L'IRAN NEL MIRINO

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Postato il 13 Ottobre 2004

Dopo l’Iraq
Per controllare l’area Bush già pensa al prossimo target: Tehran

di JOSEPH HALEVI

La coppia Fassino-Rutelli, con Panebianco del Corriere della Sera, dice che non bisogna far fallire la «missione» americana in Iraq in nome della falsa tesi secondo la quale eliminato il « brutale dittatore », l’Iraq può ora aspirare a un migliore avvenire – e la convinzione resta nonostante le evoluzioni degli annunci del cosiddetto «programma unitario» di questi giorni. Diventerà invece, ahimé, la base per una guerra all’Iran. In Iraq è fallito tutto eccetto due cose, i profitti e la costruzione di basi militari. Il 30 settembre l’Institute of Policy Studies di Washington, di orientamento liberal, ha pubblicato un rapporto intitolato «una transizione fallimentare» (che si può leggere sul sito http://www.ips-dc.org/iraq/failedtransition/index.htm).
I paragoni sono effettuati sia in rapporto alla situazione precedente l’invasione che a quella afferente al periodo che va dall’invasione fino al 28 maggio scorso quando venne installato il governo fantoccio.

Grandi fallimenti

Non c’e un solo indicatore di sicurezza che non sia peggiorato in maniera significativa: dai caduti militari a quelli civili, alla crescente insicurezza quotidiana, all’aumento sistematico del tasso mensile dei rapimenti.
Sul piano sociale il rapporto sottolinea gli aspetti negativi per ambo i paesi. In Iraq il livello di disoccupazione è circa il doppio del 30 per cento esistente prima dell’invasione, molte scuole sono state distrutte e il clima generale di insicurezza impedisce a una grande quantità di bambini di frequentare la scuola.
Le condizioni sanitarie si sono drasticamente deteriorate perfino rispetto al periodo precedente l’invasione quando era in vigore l’embargo. Inoltre i bombardamenti hanno ulteriormente distrutto gli impianti di depurazione mentre l’inquinamento dei terreni e del Tigri è moltiplicato dalla contaminazione prodotta dalle 2.200 tonnellate di proiettili ad uranio impoverito che cospargono il territorio del paese.
Per gli Stati uniti il costo consiste nel fatto che la spesa militare, pur sostenendo, per ora, l’economia alimenta continui tagli ai servizi sociali. Ciò vale anche per le cure ai militari feriti dei quali il 64 per cento non è più in grado di riprendere servizio. Il bilancio dell’apposito programma medico manca di due miliardi e mezzo di dollari. Un terzo delle truppe d’occupazione è formato dalla Guardia Nazionale decurtando i servizi di emergenza che essa forniva a intere località Usa. Inoltre l’istituto di Washington rivela che molte famiglie di militari inviati in Iraq hanno dovuto pagare i giubbotti antiproiettile dei figli di tasca propria.
Il fallimento riguarda anche il controllo del petrolio: a tutto settembre la produzione del greggio era inferiore all’anno precedente.
I successi riguardano i profitti delle grandi società del complesso militar-industriale, come la Halliburton, e la costruzione di basi militari.

Piccoli successi

Nel primo caso, poche ore prima di installare il governo fantoccio il comandante occupante Bremer emise l’ordinanza numero 39 che ricalca gli accordi di libero scambio firmati dagli Stati uniti (Mary Lou Malig in Focus on the Global South, Jul 1, 2004). In particolare l’ordinanza introduce i criteri di investimento multilaterale che vennero sconfitti in sede mondiale alla fine dello scorso decennio. Si tratta quindi di un accordo imposto dagli Usa, mentre il paese viene distrutto giorno dopo giorno.
Queste disposizioni non sono revocabili. Esse formano l’ossatura giuridica volta a garantire che i soldi inviati in Iraq da Washington finiscano nelle casse delle società militar-industriali statunitensi.
Ma questo è niente. Un articolo del Christian Science Monitor del 30 settembre conferma la costruzione di una dozzina di basi, il cui costo di gestione ammonterà a 7 miliardi di dollari annui, tre volte i soldi regalati a Israele.
Come scrive su Common Dreams l’ex agente della Cia Ray McGovern, se vince le elezioni Bush aumenterà l’invio di truppe perché «gli obiettivi reali della guerra all’Iraq hanno prevalentemente a che fare con la conquista del dominio militare su questa regione ricca di petrolio e con l’eliminazione di ogni minaccia alla sicurezza ad Israele».
Senza il controllo dell’Iran il dominio sulla regione e sul petrolio è altamente incompleto, mentre nessuno minaccia Israele. Il gergo della «sicurezza» serve solo a collegare militarmente Washington e Tel Aviv contro l’Iran. Su questo terreno viene reso operativo l’asse strategico Usa-Israele la cui valenza è interamente antieuropea perché l’Iran è ormai l’unico paese del Medioriente ad avere rapporti autonomi con l’Europa.
Tehran è anche un fattore importante in un’altra zona energetica che gli Stati uniti cercano di arraffare con l’intervento in Afghanistan in un ravvicinato conflitto geopolitico con la Russia: la zona che va dal Mar Caspio all’Asia centrale ex-sovietica. Così bombardando e arraffando Washington arriva faccia a faccia con la Cina sul punto più vulnerabile per Pechino, quello energetico appunto.

Joseph Halevi
Fonte: www.ilmanifesto.it
13.10.04

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