DI PAOLO SENSINI
Il denaro è una pura astrazione
(Sören Kierkegaard, Diario)
Che cosa rappresenta oggi il denaro? E qual è la sua funzione precipua nel mondo contemporaneo?
Sembrano domande scontate, evidenti, perfino inutili nella loro bolsa ovvietà. Siamo infatti a un tal grado di prossimità dalla «vil moneta», o con ciò che meno prosaicamente è stato definito per secoli e secoli da Santa Romana Chiesa come lo «sterco del diavolo», da non prestare più la minima attenzione alla natura intrinseca di quest’«oggetto demoniaco». Ci è così vicino, così abituale, così epidermicamente consustanziale da ritenerlo nient’altro che una sorta di impercettibile diaframma tra noi e il mondo circostante.
Un po’ come l’aria che respiriamo tutti i giorni, su cui non ci poniamo alcuna domanda, salvo arricciare ogni tanto il naso per il fetore che avvolge le nostre città e che siamo costretti volenti o nolenti a respirare. Un inconveniente, quest’ultimo, che tuttavia non si pone per il denaro il quale, com’è noto, non puzza affatto. Pecunia non olet, sapevano infatti i latini[1].
E se già in quel tempo essi potevano cogliere questa elementare verità, figuriamoci oggi…
«Ma il denaro è denaro» sento già rispondermi da qualcuno che non ha tempo da perdere in simili elucubrazioni tautologiche. Eppure, allo stesso modo in cui ci serviamo di uno «strumento di
interazione umana» come il linguaggio (la langue
la definì il linguista svizzero Ferdinand de Saussure), così la «vil moneta»,
che ci piaccia o no, è l’elemento continuativo e costante del nostro
rapportarci col mondo circostante. Una sorta di protesi esterna che anche in
negativo, cioè in sua assenza, ci tiene comunque avvinti all’ambiente che
abbiamo intorno a noi. E che, ancora una volta similmente al linguaggio, muta
anch’essa con il mutare delle condizioni storico-sociali. In altre parole si
tratta di un’entità che è stata ed è
soggetta a continue metamorfosi, pur serbando nel suo dna alcune caratteristiche ricorrenti nel corso del tempo.
Ragione per cui sarà bene dedicarvi, se siamo interessati a cogliere ab ovo il nocciolo della questione, una riflessione per intendere a che punto ci troviamo e verso quale direzione ci
stiamo muovendo. Nulla di ozioso, dunque, ma un necessario gesto di profilassi mentale per riorientare la bussola del nostro tempo.
Partiamo allora dalla domanda basilare: per quale ragione è venuta alla luce la
moneta? È stato il commercio, cioè la relazione dell’individuo con l’individuo
in uno spazio con-diviso che ha creato l’esigenza della moneta e ne ha
sviluppato l’uso. Apprezzare o valutare ciò che si scambia vuol infatti dire
contarlo, pesarlo, confutarlo, misurarlo, e chi dice misura dice ovviamente «unità convenzionale». La moneta non è
infatti un fenomeno per così dire primario, ma secondario. E non è essa ad aver
creato lo scambio, è lo scambio che ha creato l’esigenza della moneta. Prima di
questa fase, che è tuttavia relativamente assai tarda nell’evoluzione
complessiva dell’umanità, tutti i popoli antichi avevano a lungo perseverato
nella pratica antidiluviana del baratto.
Con un tacito accordo, invece,
ora i gruppi di individui assuefatti a scambiare e a commerciare insieme
adottarono una derrata particolare il
cui valore, generalmente convenuto,
serviva da scala comparativa, da equivalente universale al valore di tutte le
cose che essi di solito dovevano permutare fra loro. Ogni tribù, ogni popolo,
adottò infatti fin da subito per campione e intermediario degli scambi la merce
in genere più ricercata presso di sé a cagione dei suoi vantaggi e che si
poteva, per così dire, tenere a portata di mano.
Ne La ricchezza delle nazioni, Adam Smith affermò ad esempio che «il
sale era considerato uno strumento comune di commercio e scambio in Abissinia».
La parola sanscrita «roupa», invece, che significa «gregge», ha formato il nome
dell’unità monetaria dell’India, la «rupìa» (rupayā). Da questo punto di vista la maggior parte dei riferimenti
al grosso e al piccolo bestiame nei libri sacri dell’India antica spesso
alludevano alla funzione monetaria e attestavano che le ricchezze, al tempo in
cui noi datiamo questi scritti, consistevano soprattutto in greggi. Ma anche il
termine paleofrisio «sket» e il paleoslavo «skotu», per citare altre locuzioni
equipollenti, significavano entrambi tanto bestiame quanto denaro.
Presso i primi abitatori della
penisola italica, similmente a quanto abbiamo riscontrato più sopra, tutto si
valutava e si pagava in capi di bestiame. Il grosso e il piccolo bestiame erano
pure qui, in origine, la principale ricchezza e formavano il campione del pagamento
dei prodotti; e infatti la parola «pecūs» indicava il bestiame (o la pecora) e
da essa, per derivazione, si ebbe il termine «pecūnia» che finì per applicarsi
esclusivamente alla moneta metallica, quando quest’ultima venne impiegata nelle
transazioni[2]. È inoltre
l’abitudine di contare il bestiame per «capita» (capi), che ha dato origine
alla parola «capitale», termine che indica esclusivamente, nella nostra lingua,
la ricchezza in numerario.
Dopo gli scambi in natura, dopo
la scelta d’una merce-tipo atta pressappoco alla convenienza di tutti, come i
cereali e gli armenti presso i popoli agricoli, nasce l’uso dei metalli che
espletano più comodamente lo stesso ufficio. Ma che assolvono fondamentalmente
la medesima funzione di razionalizzazione dello scambio. Secondo la testimonianza
di colui che può essere considerato a buon ragione come il padre della storiografia
occidentale, Erodoto di Alicarnasso, furono «i Lidî i primi uomini che, a
nostra conoscenza, abbiano fatto coniare per loro uso della moneta d’oro e
d’argento»[3].
L’introduzione della moneta presso i Greci delle sponde del mar Egeo nel vii
secolo a.C., si manifestò assai rapidamente proprio in virtù dell’enorme
sviluppo commerciale dell’epoca, come attesta la quantità di monete ritrovate.
È infatti a Egina, situata in un golfo della costa nord-occidentale ellenica,
che fanno la loro prima apparizione le monete d’argento. Egina era nel vii secolo il centro commerciale più importante della Grecia, cioè il più grande mercato internazionale dell’epoca,
dove approdavano le navi di tutto l’Oriente e soprattutto quelle provenienti
dalle colonie greche della costa dell’Asia Minore. Si capisce dunque perché sia
diventato il primo luogo in cui venne sperimentata la moneta vera e propria.
