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La Redazione

 

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L'INDUSTRIA DELL' OLOCAUSTO SBARCA ALL'UNIVERSITA' DELL' ILLINOIS

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A cura di Davide
Il 19 Aprile 2005
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Linciaggio morale al campus

DI DAVID GREEN

Nel suo libro del 2000, The Holocaust Industry: Reflections on the Exploitation of Jewish Suffering [ed. it. L’Industria dell’Olocausto. Lo Sfruttamento della Sofferenza degli Ebrei, Rizzoli 2002] il critico e studioso Norman Finkelstein affrontava in modo convincente tre argomenti generali. Primo, a partire dalla guerra del 1967 e dall’alleanza militare tra Israele e gli Stati Uniti, l’olocausto nazista (un evento storico) è diventato l’Olocausto, un’angusta e ideologizzata interpretazione sionista di quel genocidio, che è stata utilizzata per giustificare le scelte politiche di Israele e Stati Uniti, e per allargare la presenza delle elite ebraico-americane nei palazzi del potere. Secondo, anche in questo caso dal 1967, separatamente dagli studi storici accreditati si è sviluppata una letteratura dell’Olocausto, priva di valore scientifico e spesso fraudolenta. La letteratura dell’Olocausto, in special modo quella di Eli Wiesel, ha diffuso le speciose nozioni sulla “unicità” dell’Olocausto e sulla natura eterna dell’antisemitismo, entrambe utilizzate per mettere a tacere le critiche verso Israele. Terzo, Finkelstein esaminava minuziosamente le prove di una “doppia estorsione”, avvenuta nei tardi anni 90, nella quale sia i sopravvissuti all’olocausto nazista sia i governi europei (in primo luogo quello svizzero) furono sfruttati da organizzazioni ebraiche in cerca di esorbitanti quantità di indenizzi monetari, secondo criteri che eccedevano vistosamente quelli applicati sia dagli USA sia da Israele nei confronti dei depositi bancari dei sopravvissuti.

In genere i principali media ignorano i libri di Finkelstein, ma in questo caso il New York Times ritenne opportuna una replica, affidando il vetriolo allo storico dell’olocausto Omer Bartov (Brown Universitiy). La recensione di Bartov (dell’8 giugno 2000) è poco più di un esplicito attacco ad hominem che include qualche citazione fuori contesto del libro, e non affronta seriamente nessuna delle importanti questioni che ho citato più sopra. La recensione comincia con una nota particolarmente aspra:

Il soggetto principale dell’Industria dell’Olocausto si basa sulla semplice distinzione tra due fenomeni: l’Olocausto nazista e “L’Olocausto,” che viene definito come “una rappresentazione ideologica dell’olocausto nazista.” Per il primo dei due l’autore prova scarso interesse, per quanto sia pronto a riconoscere la sua realtà, dato che entrambi i suoi genitori sono sopravvissuti ai suoi orrori, e dato che alcuni dei pochi storici che rispetta, in particolare Raul Hilberg, ne hanno scritto.

In realtà, Bartov sa benissimo che Finkelstein coltiva da lungo tempo un interesse storico per l’olocausto nazista, come dimostra la sua estesa critica al libro di Daniel Goldhagen Hitler’s Willing Executioner [ed. it. I Volenterosi Carnefici di Hitler, Mondadori 1997], che Bartov loda nella prima riga della sua recensione come “brillante dissezione”. Nondimeno, nel perseguire il suo linciaggio morale, Bartov insinua che Finkelstein si degni di “riconoscere” che l’olocausto nazista sia avvenuto davvero.

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Bartov prosegue con un paragrafo che si riferisce in modo selettivo a ciò che Finkelstein effettivamente ha scritto:

Ma in una delle bizzarre inversioni che caratterizzano il suo libro, Finkelstein parla dell’evento storico con lo stesso tipo di reverente timore, con la stessa invocazione di silenziosa incomprensibilità, che ascrive al suo nemico principale, Eli Wiesel. Se si vuole “davvero imparare dall’olocausto nazista,” sostiene, “bisogna ridurre le sue dimensioni fisiche e allargare le sue dimensioni morali.” Qualsiasi cosa si intenda con ciò, non sorprende affatto che la sua visione circa le origini, la natura e le implicazioni del genocidio degli ebrei, consista solo in asserzioni vaghe, contraddittorie e non documentate. Così, ad esempio, a un certo punto scrive che “non esistono prove storiche di un impulso omicida caratteristico dei gentili,” e respinge la nozione che ci possa essere stato un “abbandono degli ebrei” da parte del governo degli Stati Uniti. Ma altrove accusa lo United States Holocaust Memorial Museum di smorzare “il retroterra cristiano dell’antisemitismo europeo” e di minimizzare “le politiche discriminatorie delle quote di immigrazione statunitensi,” per poi citare con approvazione il libro di David S. Wyman “L’Abbandono degli Ebrei.”

