L'UOMO: UN BOVINO DEDITO AL CONSUMO

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Dedicato all’amico Udei che sempre mi ripete: “Tu sogni! Il popolo oggi è un popolo bove!”.

“Allevare i figli”. Mai una frase è stata meglio congeniata. Si allevano gli animali e i figli. I primi destinati al nostro diletto o al nostro stomaco, i secondi per essere immessi nei canali del consumo.
Perché i figli siano educati alla globale capacità consumistica, è necessario che gli educatori introducano gli educandi in particolari circuiti obbligati, costituiti da celle o gabbie. Per mantenere un buon sistema produttivo infatti è necessario pianificare l’allevamento, costruendo un insieme di compartimenti predisposti dal produttore-stato.

Un animale, ad esempio, avrà la sua stalla, il suo box, sarà costretto a vedere l’orizzonte solo da una particolare angolazione, e finirà la sua vita impacchettato in numerose confezioni nella catena di distribuzione. Per tutta la sua breve esistenza il suo compito è stato solo quello di crescere, diventare più grande e più pesante. E per arrivare a questo risultato si è sorbito farmaci, vaccini, iperalimentazione, cibi da immondizia e così via.
Questo è ciò che sinteticamente accade all’animale da consumo ma cose analoghe avvengono in quell’altro animale la cui unica funzione ormai è quella di consumare.

La sua prima gabbia: la famiglia. E’ qui che viene educato, ad obbedire, a chinare la testa, a consumare ricordi di cibo, a giocare con strumenti acquisiti secondo linee guida pubblicitarie.

La seconda: la scuola. Quanto maggiormente imparerebbe se avesse un suo insegnante personale, magari un famigliare. E invece via nell’ammucchiate, nei banchini, nei propri posti, di fronte agli educatori-autorità, cui obbedire, credere e ripetere.

La terza: la religione. Ma non una religione costituita da un comportamento conseguente, da un credo, da un impegno morale, bensì una religione passata al setaccio di uomini dediti al mantenimento del proprio potere e dei propri privilegi, il cui unico impegno verso la società è il amntenimento di una sufficiente massa critica di povertà e di sistemi di punizione per i ribelli, nei quali espletare la loro opera di carità e di pietà. Non una religione di libertà e di uguaglianza, ma una religione di diversità, di distinguo, di attesa di una giustizia post-mortem.

E poi tutta quella ulteriore miriade di gabbie: i mass media dell’uniformità del pensiero, la pubblicità degli oggetti inutili, il restringimento di spazi e di orizzonti, immersi in una vita condotta in piccole stalle, ognuna vicina alle altre, ognuna sopra o sotto l’altra, in quei famigerati agglomerati umani chiamati città. Aspetto paesaggistico inesistente o terrificante. L’idea dell’infinito cancellata, salvo per i pochi ribelli ancora capaci di sollevare lo sguardo al cielo.

Chissà se anche l’animale nelle stalle ha la sensazione di un ritmo di vita caotica, dove tutto corre in fretta, dove c’è una permanente mancanza di tempo. Chissà se avverte la sua vita come una corsa verso il proprio omicidio.

Ma a tutto questo nell’uomo si aggiungono caratteristiche sue particolari.

Una di queste è la “politica“, quella attuale, quella tecnica, quella senza pensiero, sogni e obiettivi, quella politica politicamente corretta.

Ed è qui, nei palazzi, nelle lobby, nei partiti, nelle sette più o meno segrete, che vengono create le peggiori gabbie.
Una di queste è il “pacifismo“. Io sono contro ogni guerra. Rifiuto l’idea che chiunque abbia combattuto una guerra possa vantarsene, indossare medaglie o gettarle al vento nelle piazze. Chiunque ha ucciso un altro uomo commette un crimine, punto e basta. Non importa che si mascheri con indumenti particolari, che lo faccia dietro un ordine o per un ideale. Detto questo, di cui mi sento convinto, mi sono però costruito la mia gabbia, da collocare vicino alle altre: quelle dei pacifisti con o senza se e ma, dei guerrafondai e perfino di quei mascalzoni che negano di essere in guerra pur facendola. Ed è per questo che per uscire dalla gabbia devo fare delle distinzioni, devo aprirne la porta.

E allora dico che c’è guerra e guerra.

All’apice esiste la guerra peggiore di qualunque altra, quella più gravata di crimini, quella scatenata contro ogni legalità, in modo preventivo, contro un popolo non capace di difendersi, e impiegando armi spropositate. E qui non c’è scampo: chi l’ha scatenata, sostenuta, apprezzata si è riempito l’anima di sangue e resterà un criminale, senza distinzione tra esecutore e mandante morale, impunito, per il solo fatto di aver scelto di stare dalla parte del più forte, che come nei peggiori branchi detta legge.

Dall’altra parte esiste la guerra di difesa e di liberazione, cioè la guerra inevitabile, quella che non sarebbe esistita senza un’occupazione e un’aggressione e che quindi è sempre la conseguenza di un atto criminale. La guerra di liberazione è quella messa in atto da tutto un popolo o da parte di esso: niente ha a che vedere con la liberazione l’arrivo di eserciti stranieri. Chi continua a gioire della liberazione dell’Europa da parte delle truppe anglo-russe nella seconda guerra mondiale, deve sobbarcarsi il peso morale di stermini, di bombardamenti a tappeto su città anche indifese o delle esplosioni su Hiroshima e Nagasaki. Escludendo dalla mia mente la possibilità di definire guerra di liberazione quella perpetrata e portata in campo da un esercito di un paese straniero mi libero del peso della colpa di essere correponsabile morale di assassinii, violenze sui civili e quant’altro, con conseguenze che si possono far sentire negli anni. Mentre, ad esempio, a distanza di tempo, si è continuato a festeggiare la vittoria delle “democrazie” occidentali nella 2° guerra mondiale, molti in Giappone stavano urlando di dolore per le conseguenze patite con la radioattività. E questo per me non è ammissibile.