Poi verrà il turno della polis ateniese, che nel volgere di qualche secolo riuscì a imporsi come il vero e proprio omphalós dell’intero bacino
mediterraneo, accompagnando la propria espansione commerciale e talassocratica
con uno straordinario rigoglio delle sue peculiari istituzioni politiche e
socioculturali. È dunque all’interno di questo materialissimo crogiolo di
pratiche mercantili che rese possibile un intenso scambio di esperienze e
sensibilità con tutti i popoli del mondo fino allora conosciuti, e non in un
astratto cielo metafisico di cui si è così a lungo favoleggiato fuori e dentro
le accademie, che vanno ricercate le coordinate assiologiche che diedero vita
al concetto stesso di dēmokratía,
cioè al primo tentativo esperito concretamente in sede storica di gestire la
cosa pubblica da parte del popolo sovrano[4].
Con tutto ciò che esso ha significato sul piano della vita associata ma anche
su quello dell’auto-riflessione che l’uomo ha iniziato a rivolgere verso se
stesso. In altre parole si tratta di una profonda rottura con il mondo
precedente: una soluzione di continuità che trova una spiegazione
logico-consequenziale solo se si ha l’onestà intellettuale di seguire le pieghe
interne e la dinamica di questo complesso sviluppo sociale. Uno sviluppo che
peraltro ha piena rispondenza sul piano storico in ogni luogo con cui questo
tipo di amalgama esperienziale è entrato in contatto.
Ma per riprendere il bandolo del
nostro discorso, quali sono le ragioni per cui la moneta soppiantò le altre
merci in funzioni di mezzo di scambio? Il motivo principale è che i metalli
sono meno alterabili e più versatili della gran parte delle altre merci o derrate;
per conseguenza è più facile serbarli a lungo in magazzino, senza rischiare di
vederli deteriorare, come i cereali, il bestiame, le pellicce o il sale. Si può
facilmente accumularli e ridurli in frammenti senza che essi perdano nulla del
loro valore. La loro conservazione non esige molta manutenzione e sono
relativamente ben poco voluminosi. «Caratteristica ancora più importante è che
il bene sia un bene di lusso. Il fatto che i desideri dell’uomo per gli oggetti
di lusso siano illimitati ne garantisce una domanda continua e una perenne
accettabilità»[5]. In breve, le altre merci-tipo
sono sprovviste di tutte queste qualità, o almeno non le posseggono allo stesso
grado.
Dappertutto i «campioni del valore», di fabbricazione metallica, si sostituirono dunque ai campioni presi nelle produzioni naturali di ogni paese. Si trova in questo universale
avvicendamento degli oggetti naturali con oggetti di metallo, un titolo di
valore-tipo, una nuova applicazione di quella legge che lo sviluppo sociale
d’un popolo in fondo si regola sempre sulle modificazione del regime della
produzione. Va anche aggiunto, inoltre, che originariamente il contenuto metallico costituiva il dato di fatto mentre la forma monetaria rappresentava solamente
l’autenticazione pubblica del contenuto metallico stesso. Si trattava insomma
di un determinato quantitativo di metallo prezioso, di una verghetta in una
forma autenticata dalle autorità del luogo. Così, in ragione della funzione
commerciale della moneta e del carattere fiduciario che le conferiva l’impronta
delle istituzioni che la «certificavano» pubblicamente, ci si rese presto conto
che vi era un grande interesse nel dare a questo marchio la maggior importanza
possibile, nello svilupparlo per renderlo più appariscente affinché nessuno
potesse confonderlo.
Secondo alcune attendibili ricerche[6],
il regime monetario romano ebbe inizio appena nell’anno 268 a.C., quindi in
un’epoca relativamente tarda se paragonata a quella delle polis elleniche e dei territori dell’Italia meridionale ad esse collegate, ove circolavano da secoli monete in argento. E coincise con la
guerra vittoriosa contro il Sannio, Taranto e Pirro, preludio dell’imminente
dominio di Roma su tutta la penisola italica. La guerra conclusa
vittoriosamente aveva procurato all’Urbe un bottino immenso che costituì la
premessa per la coniazione dell’argento. Il quale a sua volta permise a Roma,
nel giro di poco più di cent’anni, di assurgere al rango di potenza mondiale
con numerose colonie e provincie fuori del territorio italiano.
Con l’«aureus» (moneta d’oro istituita da Cesare nel 45 a.C.) e il «denarius» (moneta d’argento),
l’imperatore Augusto volle creare monete mondiali, vale a dire che potessero essere
accettate in pagamento ovunque, anche al di là delle frontiere. Tale mèta fu in
effetti raggiunta in pieno, anche se la situazione sociale ed economica, per
non parlare di quella politica, nel momento stesso in cui l’impero andava
allargando al massimo il suo limes, diveniva
sempre più soggetta a continue turbolenze interne e esterne.
Il proposito di creare una moneta
mondiale determinò infatti una esportazione notevole di oro e argento che fu
una delle cause della crisi monetaria del ii
secolo dopo Cristo. Fu così che gli «imperatori soldati», successori dei
Severi, si trovarono nella necessità di adottare tutti gli artifici possibili e
immaginabili pur di surrogare i metalli preziosi che andavano sempre più
rarefacendosi sui territori dell’impero. Ma, nonostante ciò, la crisi proruppe
in tutta la sua devastante violenza con l’imperatore Valeriano i e soprattutto con suo figlio
Gallieno, in quanto l’importazione notevole di beni di lusso dalle Indie,
dall’Arabia e da altri paesi, come ad esempio l’ambra dalla Germania, superò
l’esportazione verso quei paesi in modo assai consistente. Ebbe così inizio
un’èra di sfrenata inflazione, con una dilatazione monetaria illimitata e una
coniazione a getto continuo di «miliarenses» di rame utilizzati soprattutto per
pagare il «soldo» alle truppe, ultima risorsa ormai di un organismo un tempo
straordinariamente potente ma ora intaccato nelle sue funzioni più vitali.
Scomparsa la fiducia nella moneta, la capacità d’acquisto del denaro crollò
rapidamente segnando in maniera definitiva le già pencolanti sorti dell’impero.
