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La Redazione

 

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L'IMPRESA E' MIA E LA DERUBO IO

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A cura di Davide
Il 4 Dicembre 2004
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Che i capitalisti sfruttino non è certo una novità. Anzi. Ma in Italia, terra di genti ingegnose e «furbe», si assiste a una variante decisamente originale. Gli imprenditori depredano le imprese di cui sono proprietari. Attraverso la formula delle stock options si appropriano di profitti che dovrebbero distribuire agli altri azionisti sotto forma di dividendi. Una pratica tanto discutibile da non venire nemmeno usata nella patria del capitalismo moderno, dove sono state inventate le stock options: gli Stati Uniti. E la «mistica del capitalismo» si spoglia delle sue mistificazioni teoriche per presentarsi nella sua variante all’italiana: un modo volgare, ma legale, per «rubare». Così Editor, pseudonimo di un noto giornalista economico, analizza il capitalismo italiano degli anni Duemila.

DI EDITOR

I casi si moltiplicano. Il più clamoroso finora riguarda Marco Tronchetti Provera, primo azionista della Pirelli. Quando il suo gruppo, nel settembre 2000, ha ceduto all’americana Corning la controllata Optical technologies per 3,43 miliardi di dollari (oltre 7.500 miliardi di lire), ha potuto esercitare una stock options pari al 6 per cento del capitale. Ha così incassato personalmente 491 miliardi. Un altro esempio significativo è quello di Roberto Colaninno, presidente e azionista di riferimento alla Telecom, che fra il 1999 e il 2001 ha messo nelle sue tasche 72,6 miliardi con le stesse modalità. Grazie cioè alla formula, in uso per i capi d’azienda, che prevede la possibilità di sottoscrivere titoli della propria società a un costo prefissato e di ottenerne (rivendendole entro un certo periodo di tempo) un relativo guadagno, dato appunto dalla differenza fra il prezzo garantito a suo tempo e il valore riconosciuto dal mercato alle azioni, nel momento in cui quell’opzione viene esercitata.

Si trovano poi ulteriori testimonianze in molte compagnie di primo piano: dalla Gucci di Domenico De Sole e Tom Ford alla Finpart di Gianluigi Facchini, dalla Luxottica di Leonardo Del Vecchio alla Bulgari di Francesco Trapani. Nasce da questo fenomeno il conio di un neologismo, capitalismo manageriale,  non propriamente lusinghiero.

In verità la formula delle stock options non costituisce, in sé, una novità. Nata negli Stati Uniti, dopo un lungo periodo di sporadiche sperimentazioni in Europa si sta ora diffondendo con maggiore rapidità, in particolare in Italia. Sia nella versione meglio conosciuta di premi retributivi per gli alti dirigenti; sia in quella meno nota, ma dalle origini più «nobili», di compartecipazione per tutti i lavoratori. Si calcola infatti che soltanto il 6 per cento degli addetti beneficiano di piani d’azionariato diffuso contro il 12 per cento dei manager, mentre il livello medio negli altri paesi dell’Unione europea è esattamente il doppio. Occorre pure notare che, a livello di alta direzione, la percentuale cosiddetta variabile dei compensi, legata ai risultati, costituisce ormai il 35 per cento della retribuzione complessiva di tutta la categoria e che, all’interno di questa quota, il meccanismo delle stock options oggi ricopre da solo il 16 per cento.

L’assegnazione gratuita o scontata di titoli societari è stata istituzionalmente concepita per il personale dipendente e questa caratteristica è enfatizzata proprio nella sua applicazione ai piani alti delle imprese, essendo strutturata per premiare esclusivamente gli uomini che ai vertici dell’organizzazione gerarchica detengono la responsabilità della guida strategica, senza però far parte della proprietà e senza essere soci. La sua applicazione ha costituzionalmente la natura di incentivo: in primo luogo per motivare maggiormente il management di fascia elevata a ottenere risultati lusinghieri, facendo incrementare il valore di borsa; in seconda istanza per accrescerne l’interesse a restare al comando di una società in definitiva assai generosa con loro, senza cedere alle lusinghe della concorrenza dando le dimissioni e passando al servizio di gruppi rivali.

