L’Iran che piace all’Occidente si chiama MEK: terroristi che incarcerano i dissidenti

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Di Alireza Niknam

Il gruppo terroristico del Mujahedin-e Khalq, noto come MEK, che è stato inserito nell’elenco delle organizzazioni terroristiche dal 1997 al 2012 e ha la fedina penale sporca dell’assassinio di 17 mila persone, viene ora presentato come un gruppo puramente politico e impegnato nella difesa dei diritti umani dai canali satellitari anti-iraniani, come Iran International.

Questo culto ha creato relazioni e situazioni orribili sia all’interno che all’estero. La violenza perpetrata nei confronti dei propri membri è una questione importante che forse non è stata sufficientemente affrontata. La questione della tortura e delle prigioni segrete viene sollevata solo dai militanti che hanno trascorso del tempo nei campi del MEK. Da un altro punto di vista, una delle pratiche consolidate di questa setta è rappresentata dalle giustificazioni che i leader del MEK esprimono per alcune questioni, in particolare circa il repulisti interno e l’uccisione dei membri dissidenti.

Gli imprigionamenti e le torture che i leader del MEK hanno portato avanti contro i membri ribelli, comprendevano incarcerazioni a lungo termine (senza alcun contatto col mondo esterno), detenzioni in isolamento, torture, abusi psicologici e verbali, confessioni estorte con la forza, minacce di morte e sevizie che in molti casi hanno portato le persone alla morte. Le dichiarazioni dei membri rimasti isolati indicano che il MEK utilizzava tre tipi di prigionia all’interno dei suoi campi:

il primo tipo è costituito da piccole unità residenziali conosciute come Mehmansara (pensioni). Coloro che hanno cercato di fuggire dall’organizzazione sono stati reclusi in queste unità, senza poter uscire dalle rispettive strutture per parlare o incontrare qualcuno all’interno del campo. Karim Haqi, un membro di alto livello del gruppo terroristico, che era responsabile della sicurezza di Massoud Rajavi, il leader della setta, dice:
“Nel 1991, ero il comandante della protezione di Rajavi, non credettero che volessi andarmene, mi misero, con mia moglie e mio figlio di sei mesi, in un edificio chiamato Eskan, una serie di unità residenziali. L’organizzazione aveva costruito un muro altissimo intorno a queste unità e aveva installato del filo spinato verso l’interno (in modo che nessuno potesse uscire dal recinto); una torre di guardia e delle pattuglie. Durante questo periodo, ridotte le nostre razioni di cibo, ci  picchiarono,  insultarono e minacciarono di farci giustiziare”.

Un altro membro disertore della setta ha ammesso che, nel 1991, dopo aver presentato la richiesta di lasciare il gruppo, furono rinchiusi in varie stanze del campo. “Quando entrammo nel campo dell’organizzazione, ci presero i passaporti e i documenti di identificazione, e in seguito, quando gli dicemmo che volevamo andarcene, si rifiutarono di restituirceli. Ci rinchiusero in edifici chiamati Eskan e in altre prigioni”.

Il secondo tipo di prigionia all’interno dei campi del MEK era chiamato “‘bengalizzazione’, che si riferisce a piccole celle solitarie all’interno di stanze prefabbricate. I membri insoddisfatti che volevano lasciare il MEK venivano imprigionati nei Bengala:  era una sorta di punizione per le persone che avevano commesso un errore secondo chi amministrava il culto.

Queste persone dovevano riflettere sui loro errori e scriverne dei rapporti che venivano poi messi alla berlina durante la prigionia.

Masoud Bani Sadr, che era responsabile della rappresentanza diplomatica del gruppo in Europa e Nord America, scrive che dopo un incontro con Massoud Rajavi e altri membri anziani, si giunse alla conclusione che proprio lui era stato giudicato un individuo corrotto e quindi doveva diventare un bengalese.

“Dopo di che, il mio supervisore mi ha chiese di diventare bengalese e pensare come tale, il che significava che dovevo andare in cella di isolamento a riflettere e scrivere: questa è una grave forma di tortura mentale, tanto che alcuni membri dell’organizzazione  preferirono uccidersi piuttosto che diventare bengalesi“.

Il terzo tipo di detenzione riferito dagli ex membri comprende l’imprigionamento, la tortura fisica e l’interrogatorio in carceri segrete buttati in celle di gruppo. Queste prigioni sono utilizzate principalmente per perseguitare i dissidenti politici. La maggior parte dei membri della setta non sapeva dell’esistenza di queste prigioni, le persone che sono state recluse in questi centri affermano che non erano a conoscenza della loro esistenza fino alla loro esperienza personale diretta.