Sulla base di molteplici elementi si è accertato che, pur tenendo conto
dell’estrazione di metallo aureo, il «deflusso di metalli preziosi dal tempo di
Augusto sino alla metà del iii
secolo d.C. fu di quattro quinti di oro e due terzi di argento delle giacenze
originarie»[7].
In buona sostanza bimetallismo e
supervalutazione del rame, tentativi politici di creare una valuta universale e
una bilancia commerciale cronicamente passiva sortirono come risultato la
sparizione di pressoché l’intero stock di metallo prezioso. Tutto ciò unitamente
allo sfaldamento dell’impero e al regresso dei traffici, alla distruzione del
«principio di legittimità» incarnato dal Senato romano ad opera di Settimio
Severo[8],
al decremento complessivo della popolazione e al crollo degli standard di vita
generali, furono le ragioni del tracrollo monetario e del conseguente caos
inflazionistico che prostrò le residue forze che allignavano nell’impero. La
svalutazione del denaro ebbe inoltre come conseguenza che i paesi limitrofi
deviassero i loro traffici dall’agonizzante impero, con un vertiginoso rincaro
dei prezzi.
A questi fattori di ragione
prettamente valutaria si aggiunse anche, estinta la casa dei Severi, la
dissoluzione dell’impero in varie parti per opera di anticesari e usurpatori.
Il periodo che va da Massimino ad Aureliano, cioè dal 235 al 270 d.C.,
rappresentò infatti una travolgente metamorfosi sociale in cui si rifuse
l’intero plesso della società romana. Si andava cioè delineando grado dopo
grado la cosiddetta epoca del Colonato, in cui l’antico cives romano si trasformava nel servo di un dominus che ne
disponeva a sua completa e insindacabile discrezione[9].
Ciò avvenne perché, mancando «la normale circolazione della moneta, la
cristallizzazione della proprietà era impossibile perché il “dirigente sociale”
non poteva disgiungere il suo potere sul suolo da quello su chi lo lavora»[10].
Potendo pagare invece il lavoratore con una somma di denaro o l’occupazione di
una terra con un fitto in contanti, come accadeva di regola nei tempi
precedenti, ecco che il potere sociale prima indifferenziato, sia sul
suolo, sia su chi lo lavorava, poteva scindersi in potere sui mezzi di
produzione (proprietà) e potere sugli uomini (pubblici poteri).
Come puntualmente documentato
dagli eventi nonché dalla letteratura dell’epoca, l’erosione continua del
valore del medio circolante determinò un progressivo ritorno al baratto, e il
denaro tesaurizzato fece capolino qua e là solo fugacemente per permettere ai
detentori di procurarsi i mezzi di sostentamento. A suffragio di quest’ipotesi,
apprendiamo da un papiro dell’epoca che sin dal 250 d.C. le città erano sempre
più spopolate e impoverite. Roma, che all’apice della sua potenza era un
agglomerato di circa un milione e mezzo di abitanti, riduceva ora la sua
popolazione a poche migliaia di unità[11].
Segno che qualcosa di molto grave era nel frattempo avvenuto. L’oro e l’argento
erano scomparsi, la prosperità e i patrimoni formatisi nei tempi precedenti si erano
volatilizzati. Una terribile carestia, poi, fu la conseguenza logica o
piuttosto l’espressione della tragica situazione che era venuta a determinarsi.
In questo
«nuovo» panorama sociale, fiorirono con sempre più frequenza i cosiddetti obærati, gli indebitati e rovinati che,
non difesi più dalla lex romana, cadevano nella soggezione politica dei loro
creditori[12]. Si apriva
in altri termini l’epoca in cui ogni cittadino che si trovava in questa
condizione veniva di fatto inchiodato al suolo e si trasformava in un membrum della terra[13].
Diveniva cioè servus glebæ. E, come
tutti i servi della gleba del x
secolo, doveva fornire prestazioni in natura, servizî e corvées. La sua libertà
formale, da questo punto di vista, era una sopravvivenza giuridica di un’epoca
ormai remota, un attributo divenuto totalmente svuotato di senso. È quello che
comunemente si usa per descrivere il periodo di tempo definito come «Medioevo»,
ma che forse sarebbe più appropriato chiamare Feudalesimo poiché già dal ii-iii secolo d.C. sono presenti tutti quegli «ingredienti» che saranno individuati come tali dagli storici solo molto
posteriormente[14].
Durante tutta questa sequenza storico-sociale durata circa nove secoli, in assenza di
mercato – e quindi della moneta – il pagamento della terra ceduta al lavoratore
veniva fatto, come si è detto, in servizî; ma questi dovevano essere espletati
sul luogo di produzione: ecco allora che il lavoratore non poteva più andarsene
e si trovava legato al suolo «æternitatis iure»[15].
Si era così consolidato un potere unico sugli
uni e sugli altri compenetrati insieme. «Il servo –
notava a questo proposito Bruno Rizzi – è il cardine morfologico della società
feudale, esiste dovunque, mentre il dirigente può
essere un vassallo, un burocrate, un quirita, un patrono o il capoccia di una
tribù, per esempio lo sceicco […]. Il potere feudale, ossia la signoria dei
dirigenti sui mezzi di produzione e sui lavoratori, forma la base di tutto
l’apparato giuridico. Il legame di coesione sociale d’ordine politico è il cemento
di tutte le società feudali»[16].
Per questo «nella società feudale scompare tutto quello che ha attinenza al pubblico appunto perché il cittadino non esiste più».
Tale ripiegamento sociale che
trovò un nuovo tipo di coagulo nelle ampie villæ
dei patrones che ridisegnarono da
cima a fondo la topografia del vecchio impero romano, durerà per secoli e
secoli proprio perché interpretava economicamente il profondo mutamento
sociopolitico dell’epoca. Grosso modo si può parlare di un periodo che va dal ii-iii all’xi secolo d.C. in cui la moneta, salvo rarissimi casi, sparì
dalla circolazione[17].
Tutto infatti si svolgeva nelle terre del «signore» con un’economia
squisitamente autarchica in cui i villici
preposti al fabbisogno generale producevano ciò che serviva alla sussistenza di
ogni singola enclave. Ecco il perché
dell’instabilità politica di quei «secoli oscuri», delle continue guerre e
guerricciole che insanguinarono l’Europa per secoli e secoli. Ciascuno di
questi patrones, infatti, godeva
nella propria tenuta di uno status paragonabile a quello di un vero e proprio
capo di Stato, anche se tutto ciò naturalmente non era codificato in termini
giuridici. Ma la sostanza era quella, e come tale si comportava con i propri subordinati
interni così come con gli avversari esterni. In altri termini era un despota
che, essendo venuta meno la differenza tra «pubblico» e «privato» su cui era
basato tutto l’edificio del diritto romano, godeva di un dominium eminente (cioè di un potere totale) su chiunque rientrasse sotto la sua sfera di competenza.