In realtà, Finkelstein afferma chiaramente che le “dimensioni fisiche” (musei e memoriali) dell’Olocausto funzionali alle presenti esigenze ideologiche, devono essere ridotte, espandendo nel contempo le dimensioni morali dell’olocausto nazista; cioè, un genocidio tra i molti che hanno caratterizzato il XX secolo, derivati in primo luogo dall’imperialismo, militarismo e razzismo sia europei sia americani. C’è poco timore reverenziale, qui, e Bartov (se vogliamo concedergli il beneficio del dubbio) sta semplicemente fingendo di non capire le indicazioni di Finkelstein. Per quel che riguarda le “asserzioni contraddittorie”, Bartov costruisce la sua argomentazione citando Finkelstein in un modo disonestamente decontestualizzato. L’argomentazione di Finkelstein contro “l’impulso omicida dei gentili” (pag. 49) si contrappone all’argomentazione di base di Goldhagen, relativa all'”antisemitismo eliminazionista,” concetto respinto anche da Bartov. Analogamente, Finkelstein respinge il concetto vago di un mondiale “abbandono degli ebrei”, considerandolo a livello generale un artefatto ideologico emerso, dopo la guerra del 1967, come “uno dei fondamenti della ‘narrazione dell’Olocausto'”

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D’altro canto, Finkelstein è molto chiaro nell’affermare che il Museo dell’Olocausto di Washington minimizza il retroterra cristiano e le quote statunitensi (pag. 73), una critica fondata che non contraddice affatto il suo rifiuto di un “impulso omicida dei gentili”. Questi commenti fanno parte della critica dettagliata alla natura politica del museo (e al fenomeno dei musei dell’Olocausto in generale), critica che Bartov ignora. Analogamente, le note polemiche di Finkelstein riguardo l’antisemitismo non sono affatto in contraddizione con la sua approvazione per il ben documentato lavoro di Wyman, riguardante la politica dell’amministrazione Roosvelt sull’immigrazione ebraica, che si trova in tutt’altro capitolo (pag. 103). In una nota a piè di pagina, Finkelstein conclude:

Un insieme di difficoltà economiche, xenofobia, antisemitismo e, in seguito, pretese ragioni di sicurezza, sono alla base delle quote restrittive applicate da Stati Uniti e Svizzera. Ricordando “l’ipocrisia delle dichiarazioni di altri stati, in particolare degli Stati Uniti, che non mostrarono alcun interesse nella liberalizzazione delle loro leggi sull’immigrazione,” la Commissione Indipendente, pur criticando aspramente la Svizzera, rileva che la sua politica per i rifugiati era “simile a quella della maggior parte degli altri governi.”

La conclusione di Bartov:

C’è qualcosa di triste in questa distorsione dell’intelligenza, in questo pervertimento dell’indignazione morale. E c’è anche qualcosa di indecente, qualcosa di puerile, ipocrita, arrogante e stupido. Quello che mi colpisce particolarmente nell'”Industria dell’Olocausto” è che si tratta della copia quasi perfetta delle argomentazioni che si propone di confutare. E’ ricolmo precisamente di quel genere di iperboli stridenti che Finkelstein, giustamente, rimprovera al sensazionalismo sull’Olocausto da parte di molti media; trabocca della stessa indifferenza nei confronti dei fatti storici, delle stesse contraddizioni interne, politica fuori luogo e dubbie contestualizzazioni; e trasuda lo stesso compiaciuto senso di superiorità morale e intellettuale.

Bartov non fornisce alcuna prova a sostegno di queste accuse, perché non ce ne sono. Come sempre, il lavoro di Finkelstein è un modello di chiarezza e onestà scientifica, scrupolosamente argomentato e copiosamente documentato, e le sue provocatorie conclusioni sono corroborate dalla terribile realtà dei fatti. Ma Bartov si stava solo scaldando in vista del suo attacco contro Finkelstein, “irrazionale e insidioso” teorico cospirazionista, un’accusa che ha ripetuto durante la sua visita presso la University of Illinois, nel settembre del 2004. L’astio di Bartov tradisce non solo la sua venalità e la tendenza alla proiezione patologica, ma anche la sua subordinazione alle esigenze dell’Industria dell’Olocausto. Questo è stato reso particolarmente evidente dai suoi sforzi per prestare le sue credenziali accademiche a sostegno della realtà della minaccia di un “nuovo antisemitismo”, nella pubblicazione sionista The New Republic di Martin Peretz.

