Egemonia
Gli Usa hanno sussunto e stravolto il concetto di Occidente
di DANILO ZOLO
Che cosa sopravvive dell’Occidente dopo la serie di «guerre umanitarie» decise dalle potenze occidentali negli ultimi quindici anni e culminate nella guerra preventiva contro l’Iraq? Che cosa resta dei valori, delle istituzioni, della identità storica dell’Occidente?
L’interrogativo è di estrema attualità. Si potrebbe sostenere che siamo in presenza di un processo di autodistruzione, in nome dell’Occidente, della legittimità stessa della cultura politica e giuridica occidentale. All’inizio del nuovo millennio, Mazar-i-Sharif, Guantánamo, Abu Ghraib segnano il tramonto di una civiltà fondata sul diritto e sulla garanzia delle libertà individuali, sull’abolizione della tortura, sulla tolleranza religiosa, sulla democrazia. E la guerra globale dell’Occidente contro il terrorismo in realtà non fa che alimentare il terrorismo in una sostanziale complicità nichilista. L’idea di Occidente, come ricorda Geminello Preterossi in L’Occidente contro se stesso (Laterza, 2004), nasce tra Settecento e Ottocento come una proiezione dello spazio europeo nella direzione dell’«emisfero occidentale» americano. Sia per Hegel che per Carl Schmitt l’Occidente tende a identificarsi con il «nuovo mondo» che incorpora e porta a compimento la modernità europea, che ne universalizza i valori e le tensioni interne. Il «nuovo mondo» americano è lo sviluppo estremo e la sintesi vitale di una tradizione che include la filosofia greca, il diritto romano, il cattolicesimo, la Riforma protestante. L’America è un «Occidente senza confini» rispetto al quale l’Europa continentale resta il «vecchio Occidente», ancorata com’è alla dimensione mediterranea: una tradizione del limes, dei molti dei, delle molte lingue e delle molte culture, del mare fra le terre, estranea alla dimensione cosmopolitica delle potenze oceaniche.E’ merito di Carl Schmitt l’aver tracciato, in Nomos della Terra, la genesi dell’uso politico globale – atlantico e oceanico – della nozione di Occidente. Quest’uso si afferma a partire dalla proclamazione, nel 1823, della «dottrina Monroe» da parte degli Stati Uniti d’America. Nasce in questo modo un’idea di Occidente che mette in questione le linee eurocentriche della rappresentazione globale del mondo. L’Europa perde il suo primato e la sua centralità. Essa è parte dell’emisfero occidentale ma in una posizione periferica rispetto al dominio assoluto e impenetrabile che gli Stati Uniti rivendicano sul «grande spazio» del continente americano. E l’Europa subisce inesorabilmente l’egemonia degli Stati Uniti quando essi attribuiscono di fatto alla dottrina Monroe una dimensione universalistica.
In questo senso l’Occidente che oggi conosciamo nasce quando, partendo dall’idea di un grande spazio panamericano di carattere difensivo, gli Stati Uniti si spingono ben oltre l’area caraibica e sud-americana, sino a coprire il mondo intero con i loro interventi e le loro basi militari. Questa proiezione globalistica della dottrina Monroe troverà la sua massima espressione ideologica nell’idealismo wilsoniano e la sua applicazione pratica nelle guerre mondiali del Novecento, conclusesi coerentemente con il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki.
Questo processo evolutivo tocca il suo culmine quando gli Stati Uniti, dopo la fine della guerra fredda e il crollo dell’impero sovietico, raggiungono un’assoluta supremazia militare e si erigono a potenza imperiale di dimensioni planetarie. Essi si mostrano in grado di promuovere un radicale mutamento della guerra stessa, che da «guerra moderna» fra Stati sovrani diviene guerra globale. Se la forza militare è del tutto impari, muta la nozione stessa di guerra: l’avversario diviene soltanto oggetto di coazione, e l’ostilità assume, da entrambe le parti, forme così aspre da non poter essere sottoposta ad alcuna regolazione e limitazione.
Solo chi si trova in condizioni di irrimediabile inferiorità si appella (inutilmente) al diritto internazionale contro lo strapotere dell’avversario e finisce per scegliere la strada del terrorismo, anche nelle forme più sanguinarie ed efferate. Chi invece gode di una supremazia militare globale fa della sua invincibilità il fondamento della sua justa causa belli e tratta il nemico come un bandito e un criminale con cui non si viene a patti, ma che si deve semplicemente annientare.
Per Preterossi sta in questa lettura schmittiana dell’imperialismo statunitense la chiave per intendere le strategie unilaterali, sempre più aggressive, che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno elaborato e messo in pratica nel corso dell’ultimo decennio. In questa cornice concettuale si colloca la critica che Preterossi rivolge all’ideologia neocons, in autori come I. Kristol, R. Pearle, P. Wolfowitz e in particolare Robert Kagan.
Kagan è l’autore che nel modo più esplicito e brutale ha contrapposto l’«altro Occidente» – la potenza militare degli Stati Uniti – alla «Vecchia Europa», impotente e imbelle, idealisticamente devota al diritto internazionale: un’Europa incapace di usare la forza in un mondo anarchico nel quale la guerra al terrorismo (di matrice islamica) è divenuto il compito primario delle nazioni democratiche, esemplarmente assolto dagli Stati Uniti.
La guerra contro l’Iraq, interpretata in questa chiave, non è dunque soltanto l’espressione di una radicale negazione dei valori occidentali da parte della massima potenza occidentale. E’ un conflitto epocale fra il nuovo e il vecchio Occidente. O, formulato più chiaramente, è un conflitto fra l’estrema propaggine geopolitica dell’Occidente e il suo originario spazio europeo: è un conflitto fra l’«altro Occidente» – ormai orientato a imporsi come il solo Occidente – e l’Europa.
Un progetto di pacificazione del mondo e di sconfitta del global terrorism non passa dunque attraverso un rafforzamento dei legami atlantici fra i due lati dell’Occidente. Passa per la capacità della «vecchia Europa» di riaffermare, contro l’egemonia degli Stati Uniti, i suoi valori originari, la sua vocazione mediterranea, la sua capacità di dialogo con le altre culture e civiltà, a cominciare da quella arabo-islamica.
La pace dipende dalla capacità dell’Europa unita di ritrovare una sua nuova centralità politica come «grande spazio» autonomo, orientato a svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo differenziato e policentrico. Il futuro dipende dalla capacità dell’Europa di essere sempre meno «occidentale» e sempre più «europea».
Danilo Zolo
Fonte:www.ilmanifesto.it
15.10.04