Ovviamente nel descrivere un
siffatto contesto non si può neppure più parlare di «classi sociali», com’era
stato invece il caso dell’epoca di maggior fulgore della civiltà greco-romana,
ma semmai di vere e proprie «caste», che si differenziano dalle prime per una
sostanziale impermeabilità e separazione tra i vari raggruppamenti sociali. E
questo, tanto per tradurlo in termini concreti, significava che nascere servo della gleba equivaleva a rimanerlo per tutto l’arco dell’esistenza e trasmettere tale attributo alla propria
progenie; così come nascere signore voleva dire dominare – a prescindere dalle capacità e dai meriti personali – sui propri possedimenti e sul proprio «gregge umano» in sæcula sæculorum trasmettendone intatte le medesime prerogative a tutta la discendenza.
Quando iniziò a mutare tale situazione? Esattamente nel momento in cui si riattivarono
quei meccanismi sociali che permisero di riconnettere lentamente ciò che per
secoli era venuto meno, vale a dire tutta quella rete di scambi e relazioni tra
individui e comunità di cui ci è stata trasmessa ampia documentazione dai
cronachisti del tempo. È inoltre l’epoca in cui, subito dopo il tornante del
primo millennio, rifioriscono a nuova vita le «città fantasma» abbandonate dopo
il crollo dell’impero romano le quali, come ad esempio nel caso di Roma,
fungevano ormai da secoli e secoli da terreno per il pascolo di bestiame o come
distese di rovi là dove un tempo sorgevano templi e agorà.
Molte città nacquero in questo
stesso periodo, alcune inizialmente come piccoli borghi che facevano da corona
alla dimora del signore, altre ancora sorsero al crocevia di importanti vie di
comunicazione proprio perché i prodotti in eccedenza delle campagne iniziavano
a creare quel circolo virtuoso e quell’osmosi sociale tra città e contado agricolo
che preparò il terreno del nostro Rinascimento. Un Rinascimento che fu, è bene
specificarlo, dapprima economico e quindi artistico e culturale. E le cui
scoperte tecnico-scientifiche, peraltro molto importanti, furono la
conseguenza, piuttosto che la causa, della ripresa economica.
Sembra un’interpretazione,
quest’ultima, assai ardita rispetto alla vulgata ufficiale tutta centrata su
una visione eminentemente «culturalista». Eppure come spiegare quel brulichìo
artistico se non come la risultante delle molteplici attività artigianali che
andavano dispiegandosi nelle botteghe comprese tra le mura delle città? Forse
che gli abitanti della Firenze umanistico-rinascimentale erano ontologicamente
più dotati o capaci rispetto a quelli venuti dopo di loro? Certo che no. Solo
che essendo la città dell’epoca composta quasi interamente da lavoratori
artigianali che si cimentavano nelle più molteplici attività manuali e
intellettuali, è ovvio che da quel magma ribollente emergessero figure che si
distinguevano per la straordinaria qualità delle loro opere. Da qui i Leonardo,
i Brunelleschi, i Vasari, i Michelangelo, i Raffaello… Ecco la differenza tra
quel contesto e il mondo attuale. Accampare ragioni di carattere metafisico o
strane congiunzioni astrali non aiuta certo a capire i fatti nella loro datità
reale, che sono molto meno misteriosi di quanto si voglia far credere.
Avvenne dunque che, grado dopo
grado, riprese a circolare quel tallone monetario che si era eclissato
dall’ambito dell’economia autarchica per svariati secoli. Dapprima esso servì
come razionalizzatore del commercio e come elemento di fluidificazione mercantile,
in un periodo che possiamo grosso modo datare tra il xii e il xv
secolo, e che si può definire a buon diritto come «artigiano-nobiliare»[18].
Poi il processo di circolazione monetaria iniziò gradualmente a tramutarsi in
vera e propria accumulazione di capitale, tanto è vero che già alle soglie del
’500 abbiamo le prime testimonianze di agglomerati di lavoratori (e anche delle
prime rivolte sociali) che vendono il proprio lavoro come una merce qualsiasi[19].
Sono diventati cioè proletari, e non più servi di un dominus che ne dispone a suo totale piacimento. Si tratta di una
trasformazione epocale che avrà conseguenze dirompenti sul mondo a venire.
In un contesto siffatto, quindi,
il denaro non è qualcosa che interviene dopo
che il prodotto sia stato ottenuto, quasi come semplice artificio tecnico
diretto a facilitare un processo di scambio che rimane, nella sostanza,
identico al baratto, ma è, viceversa, il prodotto stesso della società
mercantile. Detto altrimenti, il denaro non è altro che il medesimo valore di
scambio «scisso dalle merci stesse ed esistente esso stesso come una merce
accanto ad esse»[20]; e che
siccome il valore è il prodotto specifico del processo capitalistico, lo stesso
denaro, in quanto valore autonomizzatosi, non si aggiunge al prodotto del
capitale, ma è questo prodotto stesso. «Il presupposto elementare della società
borghese – annotava Marx nel novembre 1857 – è che il lavoro produce
immediatamente il valore di scambio, ossia il denaro»[21].
L’assunzione della «forma di denaro» della merce non è pertanto una circostanza
accessoria, ma è l’abbandono da parte della merce della sua forma particolare e
l’attribuzione da parte sua della sua forma generale[22].
Naturalmente la forma di denaro
rappresentava, in quanto a sua volta merce ed equivalente generale, il
corrispettivo di un metallo prezioso che ne garantiva il valore. Da questo
punto di vista un fatto economico assai rilevante di quest’epoca è l’arrivo in
Europa, proveniente dall’America, di una grande quantità di altra merce, l’oro
e l’argento. 100 milioni di franchi in oro e 200 milioni in argento: queste,
pare, le masse monetarie penetrate in Europa dal 1533 al 1568[23].
Per cui l’abbondanza della moneta, l’attività commerciale e le variazioni dei
prezzi resero possibili la formazione di alcune immense ricchezze che dettero a
certe famiglie borghesi un straordinaria potenza.
A partire dalla seconda metà del xvi secolo, inoltre, si impose una
novità assai importante: l’introduzione della banconota[24].
Questa ricevuta, di cui il più antico esemplare conosciuto è del 1564, venne in
seguito rilasciata a chiunque ne faceva richiesta e assunse allora il nome di
«fede di credito»[25].
