I radical-chic degli anni di piombo
DI MASSIMO FINI
Le confessioni di Achille Lollo non hanno riportato alla memoria solo l’orrendo, e dimenticato, rogo di Primavalle dove morirono due giovani figli di un netturbino colpevole di essere il segretario della locale sezione dell’Msi, in seguito a un attentato incendiario, opera di alcuni militanti di Potere Operaio, ma anche l’intero clima di quegli anni in cui lo stesso Potere Operaio può essere considerato un emblema significativo.
Potere Operaio, Potop per gli amici, era un minuscolo gruppuscolo della sinistra extraparlamentare, il più estremista di tutti se si eccettuano le Brigate Rosse che però allora erano ancora agli inizi, formato dai figli dell’aristocrazia e dell’altissima borghesia, prevalentemente romana (oltre a Diana Perrone, figlia dell’allora proprietario del Messaggero e del Secolo XIX, c’era, fra gli altri, Paolo Mieli, attuale direttore del Corriere della Sera) e da qualche sottoproletario raccattato nelle borgate e usato come manovalanza. Per la sua composizione equivoca era stato soprannominato, con un certo disprezzo, dai militanti degli altri gruppi extraparlamentari: “Molotov & Champagne”. Ma si può dire che l’intero Sessantotto, e dintorni, fu “Molotov & Champagne”.Negli anni Settanta tutta l'”intellighentia” italiana si era spostata all’estrema sinistra. Non c’era intellettuale, scrittore, giornalista (con l’eccezione di Montanelli, Biagi e qualche altro cane sciolto), sociologo da terza pagina del “Corriere”, mondana, mignottina da salotto che non si dichiarasse per la rivoluzione. E la borghesia, con i suoi giornali, aveva seguito l’onda. Sia per opportunismo, sia perché in fondo, si trattasse del Movimento studentesco, di Lotta Continua, di Avanguardia operaia o di Potere Operaio, quei rivoluzionari da salotto erano, nella stragrande maggioranza, “figli di famiglia”, erano figli suoi e se li coccolava e vezzeggiava. La copertura alle violenze di quegli anni non fu data tanto dal Pci, che anzi mal tollerava di essere scavalcato a sinistra da degli extraparlamentari che predicavano una rivoluzione a cui i comunisti avevano rinunciato da tempo, fin dai primi anni Cinquanta, quando avevano liquidato Pietro Secchia, ma da questo irresponsabile milieu radical chic.
Questa contiguità fra classe dirigente, ricchi borghesi e pseudorivoluzionari di sinistra era palpabile, visibile, e fisica. Mi ricordo che in quegli anni capitai ad una festa in un bellissima casa di via del Corso, a Roma, di proprietà di un certo Jimmy. C’era tutta la “Roma bene”, c’era anche l’allora ministro della Sanità, il liberale Altissimo, e c’era Franco Piperno leader di quel Potere Operaio che in quei tempi scendeva in piazza, come gli altri gruppi extraparlamentari, al grido di “Fascisti, borghesi ancora pochi mesi”. Con Piperno mi fermai a parlare a lungo accovacciati in un angolo del vastissimo salone. Ricordo i suoi occhi gialli, la voce flautata, e un sottofondo di minaccia nelle sue parole. Io infatti allora, per gli ambienti della sinistra extraparlamentare ero un “fascista” o, nella migliore delle ipotesi un “democratico borghese conseguente” da mettere comunque al muro quando la Rivoluzione avesse trionfato. Nel 1971, sull'”Avanti”, avevo denunciato, primo giornalista di un giornale di sinistra a farlo, le violenze squadriste del Movimento studentesco di Milano che nel giro di un paio di settimane aveva pestato a sangue uno studente di origine israeliana accusato di essere un “agente della Cia” e un sindacalista della Uil, un certo Conti. Nell’ottobre del 1973 avevo pubblicato per Linus, diretto da Oreste del Buono, una mappa della sinistra extraparlamentare, che Del Buono aveva chiamato, titolando, “L’extramappa” dove catalogavo i gruppi extraparlamentari di sinistra, dal Movimento Studentesco alle Brigate Rosse, secondo la loro ideologia ma anche secondo la loro propensione alla violenza.
