resistenti? Partigiani come li ha definiti il filosofo
Gianni Vattimo, riallacciandosi così al mito resistenziale italiano,
o criminali?
Battista spazza il campo da ogni dubbio e dice la sua:… “fascisti,
semplicemente e brutalmente fascisti. Si annuncia, con l’irrompere
di questa definizione, non solo la crisi di una similitudine storica
entrata di prepotenza nella consuetudine linguistica, ma il tracollo
di un quadro concettuale che ha sinora fornito la più frequentata
chiave interpretativa della vicenda irachena, dall’inizio della
guerra in poi. Se poi si aggiunge il giudizio formulato da Piero
Fassino, secondo il quale ‘resistenti’ sono piuttosto gli iracheni
che si sono recati alle urne e non quelli che ne hanno promesso la
morte nel caso si fossero avvalsi del loro nuovo diritto
democratico, si può capire che lo straordinario esito della
mobilitazione elettorale in Iraq ha traumaticamente sconvolto
l’attitudine politico-culturale sin qui dominante, costringendo a
ribaltare persino il senso delle vecchie analogie storiche”.
L’accezione negativa data così alla resistenza irachena la
sminuisce, la delegittima. Ma Battista non si ferma a questo; il
giornalista arriva così a fare uno strano ma quanto mai veritiero
paragone: “queste elezioni… fanno somigliare l’Iraq del 2005 sì
all’Italia, ma all’Italia del dopo 25 aprile 1945, se si preferisce,
a quella parte d’Italia progressivamente liberata (‘occupata’,
ma ‘liberata’) dagli Alleati ancor prima del 1945. Con la
conseguenza che i ‘resistenti’ appaiono più simili ai combattenti di
Salò che ai ‘partigiani’, testimoni armati di un passato che
oppongono certo ‘resistenza’, ma resistenza alla democrazia e alla
nuova libertà”. Così Battista, uomo di establishment, spazza via il
campo da ogni dubbio: se sono fascisti stanno dalla parte del male,
sono il male. Di conseguenza i bravi, il bene, è rappresentato dagli
americani, che si trasformano da occupanti (ma per necessità)
a “liberatori”.
Come nel sistema politico americano, anche in Italia oramai non
esistono più differenze tra destra e sinistra, motivo valido per
smetterla di fare distinzioni tra i due schieramenti. Anche in
Italia, riprendendo Chomsky, i due schieramenti, sono due fazioni
dello stesso partito degli affari. Non a caso Battista ha fatto
spesso “coppia” con Fiamma Nirenstein su “La Stampa” nel condannare
i mali dei totalitarismi. Non a caso Battista ha fatto una bella
recensione alla porcheria in cofanetto della Fallaci. Non a caso
Battisti viene da Unità operaia, dal Manifesto. Poi la rottura con
la sinistra, la scoperta di Pannella e dei radicali. Ora piace tanto
a Berlusconi. Non a caso.
Cristiano Tinazzi
Fonte.www.rinascita.it
9.02 2005
Segnalato da : http://it.groups.yahoo.com/group/lettera_informazione/