Coperto e garantito dal metallo prezioso, il biglietto del banco, che non è
altro che il simbolo del valore
contenuto nel metallo prezioso, può circolare come moneta – da cui la banca
ricava un beneficio – proprio come se fosse esso stesso oro o argento. «La
logica prosecuzione alla creazione di un mezzo di scambio diventa pertanto lo
sviluppo di un sistema bancario e l’emissione di titoli di credito (banconote e
assegni) in grado di sostituire l’oro»[26].
Occorre solo che la moneta
di carta sia convertibile nel metallo
prezioso, e se lo Stato garantisce i biglietti così emessi si dice che essi
hanno «corso legale». Questo, in maniera succinta, è il meccanismo di fondo su
cui farà aggio tutto il susseguente processo di valorizzazione capitalistica.
Ma cosa
succede quando questo meccanismo perde le sue caratteristiche fondanti così
come le abbiamo descritte finora e si trasforma in qualcosa di diverso? Mi
spiego meglio. Abbiamo visto, nel corso di queste rapida ricostruzione, la
funzione di intermediazione e lo statuto del denaro nella società mercantile
prima e capitalistica poi. Ovvero quello di un «equivalente generale» che
sgorga direttamente dal processo produttivo e che trova incarnazione nel
metallo prezioso o, che è lo stesso, nella moneta cartacea da essa
simbolizzata. Il tutto naturalmente basato su un rapporto di produzione che fa
premio sul mercato. Abbiamo però anche visto che vi è stato, nel corso della
nostra storia pregressa, un lungo lasso di tempo in cui il denaro (cioè il
metallo pregiato che lo incarnava) era praticamente sparito come momento di
intermediazione sociale. Una sparizione coeva al venir meno della distinzione
tra «pubblico» e «privato» che su di essa era fondata, la quale di conseguenza
aveva imposto un modello di sfruttamento economico non più mercantile bensì
autarchico e feudale.
Nel corso del Novecento
osserviamo l’emergere di un altro fenomeno ancora, che si differenzia
significativamente da quelli ora descritti. In questo nuovo scenario abbiamo sì
il denaro, ma quest’ultimo tende a divenire sempre di più un mero «segno
cartaceo» e a svincolarsi dal suo sostrato aureo. Tale tendenza iniziò a
delinearsi con la Prima Guerra Mondiale, per effetto delle politiche statali di
copertura delle spese belliche attraverso un aumento della circolazione
fiduciaria. Da esso derivò che tutte le divise monetarie si svalutarono
enormemente in proporzione alla massa di segni cartacei emessi dalle cosiddette
«centrali». Dopo il ritorno della pace ne conseguirono pesanti tensioni sui
mercati finanziari che nel corso degli anni successivi divennero endemici.
Sul piano nazionale, infatti, il
regime aureo implicava che le banche centrali dovessero mantenere il valore
della loro unità monetaria alla pari con quella delle altre moneta del sistema
mediante una sufficiente riserva d’oro. Il mantenimento del gold standard richiedeva un preciso
limite alla creazione di moneta creditizia «e il sistema bancario si imponeva
come il protettore della stabilità economica»[27].
Il regime aureo era quindi
uno strumento teso a limitare l’espansione e la contrazione del credito e con
esse le tendenze inflazionistiche e deflazionistiche che si esprimevano
nell’aumento o nella diminuzione dei prezzi.
Con la Seconda Guerra Mondiale il
quadro si complicò ulteriormente e il processo inflattivo, di conseguenza,
continuò a espandersi pressoché ovunque. Questa situazione era la risultante
della «trasformazione subìta da un capitalismo di tipo concorrenziale a un
regime che, sfociando in due guerre e rivoluzioni mondiali, ha portato lo Stato
a un controllo rapidamente crescente o addirittura completo delle economie
nazionali»[28]. L’economia
veniva «perciò codeterminata dallo Stato e dalla grande industria in misura
tale che, a tutti i fini pratici, lo Stato è la grande industria e la grande
industria è lo Stato»[29].
Dopo il secondo conflitto bellico
i movimenti internazionali di capitale «furono dominati dalla presenza degli
Stati Uniti, i quali vi parteciparono con fondi in gran parte governativi. Gli
aiuti americani permisero inoltre ai governi europei di adottare programmi di
impresa molto più ampi di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Questi
aiuti furono un’estensione alla sfera internazionale della produzione indotta
dallo Stato»[30].
Tale
«politica economica» raggiunse il suo momento culminante il 15 agosto 1971,
quando il presidente degli Stati Uniti d’America, l’avvocato Richard Nixon,
decretò l’inconvertibilità del dollaro in oro ponendo così fine al sistema del Gold
exchange standard ratificato con gli accordi di Bretton Woods il 22 luglio
1944[31].
In questo quadro il dollaro si era imposto come l’arbitro del sistema monetario
internazionale, fissando, con 45 paesi presto saliti a oltre 150, un nuovo
equilibrio di cambi che poggiava sulla piena convertibilità della
rappresentazione teatrale della moneta sulla scena internazionale. Gli Stati
Uniti assumevano così un ruolo d’impresario e garantivano che l’oro ideale
rappresentato dal dollaro poteva in qualunque momento divenire oro reale.
Mettendo bruscamente fine a questo trend, bisognava ora aver fiducia nella
rappresentazione scenica senza più mediazione alcuna, l’oro non esisteva, lo
spettacolo doveva divenire realtà perché così comandava l’impresario. Del resto
nessuno era in grado di chiedere ed ottenere il fallimento degli Stati Uniti
d’America, non solo per carenza di armi idonee, ma anche perché ormai le
riserve di tutte le nazioni si fondavano sulla medesima finzione[32].
In altre parole Nixon procedeva ad allineare il dollaro alle valute europee e al rublo.
Il che significava equipararlo a della pura e semplice carta-moneta, o meglio,
a dei segni monetari senza alcun valore intrinseco i quali, per essere
accettati o imposti come tallone di scambio, ponevano in tutta la loro drammaticità
il problema del valore. «Le obbligazioni governative –
notava a questo riguardo il futuro presidente della fed Alan Greenspan – non sono infatti finanziate da ricchezza
tangibile, ma rappresentano solo la promessa del governo di sborsare nel futuro
parte del reddito ottenuto tramite il prelievo fiscale»[33].