Come dimostrano i casi più significativi raccontati, questa pratica di origine anglosassone sta invece prendendo ora in Italia  (e solamente in Italia) una piega diversa. Viene adottata a piene mani a favore degli stessi azionisti di controllo o di riferimento delle aziende iscritte ai listini borsistici, di imprese cioè che sono state quotate dai rispettivi proprietari e amministratori per raccogliere nuovi capitali sul mercato, coinvolgendo il pubblico dei risparmiatori e degli investitori facendone altrettanti soci e promettendo loro di conseguenza un’equa ripartizione degli utili in ragione delle quote detenute. In particolare, l’apporto di capitali effettuato con la sottoscrizione di titoli si basa sulla premessa di un ritorno d’interessi sotto la forma della suddivisione dei profitti, chiamati appunto dividendi.

Il fenomeno delle stock options a vantaggio degli azionisti di maggioranza significa al contrario che parte degli utili generati dall’attività sociale viene deviata o, se si vuole, stornata prima dell’assegnazione pro-quota a favore di tutto l’azionariato. E quindi i tradizionali dividendi di fine anno saranno assai più consistenti per i soci forti di quelli riservati agli altri sottoscrittori.

Non è un caso che proprio le ultime clamorose e sempre più frequenti circostanze abbiano sollevato non poche polemiche nello stesso ristretto ambito imprenditoriale e finanziario. Come ricorda Michel Foucault (Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1994): «La forza simbolica del denaro, capace di eccitare tutte le brame e tutte le passioni, non deriva dal fascino di una materia preziosa e nobile, ma dalla consapevolezza che chi si trova a disporne detiene un diritto nei confronti del quale tutta la società è obbligata».

In effetti tutto avviene in forma legittima. Per quanto di attuazione relativamente recente, si tratta di una prassi consolidata, regolata in modo specifico nei suoi vari aspetti dal codice civile e che ha trovato un ulteriore e aggiornato quadro di riferimento nel testo unico della finanza (decreto legislativo numero 58 del 24 febbraio 1998) e nelle cosiddette raccomandazioni di «corporate governance». Una specie di codice etico varato dalla borsa italiana per rendere più trasparente la gestione delle società e di conseguenza più equilibrato il loro rapporto con tutto il pubblico di «shareholders» (azioni- sti propriamente detti) e «stackholders» (tutti i soggetti esterni che qualsiasi compagnia, svolgendo la sua attività, necessariamente coinvolge). Ma il punto non riguarda la liceità formale. La vera questione in gioco si riferisce al particolare atteggiamento che il capitalismo italiano sta disvelando proprio nel momento in cui il mercato mobiliare comincia a crescere. Sembra materializzarsi una nota immagine di Alexandre Dumas figlio in La question d’argent: «Les affaires? C’est bien simple: c’est l’argent des autres» (Gli affari? È semplicissimo: sono i quattrini degli altri).

Invece di apparire più maturo, il nuovo volto dei capitani d’industria e della finanza si sta decomponendo. «Gli uomini d’affari hanno molta energia. Il problema», ha scritto Saul Bellow in un romanzo non molto noto, «è vedere cosa brucia questa energia; vedere cosa si può o non si può bruciare per produrla». E poiché da tempo «il denaro ha assunto la funzione di categoria del pensiero» (Alessandro Comoglio, Le filosofie del denaro, Paravia, Torino, 2000) appare ragionevole cercare di approfondire.

Rispetto al passato più recente sembra di poter cogliere nello scenario del capitalismo italiano del Duemila almeno tre fattori distintivi.

Il salto nel tempo

Non è esagerato parlare di assalto. Perché l’opportunità di esercitare le stock options nell’arco di un certo periodo di tempo, e sulla base di un prezzo di partenza molto vantaggioso, provoca (oltre a quanto visto prima) un’altra vistosa anomalia.