Uno dei testimoni, Mohammad Hossein Sobhani, afferma di aver trascorso otto anni e mezzo, dal settembre 1992 al gennaio 2001, in celle di isolamento nei campi del MEK. Un altro testimone, Javaheri Yar, vi e’ rimasto per cinque anni, dal novembre 1995 al dicembre 2000. Entrambe le persone erano membri anziani del MEK e volevano abbandonarlo, ma fu detto loro che non avrebbero avuto il permesso di andarsene a causa della grande quantità di informazioni di cui erano a conoscenza. Furono quindi imprigionati e infine consegnati alle autorità irachene e trasferiti nella prigione di Abu Ghraib.

Un membro del culto di Rajavi, che è riusci’ a fuggire dal temuto Campo Ashraf, ha poi dichiarato: “Dall’invasione americana dell’Iraq nel 2003, i leader del gruppo hanno cambiato la loro strategia e il Campo Ashraf è diventato una prigione dove i carcerati non hanno la possibilità di comunicare con l’esterno del campo”. Secondo lui, da quel momento fino ad oggi, i leader del MEK hanno addestrato i membri di questo gruppo a compiere attacchi terroristici, spendendo milioni di dollari. Secondo le dichiarazioni rivelatrici di tre membri fuggiti dal campo di Ashraf, i leader del MEK hanno perseguitato e torturato i membri di questo gruppo e non gli hanno permesso di lasciare il campo e di raggiungere le loro famiglie.

Secondo loro, molti membri del MEK vogliono fuggire, ma hanno paura per il loro futuro. A quanto emerge, decine di membri del MEK sono stati uccisi per ordine dei loro leader; l’unica colpa di queste persone è stata quella di cercare di fuggire dal campo.

Secondo un altro di questi testimoni, i leader del MEK usano ogni modo per fare il lavaggio del cervello e opprimere i carcerati di Ashraf, come le riunioni di gruppo in cui ogni membro doveva dar conto dei propri gusti sessuali e gli altri membri dovevano insultarlo  ridicolizzandolo. Inoltre, queste persone hanno dichiarato che a coloro che si trovano nel campo di Ashraf  non e’ consentito alcun contatto con l’esterno del campo, e se tentano di fuggire, saranno uccisi dalle guardie o arrestati e giustiziati.

Tutti questi casi sono solo una piccola parte dei crimini del gruppo terroristico del MEK, che, con evidenti violazioni dei diritti umani, tiene i suoi membri nel campo come prigionieri, e nessuna delle organizzazioni per i diritti umani fa il minimo sforzo per salvare queste persone. A questo proposito, l’associazione “Nejat”, formata dalle famiglie dei membri imprigionati nel campo di Ashraf o, per meglio dire, nella prigione del MEK (culto terroristico di Rajavi) in Albania, ha organizzato una manifestazione davanti alla sede del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Teheran, l’8 maggio, e ha chiesto a questa organizzazione umanitaria di sincerarsi delle persone catturate nelle grinfie del MEK.

Lo scopo di questa manifestazione, che si è svolta in concomitanza con la Giornata Mondiale della Croce Rossa, era quello di attirare l’attenzione delle organizzazioni internazionali, tra cui il Comitato Internazionale della Croce Rossa, sulla violazione dei diritti umani più evidenti dei membri intrappolati nel campo del MEK in Albania e di intraprendere azioni immediate per salvare queste persone. La Giornata Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa si celebra ogni anno l’8 maggio. Questo giorno è stato scelto perche’ giorno del compleanno di Henry Dunant, uno dei promotori e fondatori della Croce Rossa. Henry Dunant è considerato il primo vincitore del Premio Nobel per la Pace.
Al termine di questa manifestazione, la folla presente ha firmato una dichiarazione, di cui riportiamo:

“Come indicato nella missione della Croce Rossa, prevenire e alleviare le sofferenze, sostenere la vita e la salute e garantire il rispetto degli esseri umani, soprattutto nelle situazioni di emergenza. Ci aspettiamo che i membri reclusi possano presto ottenere il riconoscimento di rifugiati grazie alla diplomazia umanitaria della Croce Rossa e che quindi vengano salvati da una vita settaria e da condizioni mentali e fisiche difficili, evitando tragedie come omicidi e suicidi individuali e collettivi”.

In questa dichiarazione, che è stata consegnata al rappresentante della Croce Rossa in Iran, si sottolinea inoltre che:

“Il MEK, creando un campo di prigionia senza comunicazione con il mondo esterno, impedisce la presenza e la comunicazione delle famiglie e anche di tutte le istituzioni internazionali, compresa la Croce Rossa con i prigionieri; i genitori di ogni recluso sono privati del contatto e della visita con i loro figli, alcuni di loro per decenni”.

Di Alireza Niknam

Alireza Niknam, reporter e ricercatore nel campo dei gruppi terroristici, in particolare il gruppo terroristico di Mujahedin-e Khalq (MEK). Ha conseguito una laurea in scienze politiche presso l’Università di Teheran e scrive articoli per diverse agenzie di stampa internazionali. Oltre al giornalismo è commentatore politico e consulente del TerrorSpring Institute nel campo dell’antiterrorismo.

Traduzione a cura della Redazione di ComeDonChisciotte.org

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