Che cosa garantisce un «segno
cartaceo» in circolazione che non ha più come contropartita immediata la sua
realizzabilità in un certo peso di metallo pregiato? Non vi è che una sola
risposta: la produzione. Finché sono reperibili merci sul mercato, esse garantiscono
quei segni monetari che teniamo in tasca. Se mancano i prodotti, invece, li
possiamo anche buttare perché non valgono nulla – non essendovi più in
contropartita il metallo prezioso. Ma i prodotti sono lavoro cristallizzato e,
in ultima analisi, le differenti valute cartacee rappresentano lavoro. L’euro,
il dollaro, il rublo, lo yen, ecc., rappresentano nient’altro che le varie
unità di misura «regionali» del lavoro umano.
Balza quindi agli occhi che
questa «moneta-lavoro» rappresenta una «novità» rispetto a ciò che abbiamo
riscontrato fin qui. «Ora il possessore di un titolo di stato o di un deposito
bancario creato dalle riserve cartacee crede di avere un valido diritto su un
bene reale. Ma non è così: la verità dei fatti è che adesso ci sono più diritti
che beni reali»[34]. Trattasi
insomma di un problema di prima grandezza, anche perché, la storia ce lo
insegna, il disordine monetario non è la causa scatenante delle difficoltà
economiche generali, ma sono invece queste ultime che costituiscono la ragione
della metamorfosi del denaro in segno cartaceo. Ed esso non è altro che il
sintomo rivelatore del funzionamento patologico del sistema.
Dire però che questa tipologia
economica rappresenti un’autentica novità non è del tutto esatto. Infatti uno
scenario come quello testé descritto si era già manifestato altrove. Mi
riferisco a ciò che era già avvenuto in Russia con il rublo che, com’è noto,
non si poteva cambiare in oro e non aveva corso in Occidente; era cioè una
«moneta di conto» o un buono di consumo che serviva puramente alla
distribuzione dei prodotti senza possedere un valore intrinseco. Ad
onor del vero, tuttavia, va anche detto che già durante la «Grande Depressione»
il presidente Roosevelt si era reso conto «che quanto si sta facendo negli
Stati Uniti sono in parte le stesse cose che si stanno facendo in Russia come pure
alcune cose che si stanno facendo nella Germania di Hitler. La differenza è che
gli Stati Uniti le fanno in modo ordinato»[35].
Ma, a parte l’elemento dell’«ordine», si «abbozzavano già distintamente gli
elementi che facevano intravvedere molte caratteristiche in comune;
caratteristiche che si possono combinare insieme per formare nuovi sistemi misti»[36].
Il rublo rappresentava quindi un’«unità di tempo-lavoro»
che lo Stato russo emetteva a suo piacere lasciandola garantire dal gettito
produttivo. Prezzi, salari e profitti pur essendo ancora categorie economiche,
non svolgevano più una funzione attiva indipendente: erano soltanto espressioni
di grandezze fisiche aggregate e determinate direttamente dalle decisioni del Gosplan. La ripartizione delle risorse
non aveva quindi nulla a che fare con i rapporti di prezzo, di salario e di
profitto[37].
Cosa voleva dire tutto questo? Che la «moneta di conto»
sovietica non costituiva più un tallone mercantile. Non misurava né stabiliva
il valore dei prodotti. Li smistava e li distribuiva secondo criteri che non si
fondavano più prevalentemente sulla domanda e sull’offerta, ma su criteri che
rispondevano ad una ratio
squisitamente politica. A questo riguardo, come abbiamo visto, le modalità con
cui venivano assegnati questi beni non rispondevano a un’esigenza di tipo
socialista, ma seguivano una logica per cui il grosso della produzione veniva
distribuito tra l’esigua élite burocratica al vertice del paese, mentre la
restante parte di beni era ripartita, in proporzioni stabilite dagli organi del
Partito-Stato, tra tutta la popolazione lavoratrice.
Così anche nei paesi occidentali, con le trasformazioni
della moneta in «segno cartaceo», l’intervento statale iniziava mano a mano a
divenire talmente profondo e multiforme che i «prezzi» non erano più tali,
ossia sgorganti dal rapporto aritmetico tra domanda e offerta[38].
Con l’intervento continuo dello Stato nella produzione, nella distribuzione e
nei servizî, il potere sociale cambiava poco per volta di sede. Dai
privati passava allo Stato corrispondentemente all’ampiezza e alla profondità
dell’intervento statale. Ogni «prezzo», in conseguenza di ciò, assumeva
coefficienti politici che ne alteravano il valore. «E se il prezzo non era più
tale, ma una quotazione largamente dovuta a fattori estranei al rapporto
aritmetico tra domanda e offerta, ciò era indicativo del fatto che il mercato
non aveva più vitalità e che il negozio non era più tale. Non si
scambiavano delle merci, ma si distribuivano in un certo altro modo i prodotti
del lavoro umano e non secondo mercato»[39].
In una simile condizione, dunque, «in cui l’economia di mercato sembra irrimediabilmente perduta»[40],
«il valore del denaro ha assunto le sembianze del puro segno, della
convenzione, fino a sparire quasi nella totale astrazione. Il segno viene
accettato in nome della stabilità e della sopravvivenza istituzionale, senza
porre l’inquietante problema del valore»[41].
In conclusione proviamo allora a trarre un
provvisorio bilancio su quanto accade attorno a noi. Qual è oggi l’elemento più
rilevante nella nostra esperienza quotidiana col denaro? Direi la sua quasi
avvenuta «evaporazione», riferendomi con tale espressione alla sua consistenza
fisica, palpabile, concreta. Ormai il denaro in circolazione viene utilizzato
prevalentemente per le spese minute come l’acquisto del giornale in edicola,
per pagare un caffè al bar o a spesucole di questo genere. Per il resto il
nostro fabbisogno complessivo viene coperto per la quasi totalità da «denaro
virtuale». Si stima infatti che «circa l’85 per cento del denaro esistente e
circolante al mondo non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro
creditizio, ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla
dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di
nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere
d’acquisto complessivo della popolazione mondiale»[42].
Potremmo dunque riferirci a questa «nuova forma» del
denaro come a qualcosa di molto prossimo a una specie di «buono di consumo», in
quanto esso ha perduto la sua caratteristica funzione di anonimato per divenire
un’entità che vincola ciascun individuo inderogabilmente alla propria
consistenza bancaria. Una sorta di nuovo «principio di individuazione» sulla
base delle proprie possibilità di
accesso al consumo. Per cui il diffondersi sempre più intrusivo di tali buoni
quali effettivi mezzi di rimunerazione e la sincronica disseminazione di carte di credito, bancomat e tessere
varie come ultimi ritrovati in fatto di transazioni economiche,
incarnano una consolidata deriva alla «rappresentazione scenica» del denaro il
cui significato non dovrebbe sfuggire a tutti coloro che sono interessati a
cogliere l’essenziale dello status quo. E tutto ciò senza omettere il
circuito integrato fatto di rate, mutui, fidi, leasing, servizî alla persona,
servizio civile, servitù temporanee, staff leasing, ipoteche sulla casa, indebitamenti bancari,
eccetera eccetera[43].