Bartov ha visitato la University of Illinois in veste di illustre conferenziere Millercom, e ha tenuto una monotona e abbondantemente indecifrabile conferenza, in stile Industria dell’Olocausto, riguardante l’antisemitismo presente in film sconosciuti, davanti a un pubblico intorpidito e sconcertato, composto perlopiù da ebrei anziani, i più fortunati dei quali un po’ duri d’orecchio. Ma il piatto forte è stato servito quando ha parlato all’Illinois Program for Research in the Humanities [Programma dell’Illinois per gli Studi Umanistici], descrivendo la minaccia per gli ebrei rappresentata dal mondo islamico, citando la sua retorica antisemita. Bartov ha ottusamente sostenuto le sue argomentazioni con la bellezza di tre citazioni aneddotiche, in una discussione rimarchevole per la mancanza di una seria preparazione di entrambi i partecipanti (tutti e due ebrei), con nessun musulmano invitato a parlare, come sarebbe stato coerente con la storia recente del Programma.

Non è sorprendente constatare quanto lo stesso Bartov abbia una mente fertile per quel genere di retorica. Nella recensione all'”Hitler’s Second Book” (2 febbraio 2004) (1) su The New Republic, Bartov scrive: “Nei campus americani trovano sempre più spazio le proteste anti-israeliane, proteste che manifestano tendenze preoccupanti. Un gruppo che si autodefinisce ‘Solidali del New Jersey: Attivisti per la Distruzione di Israele’ ha annunciato una ‘festa dell’odio per Israele’ da tenersi nel campus della Rutgers University, a New Brunswick, nell’ottobre del 2003.”

La verità, naturalmente, è che il gruppo si chiama semplicemente Solidali del New Jersey (2), e che la conferenza non era stata affatto pubblicizzata come una “festa dell’odio”, ma come promozione della solidarietà con i palestinesi e contro gli investimenti in società che fanno affari con Israele; la conferenza, nel recente passato, si è svolta su base annuale in vari campus universitari. Bartov (seguendo la tendenza alla contraffazione di Elie Wiesel, Jerzy Kosinski, Binjamin Wilkomirski, e altri di cui Finkelstein parla nel suo libro, ma che Bartov nella sua recensione dimentica) ha inventato espressioni come “Attivisti per la Distruzione di Israele” e “festa dell’odio per Israele” di sana pianta. Un accusa del genere non solo è diffamatoria, ma, come sanno tutti, del tutto inverosimile in qualsiasi campus universitario o anche nel contesto del nostrano movimento per i diritti dei palestinesi. Naturalmente, la retorica di Bartov fa parte di una più vasta campagna di diffamazione dei critici di Israele nell’ambiente universitario, tramite l’accusa di antisemitismo, una campagna sostenuta localmente dalla Champaign-Urbana Jewish Federation (3).

Nello stesso articolo su The New Republic Bartov conclude:

Poiché uno degli aspetti più inquietanti del libro di Hitler non è dato dalle cose che diceva a suo tempo, ma dal fatto che le cose che diceva si possono trovare oggi un po’ dappertutto: in siti internet, opuscoli propagandistici, discorsi politici, cartelli di protesta, pubblicazioni accademiche, sermoni religiosi, eccetera. Finché non verranno associate al nome di Hitler, queste insane argomentazioni saranno ignorate o permesse. Le voci che sostengono simili opinioni non appartengono a una singola ideologia o corrente politica, e sono più difficili da individuare ora che negli anni 30. Appartengono alla destra e alla sinistra, all’ovest e all’est, alla marmaglia e ai leader, a terroristi e intellettuali, studenti e contadini, pacifisti e militanti, espansionisti e attivisti anti-globalizzazione. Il tipo di diplomazia patrocinato da Hitler non ha più corso, ma le ragioni che la sostenevano, la sua “visione del mondo”, sono ancora vive e vegete, e possono ancora colpirci.