Alla Statale di Milano fu appeso un tatse-bao dove Del Buono ed io venivamo additati come “servi della Cia”. Oreste se la fece subito sotto e rinnegò tutto: l’extramappa e il suo autore. Quanto a me ricevetti due lettere minacciose di Giairo Daghini e di Oreste Scalzone, dirigente di Potere Operaio, cui non detti molto peso ma che, rilette col senno di poi, fanno venire i brividi. Non fu tutto.
Luca Cafiero, uno dei leader del Movimento Studentesco, insieme a Mario Capanna e a Salvatore Toscano, sguinzagliò un manipolo di picchiatori armati di spranghe e di catene, al cui comando c’era Giorgio Livrini, figlio di un imprenditore di quello che oggi si chiama “il ricco Nord Est”, per darmi una lezione. Per fortuna non mi trovarono, né da “Oreste”, lo storico bar di piazza Mirabello, né davanti a casa perché quella notte, per caso, dormii da una mia amica. Altrimenti sarei anch’io oggi uno storpio o peggio come quel povero ragazzo di diciassette anni, Sergio Ramelli che, considerato di destra, fu vittima di un agguato sotto casa da parte di militanti di Avanguardia Operaia e morì dopo 48 giorni di agonia, notizia nascosta nelle pagine interne dei grandi giornali della borghesia milanese.
A metà degli anni ’70 mi trovavo in Calabria per un’inchiesta che l’Europeo mi aveva chiesto di fare sull’università di Arcavacata, una delle tanti cattedrali nel deserto che era stata voluta, a propria maggior gloria, da Giacomo Mancini, segretario del Psi. Fui prelevato quasi di forza dagli uomini di Mancini e, dopo un lungo giro per le montagne cosentine, portato alla presenza del boss nella sua splendida villa. Mancini, col pretesto che ero un iscritto al Partito socialista, voleva sapere che cosa avrei scritto su Arcavacata. Nel bel mezzo di questa simpatica conversazione, molto simile a un’intimidazione mafiosa, si affacciò sulla veranda che dominava le rosse e brulle montagne del cosentino, uno scenario quasi da Far West, Franco Piperno, che era suo ospite. La cosa curiosa, per dir così, è che in quel momento Piperno era latitante e ricercato dalla polizia.
La contiguità col mondo dell’eversione, o della semieversione, era fortissima. Qualche anno dopo Giampiero Mughini, che oggi fa il clown nelle trasmissioni di calcio parlato, si sarebbe vantato pubblicamente, rabbrividendo per il piacere dall’alluce all’ombelico, che un comunicato dei brigatisti Morucci e Faranda era stato scritto a casa sua, nella sua cucina e con la sua “Lettera 32”. Ruggero Guarini, in un’intervista alla Stampa, ha raccontato che per la prima assoluzione di Lollo e degli altri due di Potere Operaio accusati per il rogo di Primavalle si tenne una grande festa in una villa di Fregene, cui parteciparono Alberto Moravia, Dario Bellezza, il pittore Mario Schifano e il fior fiore dell’intellighentia romana. Del resto qualche anno dopo, quando il terrorismo brigatista mieteva una vittima al giorno e altre ne “gambizzava” come si diceva allora con un orrendo neologismo, due guru della cultura italiana, Alberto Moravia e Leonardo Sciascia, si dichiararono “Né con lo Stato né con le Br”.
Non stupisce quindi che, in quel clima, il rogo di Primavalle fosse attribuito dalla stampa di sinistra ma anche dai giornali borghesi, come Panorama, l’Espresso, Il Messaggero, a una “faida interna fascista” e l’inchiesta su Lollo e gli altri bollata come una “montatura di magistratura e polizia”, una “provocazione” e, insomma, un complotto di toghe nere in combutta col Potere democristiano. L’editore Giulio Savelli, che allora era trotzkista e poi, negli anni Novanta, dopo una breve parentesi leghista, è diventato deputato di Forza Italia, quindi dell’Udr di Cossiga e oggi si autodefinisce liberale, pubblicò un libro, “Primavalle: incendio a porte chiuse”, scritto da alcuni “giornalisti democratici”, in cui si sposava la tesi che Primavalle era stata una “faida interna” fra fascisti. Tesi peraltro non nuova, perché era stata già utilizzata un paio di anni prima per il caso Mazzola-Giralucci, due missini assassinati in una sede del partito a Padova (era stata invece una delle prime azioni omicide delle BR, come racconta Sergio Segio, uno che se ne intende, in un libro di prossima pubblicazione).