Tipologie differenti che però
rimandano tutte alla medesima modalità concreta con cui viene concepito il valore
e la qualità del tempo nelle nostre «società avanzate». Insomma, si
tratta di peculiari forme di «cambiali in bianco» che si profilano come delle vere
e proprie ipoteche sul futuro per chi ne è soggetto. «Tre giorni
lavorerai per me, tuo signore e padrone, e tre giorni lavorerai per te, riposo
al settimo» recitava un ricorrente apoftegma feudale[44].
E, sia pure tenendo conto dei differenti contesti in esame, la tonalità emotiva
che informa certe pratiche odierne non sembra in ultima istanza così
lontana da un simile afflato procedurale.
Contrariamente a quanto viene
oggi declamato dai laudatori delle innumerevoli possibilità del «lavoro
interattivo» disponibile on the Market,
«si può infatti essere servi di Stato con un computer in mano invece che con la zappa di feudale memoria, ma
si è pur sempre servi»[45].
Infatti ciò che si profila con sempre più nettezza davanti ai nostri occhi è
una sorta di prototipo del «cittadino ideale»; un individuo perfettamente
manovrabile, privo di capacità di opposizione, di resistenza e sprovvisto di
alcun senso di consapevolezza, l’esatto contrario della tanto sbandierata
imprenditoria «neoliberista» del nostro tempo. Gli si può aumentare a
fisarmonica i bisogni, i costi dei servizî e dei beni essenziali, i debiti e le
tasse. Lo si può far lavorare e vivere sempre più per un altro e sempre meno
per sé stesso, lo si può anche defraudare dei suoi risparmi: tutto questo con
l’appoggio degli apparati mediatici e delle istituzioni al gran completo.
Non so, per concludere, se ho risposto esaustivamente o
almeno contribuito a fare chiarezza circa la domanda posta nel titolo di questo
scritto. Quello che so e a questo punto mi pare difficilmente confutabile è
che, avendo ripercorso sinteticamente la genealogia della moneta dal mondo
antico a quello attuale, ci troviamo a vivere in una situazione molto diversa
rispetto ciò che ci vorrebbero far credere le «trombe» di regime. Una
situazione che allude, per dirla in maniera icastica, a uno scenario non molto
lontano da quello che potremmo definire come un vero e proprio «feudalesimo
modernizzato».
[1] Pecunia non olet significa letteralmente
«Il denaro non puzza». La leggenda vuole questa frase attribuita a
Vespasiano, a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa
sui servizi igienici pubblici, denominati da allora vespasiani, dalla quale
provenivano cospicue entrate per l’erario.
[2]
Secondo le ricerche dell’insigne linguista Émile Benveniste, l’indoeuropeo *peku designava invece originariamente la
«ricchezza mobile» personale; ed è solo attraverso specificazioni successive
che, in certe lingue, ha potuto denotare il bestiame, il bestiame minuto e il
montone (cfr. Id., Le vocabulaire des
institutions indo-européennes, 2. voll., Les Éditions de Minuit, Paris,
1969; trad. it. Il vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, 2 voll., Einaudi, Torino, 1976, vol. i, pp. 36-37).
[3]
Erodoto, Storie, Utet, Torino, 1998, i, 94.
[4]
Cfr. J. Burckhardt, Griechische
Kulturgeschichte, 4 voll., Spermann,
Berlin & Stuttgart, 1898-1902; trad. it. Storia della civilta greca, 2 voll., Sansoni, Firenze, 1974.
[5] A. Greenspan, Gold and Economic Freedom, in «The Objectivist», vol. 5, n. 7,
luglio 1966, p. 80 (poi ristampato in A. Rand, Capitalism: The Unknown Ideal, New American Library, New York,
1966).
[6]
E. Babelon, Le origini della moneta
considerate dal punto di vista economico e storico, Arnaldo Forni Editore,
Sala Bolognese, 1977, p. 315.
[7] R. Gaettens, Inflationen: das Drama der Geldenwertungen vom Altertum bis Gegenwart,
Richard Pflaum Verlag, München, 1955; trad. it. Inflazione, Longanesi, Milano, 1959, p. 37.
[8] G. Ferrero, La Ruine de la
civilisation antique, Plon-Nourrit & Cie, Paris, 1921; trad.
it., La rovina della civiltà antica, Athena, Milano, 1926, p. 37.
[9]
Cfr. E. Ciccotti, Il tramonto della
schiavitù nel mondo antico, Bocca, Torino, 1899.
[10]
B. Rizzi, La proprietà, in «Rassegna italiana di sociologia», n. 4,
ottobre-dicembre 1967, p. 597.
[11] Cfr. L. Homo, Les institutions
politiques romaines: de la cité à l’état, La Renaissance du Livre, Paris,
1927; trad. it. Le istituzioni politiche romane. Dalla città allo Stato, Mursia, Milano, 1975, p. 125.
[12] H. Wallon, Histoire de l’esclavage dans l’antiquité, 2. voll., Imprimerie
Royal, Paris, 1847, vol. ii, pp.
162-170.
[13] Cfr. F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen âge, La Renaissance du
Livre, Paris, 1927.
[14]
Farà scuola in questo senso il lavoro dello storico francese Marc Bloch, che
localizzò la società feudale tra il x
e xiii secolo (cfr. Id., La Société féodal, 2 voll., Albin
Michel, Paris, 1939; trad. it. La società
feudale, Einaudi, Torino, 1949).
[15]
Codice Giustiniano, XI, 51: «Cum per alias provincias, quæ subiacent
nostræ serenitatis imperio, lex a maioribus constituta colonos quodam
æternitatis iure detineat…».
[16]
Cfr. B. Rizzi, La rovina antica e
l’età feudale, a cura di P. Sensini e B. Chiorrini Dezi, Marco editore, Lungro
di Cosenza, 2006, cap. VIII (Il Feudo), pp. 449-472.
[17] Cfr. A. Engel – R. Serrure, Traité de numismatique du Moyen âge, 3 voll., Leroux, Paris, 1891-1905, vol. i, p. 161.