Tutto questo l’ho detto per spiegare con un esempio come l’uomo possa liberarsi delle gabbie solo facendo dei distinguo. “Senza se e senza ma”, pronunciata a fatto compiuto, è una frase ipocrita perché realizzabile solo se tutto tornasse al momento precedente l’inizio di un conflitto.

Un’altra gabbia è il fascismo e il correlato antifascismo. Fascismo è un termine che di per sé non significa un bel niente e che può venir impiegato in una serie di circostanze politiche e no. Spesso viene inteso come violenza tout court, perpetrata da chi ha più potere di un altro. Per questo si definisce, ad esempio, in certe occasioni, la polizia con il termine di fascista.
Se per fascismo ci si riferisce a quel disastroso e ridicolo progetto politico che nacque in Italia, allora si parla di storia, di passato, di un passato nel quale l’uomo valeva men che meno (“credere”, “obbedire” erano gli imperativi).
Se per fascismo si intende un sistema politico nel quale vi è la massima protezione del sistema capitalistico, la massima espressione delle diseguaglianze, il tutto ottenuto attraverso un sistema repressivo del vero dissenso e delle vere alternative, beh allora nel fascismo ci siamo e definirsi antifascisti denota una filosofia di azione per il cambiamento, un uscire dalle gabbie. Cosa che non accade per quegli antifascisti, diciamo istituzionali, che tutto fanno fuorché portare rispetto alle lotte antifasciste di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Basta vedere le loro cerimonie sulla lotta partigiana. Dimenticati tanti uomini che hanno combattuto per la libertà in tutto il mondo, si beano in cerimonie piene di militari, forze dell’ordine, drappelli, stendardi, medaglie, giornalisti, bandiere, e immersi in discorsi sulla liberazione, sulla democrazia e così via. Quello che dimenticano sempre di dire è che il fascismo è nato e si è realizzato con l’appoggio dei poteri forti dello stato, gli stessi poteri che oggi sostengono tali cerimonie.

E la gabbia della democrazia? Quella secondo cui chi vi si trova dentro è costretto a credere che questo sia il miglior sistema di governo e che non esista altra forma di democrazia all’infuori di quella attuale. Tu non sei democratico è poi diventato sinonimo di non essere tollerante, buono, compassionevole, intelligente. Ma a credere in questa democrazia come potere del popolo rimangono ormai solo quelli che desiderano farsi eleggere, i loro scagnozzi e i loro controllori.
Gli stessi controllori che ci hanno fatto credere che Mussolini e quella decina di straccioni che marciarono su Roma hanno compiuto un’azione inarrestabile, un’azione da cui non fu possibile tornare indietro.
Gli stessi controllori di sempre.
Quelli che gestirono il nostro Risorgimento, quelli ad esempio che ora intitolano le piazze a Carlo Pisacane, facendo finta di non conoscerlo, tanto il popolo è ignorante e beve tutte le informazioni.
Chi era costui? Un anarchico, un rivoluzionario che voleva l’uguaglianza economica e politica fra le persone, un uomo che gridava fuoco alle carceri? No. Tutt’altro. Un “eroe” che, per amore dell’unità d’Italia, sbarca a Sapri, assale le carceri per avere manforte e muore, con altri 299 circa, tutti però – si badi bene – belli e forti. Se si legge un comune libro di storia dunque non si capisce proprio un bel niente: Pisacane sembra uno che va incontro al suicidio combattendo per l’Italia unita, punto e basta, e non invece per l’anarchia e la libertà.
Sono gli stessi che hanno fatto la rivoluzione francese sfruttando l’ingenuità di un popolo affamato e che coniarono, senza applicarlo mai, il motto: libertà, uguaglianza, legalità.
E si potrebbe andare oltre.

Nell’attuale fase l’uomo, ridotto dunque solo ad animale consumatore, consuma e digerisce tutto: onde elettromagnetiche, mezzi di controllo, deleghe politiche, ondate di notizie dai mass media, gendarmi, lattine, cibi precotti, già cotti, ma non ancora mangiati, surgelati, pappe, granturco, grano, farro, carceri, fagioli, ceci, politici, anche a piede libero, mezzi di trasporto di latta, spazi virtuali, ostie, anidride carbonica, coloranti, cadaveri, variamente appezzati, mais al topo; tutto quello che ci viene in mente l’uomo attuale è capace di consumarlo.
E lo consuma nelle sue proprie gabbie: quella della famiglia, del lavoro, della politica e del pensiero, vivendo di corsa per raggiungere l’ultima, quella con cui, ormai incapace di consumare, verrà sotterrato.

Ecco perché su di una lapide si trova scritto:

Ha lavorato, consumato e procreato
nella sua rapida vita non si è mai amato
ma ha rispettato tutti gli impegni della società
difendendo al massimo le sue proprietà
è stato un uomo religioso e credente
ma guardando il suo Dio raramente
Buon marito amava la prole e la dimora
consumando e digerendo ogni ora
se non fosse mai nato e morto
nessuno se ne sarebbe accorto.
Pace all’anima sua, speriamo sia felice
almeno nell’aldilà, come il suo prete dice.

di Boeuf Enragé

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