I «normali azionisti» infatti vedono di solito avverarsi per i beneficiari di questi privilegi le migliori condizioni possibili fra tutte quelle ipotizzate contrattualmente, anche quando piazza Affari attraversa stagioni abbastanza deprimenti come le ultime trascorse. I titoli non vengono certo scontati quando gli indici sono al ribasso e il pericolo di eventuali perdite è quindi scongiurato, mentre resta soltanto da cogliere il momento ideale per vendere al meglio quando le capitalizzazioni salgono.

Fanno testo a questo proposito i tempi dell’operazione Optical technologies. La concessione gratuita di titoli risale scritturalmente al 1998, ma viene ufficialmente ratificata dal consiglio d’amministrazione il l8 maggio 2000, mentre le prime informazioni sull’avvio delle trattative ufficiali fra Pirelli e Corning emergono a distanza di poche settimane.

Caratteristiche analoghe si rilevano in un altro clamoroso guadagno realizzato da Lorenzo Pellicioli, amministratore delegato di Seat Pagine Gialle. Giovedì 27 luglio 2000, con 3,479 miliardi di lire, aveva sottoscritto 8.380 azioni di nuova emissione della società lussemburghese Huit, detentrice del pacchetto di controllo della stessa Seat, e due settimane dopo, il 10 agosto, quelle quote erano già state riacquistate dalla stessa capogruppo per 170 miliardi. In questo modo Pellicioli ha realizzato una plusvalenza di 166,521 miliardi, ossia di 11,89 miliardi al giorno. Frutto di un accordo datato 3 marzo 1998, il fantastico premio si legava alla complessa operazione del valore di 16 mila miliardi che aveva portato Seat in Telecom. In realtà ha però trovato esecuzione effettiva soltanto dopo la successiva fusione di Pagine Gialle con Tin.it.

Questa circostanza, oltre ad avvalorare il «tesoretto» del manager,  ha creato un terzo caso. Ha infatti portato sostanziosi benefici anche ai soci più importanti di Hopa (holding cui fa capo tutto l’impero Telecom), come Emilio Gnutti e Colaninno, risultati in possesso a titolo personale di azioni delle varie società coinvolte nelle manovre di fusione e accorpamento.
Viene così confermata una nota teoria espressa, fra gli altri, anche da Vittorio Mathieu (Filosofia del denaro, Armando, Roma, 1985), secondo cui la moneta compie il suo effettivo salto di qualità nella scala dei principi umani quando rompe la dimensione temporale. Più che portatore in sé di un valore intrinseco e più che rappresentante di garanzia del valore, il denaro permette infatti il trasferimento del valore da un periodo di tempo all’altro, mantenendo la ricchezza come potenzialità più o meno intatta. È in questa proiezione dell’azione nel futuro che si è fatto complice dell’ambizione progettuale dell’uomo, spingendolo a concepire disegni che sfidano il tempo biologico della sua stessa vita. Come dicono i filosofi, non assicura beni, bensì progetti; e quando asseconda questa proiezione esclusiva dell’attività umana entra in una dimensione teleologica.

Il denaro come unico valore assoluto

Nel Faust di Wolfgang Goethe il denaro è uno dei grandi artifici di Mefistofele e la speranza di ottenere «qualcosa» della ricchezza dal «nulla» di un pezzo di carta viene assimilata alla promessa del serpente ad Adamo: «eritis sicut dei». A questo si può pensare guardando alla piazza finanziaria italiana, su cui è dato di assistere oggi ad altre manifestazioni sostanzialmente improprie (seppure giuridicamente corrette) che hanno registrato l’apice della loro preoccupante diffusione durante la grande stagione della  «new economy».

Sulla scia del solito modello d’oltreoceano, il Nasdaq americano, sono state infatti quotate in poche settimane molte società neonate, in particolare al nuovo mercato dei titoli tecnologici, definite generalmente «dot.com» per via di non sempre chiari collegamenti con il mondo di Internet. In base all’inedito regolamento di ammissione dedicato alle società che si trovano al debutto dell’attività e che non possono contare su esercizi precedenti e su bilanci passati, i loro fondatori hanno fatto leva su una clausola chiamata «lock up». Per ottenere il credito di fiducia necessario a mettere in vendita dal 30 per cento al 50 per cento di titoli privi di riscontri economici e con un valore soltanto stimato dalle banche o dagli analisti finanziari, si sono cioè impegnati a conservare tutto il resto delle azioni emesse per un certo periodo di anni.