[18]
Durante questo periodo i nobili erano usi incassare moneta sonante, non beni in
natura come i feudatari e neppure «segni cartacei» come avviene oggi (cfr. B.
Rizzi, Sui tratti dominanti della società
artigiano-nobiliare, in Id., La burocratizzazione
del mondo, Edizioni Colibrì, Milano, 2002, pp. 381-389).
[19] H. Hauser – A. Renaudet, Les débuts de l’âge moderne. La Renaissance
et la Rèforme, Alcan, Paris, 1938; trad. it. L’età del Rinascimento e della Riforma, Einaudi, Torino, 1967, pp.
411-412.
[20]
K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze, 1978,
vol. i, p. 81.
[21]
Ibid., p. 187.
[22]
Per Marx la legge del valore «regola» il capitalismo di mercato ma non altre
forme di produzione sociale. Parlare dunque di legge del valore «regolatrice»
dell’economia in mancanza di rapporti di mercato specificatamente capitalistici
può solo significare che i termini «valore» e «plusvalore» sono conservati pur
non esprimendo altro che il rapporto tra lavoro e lavoro supplementare
(plus-lavoro).
[23]
J. Baby, Principî fondamentali di
economia politica, Le edizioni sociali, Milano, 1949, p. 49. Pare che prima
del 1545 l’oro valesse in Spagna 10,75 volte più dell’argento, mentre sotto
Filippo ii si attestò a 13,90 (cfr. H. Hauser – A. Renaudet, L’età del Rinascimento e della Riforma,
cit., p. 500).
[24]
La cui origine risale probabilmente ai banchi pubblici napoletani, che emisero
– in occasione di controversie civili – un documento probatorio chiamato «fede
di deposito» e attestante il versamento nel banco di una certa somma di denaro.
[25]
G. Felloni, Moneta, credito e banche in Europa: un millennio di
storia, Brigati, Genova, 1997, p. 52
[26] A. Greenspan, Gold and Economic Freedom, cit., p. 82.
[27] Ibidem.
[28] P. Mattick, Marx and Keynes. The Limits of the Mixed Economy, Extending
Horizons Books, Boston, 1969; trad. it. Marx e Keynes. I limiti
dell’economia mista, De Donato, Bari, 1972, p. 173.
[29] P.K. Crosser, State Capitalism in the Economy of the United States, Bookman
Associates, New York, 1960, p. 97.
[30]
P. Mattick, Marx e Keynes. I limiti dell’economia mista, cit., p.
274.
[31]
Gli Stati Uniti avevano abbandonato il regime aureo già nel 1933. Il Gold Reserve Act del 1934 aveva
conferito al Tesoro americano la proprietà dell’intero tesoro esistente nelle
Banche della Federal Reserve. Tutte le monete d’oro in circolazione furono
ritirate e il loro possesso da parte degli individui dichiarato illegale. Nel
1934 gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia misero a punto il regime
del cambio in oro (Gold exchange standard),
in base al quale regolavano in oro le operazioni finanziarie internazionali
mentre svolgevano secondo i propri bisogni le politiche monetarie interne.
[32]
Da allora gli accordi si susseguono senza mai risolvere il problema reale, che
è, per ogni singolo Stato, l’impossibilità di sanare il debito contratto
dall’erario; la stabilità e la ricchezza si fondano ora su un medesimo patto
scellerato che lega i sudditi ai tiranni indissolubilmente, il patto di fingere
che lo spettacolo del valore del denaro costituisca un valore reale, il
patto che l’oro esista anche se tutti sanno che non c’è.
[33] A. Greenspan, Gold and Economic Freedom, cit., p. 83.
[34] Ibidem.
[35] H.L. Ickes, The Secret Diary of Harold L. Ickes. The first Thousand Days,
1933-1936, Simon and Schuster, New York, 1953, p. 361.
[36] J. Tinbergen, Shaping the World Economy. Suggestions for an International Economic
Policy, The Twenthiet Century Fund, New York, 1962, p. 39.
[37] Cfr. N. Spulber, Foundations of Soviet Strategy for Economic
Growth, Indiana University Press, Bloomington, 1964; trad. it. La strategia sovietica per lo sviluppo
economico, 1924-1930, Einaudi,
Torino, 1970.
[38]
Cfr. D. T. Bazelon, The Paper Economy, Random House, New York, 1963;
trad. it. L’economia di carta, Edizioni di Comunità, Milano 1964.
[39]
B. Rizzi, Un nuovo sistema economico, in «Rassegna italiana di
sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1971, p. 157. Cfr. anche F. Sternberg, Wer beherrscht die zweite Hälfte des 20.
Jahrhunderts?, Kiepenheurer & Witsch, Köln, 1961, pp. 143-62.
[40] P. Mattick, Marx e Keynes. I
limiti dell’economia mista, cit., p. 336.
[41]
G. Giovannelli, presentazione a K.
Marx, Segui il denaro (Follow the Money), Mimesis, Milano, 2003, p. 27.
[42]
Cfr. M. Della Luna – A. Miclavez, Euroschiavi,
Arianna Editrice, Casalecchio di Reno, 2006.
[43]
Il sempre crescente processo di indebitamento bancario che si sta registrando
un po’ ovunque nel mondo è, in buona sostanza, l’applicazione ai privati della
«trappola debitoria» ampiamente praticata agli Stati del Terzo Mondo: se non
possono pagare il debito, la banca offre di aprire un nuovo credito, su cui
pagheranno gli interessi cumulati del primo e secondo. E così via… Per i
nuovi usurai è questo il cliens ideale: quello che lavora tutta la vita
per arricchire loro. Infatti solo negli Stati Uniti i profitti delle banche su
questo business sono cresciuti del 163 per cento in 8 anni. I privati americani,
nel complesso, sono in rosso sulle carte di credito per 800 miliardi di
dollari, cifra pari a quasi una volta e mezzo il pil della Cina. E questo debito è aumentato del 34 per cento negli ultimi anni raggiungendo i 103.400 dollari in media a famiglia tra il
2001 e il 2004. Ecco perché le grandi banche estere ardono dal desiderio di
impiantarsi anche in Italia. Ora che la maggior parte dei lavoratori stringe la
cinghia già alla fine della seconda settimana, si vuol far diventare anche loro
degli allegri peones…
[44]
Lex Baiuwariorum, I, 3: «Servi opera vero tres dies in ebdomade in
dominico operent, tres vero sibi faciant».
[45]
B. Rizzi, Il deviazionismo sul proscenio, vol. iv, del Socialismo infantile, Editrice
Razionalista, Bussolengo, 1970, p. 29.