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Con questa isterica esplosione da Industria dell’Olocausto, Bartov riesce non solo a dissipare quel poco che restava della propria credibilità, ma mette in questione anche quella delle tre istituzioni della University of Illinois che lo hanno invitato: The Center for Advanced Study, il Program for Jewish Culture and Society, e l’Illinois Program for Research in the Humanities, il secondo guidato dal presidente della Jewish Federation, l’ultimo guidato da un membro della facoltà del PJCS. Sfortunatamente, la visita di Bartov riflette le pecche fondamentali di tutti e tre i programmi: l’ingenuità e l’ottusità accademica del CAS, le propensioni sioniste e all’esoterismo ebraico del PJCS, e l’angusta interpretazione del concetto di “studi umanistici” da parte dell’IPRH, che esclude quelli palestinesi. Tutto questo è parte dell’ambiente in cui la Jewish Federation, ospite dell’Hillel (4), si è fatta carico di calunniare gli studenti musulmani che scrivono per il Daily Illini (5) articoli critici verso Israele, di appoggiare le visite del razzista Daniel Pipes e di una sfilata di propagandisti del governo israeliano, tra i quali l’ex amministratore militare di Hebron occupata, in pratica un criminale.

La nostra locale Industria dell’Olocausto lavora per reagire, sul piano ideologico e personale, contro ogni discussione accademica e razionale sul comportamento criminale di Israele che possa emergere in questo campus, per stabilire limiti rigidi e arbitrari per tali discussioni, e in definitiva per mettere in discussione le motivazioni dei critici di Israele. Finora, grazie agli sforzi di accademici e compari come Omer Bartov, i risultati ci sono. Ma la natura delle visite di Bartov deve anche ricordarci che la locale Industria dell’Olocausto non fa nulla per educare la comunità a una ricerca accademica credibile che si interessi della storia politica ed economica dell’ascesa al potere dei nazisti (includendo il sostegno dell’occidente), e ostacola gli appropriati paralleli che potrebbero essere fatti con la disumanità istituzionalizzata delle occupazioni israeliana e americana nel Medio Oriente.

L’ossessione dei lavoratori del’Industria dell’Olocausto per l’asserita unicità della disumanità nazista li ha condotti a svalutare la disumanità caratteristica di ogni esercito i cui soldati sono cresciuti in culture razziste, desensibilizzati alla violenza inerente alle culture militari in tempi di guerra e occupazione. Sebbene ci sia una lunga strada da Abu Ghraib ad Auschwitz, la strada dal West Virginia ad Abu Ghraib è altrettanto lunga. Ma le torture americane e israeliane vengono razionalizzate, e le loro radici culturali e istituzionali accantonate. Il maggiore testimonial di questa mentalità, con accluse accuse di antisemitismo ai malvagi critici di Israele, è naturalmente Alan Dershowitz, col suo (notevolmente sciatto) libro The Case for Israel. Nel suo prossimo lavoro, Beyond Chutzpah: On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, Finkelstein analizzerà tra le altre cose i record di Israele nella violazione dei diritti umani, violazioni negate da Dershowitz e ignorate dai locali leader ebrei ed accademici, caparbiamente attaccati alla loro credenza nello “splendido Israele”, contro ogni schiacciante evidenza del contrario.

David Green vive a Urbana, Illinois.
Fonte:www.counterpunch.org
Link:http://www.counterpunch.org/green03192005.html
19/20.03.05

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DOMENICO D’AMICO

Note del traduttore:

(1) Il cosiddetto “secondo libro di Hitler” è una sorta di continuazione del Mein Kampf, scritta nel 1928 e per svariate ragioni mai pubblicata. Rintracciato nel ’58 negli archivi statunitensi, fu pubblicato nel ’61 in tedesco e in inglese. La recensione di Bartov riguarda una nuova traduzione fatta nel 2003 dalla casa editrice Enigma. In Italia esiste una edizione Longanesi degli anni 60.

(2) In effetti il gruppo New Jersey Solidarity (come potrete verificare sul suo sito: http://www.newjerseysolidarity.org/) riporta una dicitura, accanto alla denominazione principale, che dice “Attivisti per la Liberazione della Palestina”, non “Attivisti per la Distruzione di Israele”.

(3) Si tratta di una private charity, un’organizzazione non profit per l’assistenza agli ebrei poveri e per la promozione dei valori comunitari ebraici.

(4) E’ l’organizzazione che si occupa degli studenti ebrei.

(5) Giornale universitario della University of Illinois.

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