Eppure, alla realtà dei fatti, le cose sono andate diversamente. Un esempio per tutti riguarda Carlo De Benedetti, anche se la casistica (da Pierluigi Crudele di Finmatica  a Virgilio Degiovanni di Freedomland, da Luigi Orsi Carbone di e.Planet a Francesco Micheli e Silvio Scaglia di e.Biscom) è folta. Il 20 marzo 2000 De Benedetti ha portato a piazza Affari la sua ultima creatura, Cdb Web Tech, con soli 11 dipendenti, di cui si era riservato la quota del 57 per cento. Il resto era stato prontamente collocato, tanto che nei primi giorni i valori si erano impennati del 98 per cento, raggiungendo una capitalizzazione globale pari a 14 mila miliardi. Oggi la quotazione è scesa da 76 a meno di 7 euro, ma De Benedetti non ha più il 57 per cento. Il 23 marzo 2000 aveva per esempio già venduto un pacchetto pari al 5 per cento intascando circa 300 miliardi: 100 miliardi al giorno!

Con ogni probabilità non appare chiaramente intelleggibile la differenza fra queste matricole e le cosiddette scatole vuote o scatole cinesi che hanno sempre costituito il lato oscuro del listino. Negli usi di borsa appaiono tutti marchingegni per alimentare la speculazione pura e semplice. I titoli delle società-scatole non erano (e in parte non sono ancora) rappresentativi di attività produttive, ma di società finanziarie contenenti al loro interno partecipazioni di controllo di altre imprese, e la loro quotazione corrisponde principalmente allo scopo di drenare dal mercato mobiliare nuovi capitali, con i quali finanziare le aziende consociate o altri disegni di espansione.

Nei casi più recenti d’ammissione alla borsa si tende invece più che altro a realizzare subito un corposo guadagno, lasciando quasi sempre in subordine (e a puro titolo giustificatorio) l’obiettivo di rendere produttivi gli investimenti e di avviare progetti e iniziative economiche. Più finanza che altro, insomma, con l’idea fissa di arricchirsi.

Il salto di qualità, negativamente parlando,  non è indifferente, né indolore e il titolo giusto è lo stesso del libro di Sergio Moscovici: La fabbrica degli dei (Il Mulino, Bologna, 1991). Mezzo che incorpora la possibilità di tutti i valori con il valore di tutte le possibilità, senza contenuto né istruzioni per l’uso e totalmente arrendevole alle intenzioni del suo possessore, secondo la definizione di Georg Simmel, il denaro diventa insomma fine a se stesso anche là dove in realtà dovrebbe produrre le sue capacità generatrici di risorse e dove il capitalismo dovrebbe celebrare il suo «rito»: far crescere il mercato ed esprimersi in funzione del progresso. Finisce per essere smentito l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio della follia («Sui sentimenti privati prevalga l’interesse pubblico; sebbene, provvedendo a quest’ultimo, si favorisce anche la propria fortuna») e viene contraddetto anche l’economista e filosofo scozzese Adam Smith, cui si deve proprio la teoria della cosiddetta «mano invisibile» (intesa come mercato), secondo la quale anche il comportamento egoistico individuale conduce al risultato collettivo più desiderabile, ossia l’uso efficiente delle risorse. Alla fine vince solo il famoso aforisma di Oscar Wilde: «Oggigiorno si conosce il prezzo di tutto e il valore di niente».

Finalmente globali  
In passato gli imprenditori hanno percorso molte vie, impervie oltre che assai discutibili, per far crescere le proprie aziende e con esse il loro attivo e quindi anche e soprattutto il tornaconto personale in termini di profitti di competenza. Su questo non sussistono dubbi. Francamente però non li si era mai visti andare così scopertamente all’assalto delle loro imprese, cercando cioè di intercettare, con vari accorgimenti, risorse davvero ingenti prima di arrivare alla formazione del risultato operativo, quello che determina l’autentico saldo finale da sottoporre sia all’approvazione dei soci principali e di tutto l’azionariato. sia al giudizio del mercato nel suo complesso.