La magistratura non poteva indagare nella galassia dell’estremismo extraparlamentare di sinistra senza essere sommersa dall’unanime coro della “montatura”, della “provocazione”, del “complotto”. Le piste dovevano essere sempre e solo “nere”. E ciò era tanto più bizzarro perché, nell’orgia del conformismo di sinistra che aveva preso il Paese, i fascisti erano praticamente spariti o non osavano mettere piede fuori casa (nel 1974 facemmo, per L’Europeo, un’inchiesta intitolata: “Ma dove sono finiti i fascisti?”). Persino per l’omicidio Calabresi si preferì imboccare la strada delle “piste nere” e perdere tempo a inseguire un certo Nardi, figlio di armaioli di San Benedetto del Tronto, e altri stracci del genere, nonostante Lotta Continua, sul suo giornale, si fosse attribuita, almeno moralmente, l’assassinio e fosse del tutto improbabile, almeno allora, che della gente di destra ammazzasse un commissario di polizia, oltretutto accusato da tutto l’ambiente di sinistra di aver fatto volare dal quarto piano della Questura di Milano un anarchico, Giuseppe Pinelli. È anche per questo che bisognerà aspettare alcuni lustri e la confessione di Leonardo Marino per arrivare a Bompressi, a Pietrostefani e a Sofri. Del resto tutti sapevano che Lotta Continua, come peraltro Potere Operaio, aveva un “livello illegale” che si occupava quantomeno di far delle rapine, per finanziare, oltre che con gli “espropri proletari”, il gruppo. Lo sapevo persino io. Perché una di quelle rapine fu fatta con la mia macchina, una Simca coupé rossa. Me la chiese in prestito un mio amico di Lc, Ilio Frigerio, poi diventato parlamentare leghista, dicendo che gli serviva per uscirci con una ragazza. In seguito mi confessò che l’aveva data ad altri “amici” di Lc per quello scopo. Uno scherzetto da prete che non ho dimenticato.
Ma al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi negarono anche l’esistenza del “livello illegale”, anche l’evidenza, e penso che sia anche per queste menzogne puerili che poi non furono creduti dal Tribunale sulle questioni più importanti. Ma il giornale di Lotta Continua faceva anche dell’altro, pubblicava foto, abitazione, percorsi, abitudini di “fascisti”, o presunti tali, una sorta di wanted, di incitazione alla sprangata che ne ha lasciati parecchi sul terreno.
Questo era il clima dei “formidabili” anni Settanta, dove bastava militare a sinistra per farne di ogni sorta e garantirsi omertà, protezione o, nei casi peggiori, la fuga. E il problema dei ragazzi del milieu riche e radical chic della contestazione, di questi rivoluzionari da burletta che il giorno scendevano in piazza a gridare slogan truculenti, a spaccare vetrine e crani, a ingaggiare battaglie con la polizia a colpi di molotov, e la sera, tornati a casa dai loro babbi e mamme borghesi, tutti orgogliosi di quei loro figlioli così deliziosamente antiborghesi, si precipitavano a telefonare alle loro amiche (“Pronto Leonetta? Pronto Dadi?”) per organizzare feste in qualche bella villa, è che non solo non hanno pagato alcun dazio per le loro imprese, ma sono stati premiati e oggi fanno i deputati, i senatori, i direttori di giornale, di reti televisive, gli opinionisti. Sono degli impuniti. E non ci si può quindi meravigliare se non hanno nessun senso delle proprie responsabilità. Loro hanno sempre ragione. Avevano ragione quando facevano i comunisti e hanno ragione adesso che sono diventati liberali. Oggi questi irresponsabili costituiscono una buona parte della classe dirigente, equamente distribuiti fra destra e sinistra. E questo spiega anche perché, a conti fatti, non è cambiata la mentalità in questo Paese.
Anche oggi, come allora, se la magistratura osa imboccare una strada poco gradita agli attuali “padroni del vapore” si alza un coro quasi unanime che grida alla “montatura”, alla “provocazione”, al “complotto” e si scrivono libri innocentisti e “garantisti” del tipo di “Primavalle: incendio a porte chiuse”. Le toghe non sono più “nere” o democristiane, son diventate “rosse”. È cambiato il segno, non la protervia.
Massimo Fini
Fonte:www.gazzettino.it/
16.02.05