In una tradizionale ricerca di prudenza, i padroni delle precedenti generazioni, per esempio, si sono sempre tramandati, quasi per via ereditaria, il vezzo di figurare oltre che come consiglieri d’amministrazione anche come manager dipendenti delle loro compagnie, con regolare stipendio e connessa copertura previdenziale e contributiva. La prassi, però, si esauriva lì, in una sorta di «ombrello» familiare. Adesso invece succede ben altro. Il re del rame Luigi Orlando, presidente della Smi, ha ricevuto dal consiglio d’amministrazione di cui fa parte insieme con il figlio un «bonus» di 18 miliardi di lire lordi, come premio per avere guidato il gruppo per quarant’anni e specificatamente per i risultati raggiunti nell’ultimo decennio. In base a una norma dello statuto sociale, tutti i consiglieri Pirelli hanno diritto a spartirsi l’1 per cento dei profitti e così nell’ultimo anno azionisti come Alberto Falck, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti e lo stesso Orlando (ancora lui) hanno incassato quasi 2 miliardi a testa, ai quali Alessandro Puri Negri ha aggiunto emolumenti vari per altri 15,7 miliardi. Alla Benetton i quattro fratelli proprietari nel 2000 hanno percepito 2,6 miliardi a testa. In Hdp il socio Maurizio Romiti, che è anche amministratore delegato, e il consigliere Giancarlo Giammetti si sono intascati rispettivamente 3,3 e 4,2 miliardi.Anche in Italia, sull’esempio degli Stati Uniti, si diffondono così classifiche annuali sui capi d’azienda meglio pagati che da quattro anni descrivono fedelmente e con un’affidabilità assolutamente superiore a prima la reale situazione. In genere la retribuzione complessiva dei grandi manager è ancora assai lontana dai livelli americani. Gli aspetti di maggiore interesse sono però altri due.

Il primo riguarda l’ampia incidenza delle cosiddette stock options rispetto alla busta paga e agli eventuali benefits (macchina aziendale, coperture assicurative e premi di produzione vari). Su queste forme retributive vengono applicate in sede di prelievo fiscale le aliquote progressive previste per i redditi da lavoro e così si sta imponendo un ricorso abbastanza generalizzato alla prima formula: trattandosi di operazioni su titoli, il regime tributario applicato è quello, assai più favorevole, previsto per i guadagni da «capital gain», ossia da plusvalenza.

Il secondo profilo, ancora più appariscente, concerne il fatto che nessuna hit parade degli altri paesi contiene amministratori, ossia membri dell’azionariato cui fanno capo le società. Il ruolo fra soci e manager è nettamente distinto e anche quando ricoprono eventuali incarichi dirigenziali i rappresentanti della proprietà (che già godono per diritto dei dividendi di fine bilancio) denunciano remunerazioni quasi simboliche. La graduatoria italiana dei compensi (che non comprende, come detto, i ricavi da dividendi) è invece popolata da azionisti: 18 fra i primi 40 e addirittura quattro fra i primi sei.

C’è tuttavia un’osservazione di carattere generale che emerge da questo scenario. Nella comunità finanziaria la globalizzazione è un dato di fatto. Lo è nel mercato e nelle borse; vengono mutuate le formule d’investimento così come quelle di retribuzione; c’è il confronto internazionale fra i «re di denari» e le «regine dei listini»; si rincorrono i miti della ricchezza e dei risultati economici. Già nel 1964 Marshall Mc Luhan scriveva: «Si tratta di una condizione esistenziale nuova… dissolta in uno scintillio di reti e di livelli. L’identità dell’individuo non è più incapsulata, come in passato, all’interno di sfere concentriche (famiglia, corporazione, stato, chiesa), ma si costruisce in modo eccentrico, attraverso la partecipazione simultanea, e spesso involontaria, a un ventaglio infinito di combinazioni sociali possibili» (Gli strumenti del comunicare, Est Saggiatore,  Milano, 1999).

D’altra parte la moneta è la terza grande lingua senza frontiere con l’alfabeto e la musica, ma insuperabile per sintesi e traducibilità, e riesce a imporre forme d’azione e di pensiero pervasive, fino a diventare quasi l’unico punto di riferimento per la società. Già alle soglie del Novecento, notava Simmel, soltanto il denaro poteva consentire a un cittadino tedesco, capitalista od operaio che fosse, di essere realmente partecipe di un cambio di ministri in Spagna o dell’esito di una rivoluzione nell’America del Sud (La filosofia del denaro, Utet, Torino 1984). Gli ha fatto poi eco, nel 1918, Oswal Sprengler (Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 1981) con un concetto pressoché analogo: «Ogni economia evoluta è un’economia di città. L’economia mondiale, che è quella di tutte le civilizzazioni, la si dovrebbe chiamare l’economia delle città cosmopolite. Nelle civilizzazioni gli stessi destini dell’economia si decidono soltanto in pochi punti, nei luoghi del denaro che anche in altre civiltà si potrebbero chiamare luoghi della borsa, se per borsa s’intende l’organo intellettuale di una perfetta economia finanziaria: Babilonia, Tebe, Roma, Bisanzio e Bagdad, Londra, New York, Berlino e Parigi». «Lì l’ebreo, il maomettano e il cristiano si trattano reciprocamente come se fossero della stessa religione e chiamano infedeli solo quelli che fanno bancarotta» è la citazione che si potrebbe aggiungere; straordinaria perché appartiene alle Lettres philosophiques di Voltaire e risale a quasi due secoli prima.

Ebbene, i capitani d’impresa italiani sembrano riuscire a trarre, se possibile, il peggio da questo processo. E così appare comico quanto viene sostenuto nelle occasioni ufficiali (per esempio all’assemblea generale della Confindustria) o quando si sente parlare il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, di «share economy», di economia della partecipazione azionaria.

Tra mistica e mistificazione

 
Nonostante tutte le perplessità che si possono nutrire e nonostante l’evidente rischio di cadere nel ridicolo, si può affermare che il capitalismo si richiama nelle sue concezioni teoriche a fondamentali principi di etica. Concetti di libera  iniziativa e libero mercato, di uguali opportunità, di combinazione fra lavoro e capitale nell’organizzazione produttiva, di sfruttamento delle risorse per assicurare la crescita, di ricerca scientifica e tecnologica come fattori di sviluppo, sono tutti basati sul presupposto (sempre teorico) di perseguire il bene comune. E si sente affermare sempre più spesso che la consapevolezza degli imprenditori è di stare dalla parte di chi crede e si impegna con convinzione nell’evoluzione civile e nel progresso come benessere diffuso della società e che ogni loro iniziativa finisce per riferirsi alla creazione delle condizioni di sviluppo, perché soltanto con questo si creano nuovi posti di lavoro, si sostengono i programmi sociali, si ottengono le risorse indispensabili per promuovere nuovi interventi.

Secondo la «mistica del capitalismo» il primo dei contenuti, nell’azione degli imprenditori, ripropone in sostanza questo valore: lo sviluppo fatto di crescita economica e di qualità della vita delle persone, perché in un sistema effettivo e consolidato di valori sono proprio le società che hanno abbracciato le regole dell’economia di mercato a essere le più solidali.

Lo scrittore Alfred North Whitehead sosteneva giustamente in Avventura delle idee che una grande società è una società in cui gli uomini d’affari hanno una grande idea delle loro funzioni. Ma la mistificazione è dietro l’angolo e i nuovi capitalisti d’assalto sono già arrivati a ricordare che in Italia, per loro, non cambia nulla, se non in peggio. Suona sinistra un’analisi di Bertrand Russel contenuta in una delle sue opere più note (L’autorità e l’individuo): «Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore».

Editor
Fonte: http://www.libertaria.it/articoli_online/impresamia.htm

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